Sunday, 25 May 2025
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Pubblicato il 24 May 2025 alle 20:00
Olbia. C’è un fatto che va raccontato. Non per ottenere risarcimenti (al momento), non per visibilità, ma per dignità e verità.
Qualche giorno fa, per puro caso, mi sono imbattuto in alcune schede archeologiche caricate sul Geoportale Nazionale per l’Archeologia (GNA), la piattaforma ufficiale del Ministero della Cultura ( clicca qui per accedere al sito).
Su quelle schede — pubbliche, accessibili, ufficiali — compare il mio nome come compilatore. Non una volta. Decine. E in più di dieci comuni della Sardegna: Olbia, Golfo Aranci, La Maddalena, Santa Teresa di Gallura, Padru, Sant’Antonio di Gallura, Luogosanto, Ala dei Sardi, Bitti, Osidda, Telti, Loiri, Posada, Torpè, Siniscola, Orune, e altri ancora.
In alcuni non ci sono nemmeno mai stato, pur essendo luoghi ricchi di cultura e archeologia come Orune e Osidda. In altri, come Bitti, ci sono stato solo per le Cortes Apertas o per visitare il noto sito di Su Romanzesu, ma non ho mai condotto neppure una ricognizione.
Eppure lì, in calce, c’è scritto: “Compilatore: M.A. Amucano”.
Lo dichiaro pubblicamente: quelle schede non le ho mai compilate, non ne ho mai autorizzato la redazione e non ho mai prestato il mio nome per la loro compilazione. Nessuno mi ha mai richiesto alcun consenso in merito.
Eppure sono lì. In bella mostra. Firmate da me, senza che io ne sapessi nulla.
Chi sono?
Sono un Dottore di Ricerca in Archeologia medievale, docente di ruolo, giornalista pubblicista, ho collaborato per anni con la Soprintendenza, condotto studi faticosi e rigorosi (così li giudicano), pubblicato numerosi articoli, schedato centinaia di monumenti in decine di comuni, restituito alla ricerca scientifica pezzi di Sardegna nascosta.
Si dà il caso, tuttavia, che da più di undici anni non svolgo più incarichi in ambito archeologico: non ne avrei il tempo.
Sono oggi un insegnante, un autore, un cittadino che continua a dedicarsi alla cultura e alla verità.
Non sono scomparso. Sono soltanto passato ad altro.
Ma qualcuno ha deciso di usare il mio nome.
Di attribuirmi schede scritte con sciatta approssimazione, piene di refusi ed errori (Porto Pozzo mi diventa Porto Rozzo, solo per citare un esempio), e talvolta con contenuti ai limiti della fantarcheologia.
Eppure sarebbe bastato chiedermelo.
Avrei ancora dato volentieri il mio contributo.
Avrei partecipato a una schedatura degna, documentata, verificabile.
Ma non avrei mai permesso che il mio nome fosse associato a schede raffazzonate, scadenti, indegne del portale in cui sono pubblicate.
Quel modo di scrivere — con errori, refusi, frasi sgrammaticate — lede fortemente la mia professionalità anche di professore di italiano e di scrittore.
Il mio nome è anche una firma. E quando una firma viene usata senza autorizzazione per sottoscrivere contenuti indecorosi, il danno è doppio: per il lettore e per chi quella firma la porta con serietà da decenni.
Il 23 maggio ho inviato una PEC ufficiale al Ministero della Cultura, all’Istituto Centrale per l’Archeologia, alla Direzione Generale ABAP e alla Soprintendenza competente, chiedendo:
1. la rimozione immediata delle schede a me attribuite;
2. la documentazione che provi con quale atto, mandato o delega sia stato usato il mio nome;
3. l’identità di chi ha materialmente compilato e caricato quei dati.
Non si tratta solo di un errore.
È un atto illecito e lesivo, sul piano della privacy, della reputazione professionale, della dignità personale.
Il mio nome non è un’etichetta da appiccicare per dare autorevolezza a lavori scritti male.
La firma è un atto di responsabilità.
Chi lo dimentica, non fa cultura. Fa solo danni.
Non so ancora chi abbia fatto tutto questo.
So però che il silenzio, dopo l’abuso, sarebbe ancora peggio.
In attesa di risposte — che non possono tardare — ho scelto di rendere pubblica questa vicenda.
Perché chi lavora nella verità non ha nulla da temere dalla luce.
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