Wednesday, 24 September 2025
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Pubblicato il 24 September 2025 alle 13:00
Olbia. Medici e infermieri in Sardegna sono preparati, ma ridotti allo stremo. Turni massacranti, pronto soccorso sovraffollati, reparti svuotati di specialisti: la sanità pubblica dell’Isola si regge sul sacrificio di un personale che resiste, ma che non basta più. Le telecamere di Presa Diretta hanno mostrato senza filtri il volto reale del sistema: un apparato che d’estate va in apnea e d’inverno non respira.
Eppure, appena una settimana fa – il 17 settembre 2025 – la Regione Sardegna ha applaudito alla nuova legge sul fine vita, diventando la seconda regione italiana a dotarsi di una normativa ispirata alla proposta dell’associazione Luca Coscioni. Un provvedimento votato a maggioranza, con 32 sì, 19 no e un solo astenuto, illustrato in Aula dalla presidente della Commissione Sanità, Carla Fundoni (PD). Una legge salutata come “un passo avanti di civiltà”. Ma queste parole risuonano come un paradosso crudele in una terra dove migliaia di cittadini non riescono nemmeno a prenotare un’ecografia, sono costretti a viaggiare per centinaia di chilometri o a rinunciare alle cure se non hanno i soldi per rivolgersi al privato. Si scrive il diritto a morire in tempi certi e concordati, ma ogni giorno si allontana sempre di più il diritto alle cure, il diritto a vivere.
In Gallura l’inviata di Rai3 Francesca Fava ha percorso gli ospedali di Tempio, La Maddalena e Olbia, raccogliendo testimonianze dirette, anche con telecamera nascosta (qui un articolo). A Tempio, sulla carta, non possono gestire codici rossi, ma durante le riprese due emergenze gravissime – un infarto e un’emorragia cerebrale – hanno dovuto essere trasferite a Olbia. "Un medico a gettone con 20 pazienti e due codici rossissimi: facciamo quello che possiamo, stabilizziamo e via",, hanno raccontato gli operatori. A La Maddalena la popolazione estiva si quintuplica, ma la struttura è stata ridotta a una “casa di comunità”: mancano specialisti, non si trattano codici gialli, arancioni o rossi, si procede con la sola stabilizzazione e poi ambulanza o elicottero verso Olbia.
Ma anche a Olbia, l’unico pronto soccorso di primo livello della Gallura, emergono falle gravissime. L’ospedale Giovanni Paolo II dispone di un’area OBI, Osservazione Breve Intensiva, prevista per legge, ma mai accreditata. Il risultato: i casi più gravi sostano lì per giorni, settimane, persino mesi. Nel giorno delle riprese c’erano 62 pazienti, di cui 30 sistemati su barelle in pronto soccorso in attesa di ricovero. "Violazione di tutte le norme di sicurezza: dieci persone per stanza, personale distrutto dal carico di lavoro", ha denunciato un infermiere. Interpellato da Presa Diretta, l’assessore regionale Armando Bartolazzi ha commentato: "Se dovessimo guardare tutte le cose obbligatorie per legge, bisognerebbe rivedere molti ospedali".
La trasmissione ha ricordato anche il progetto della precedente giunta e mai approvato: l’arrivo di 123 medici cubani per coprire i turni nei pronto soccorso. "Era un piano a tempo limitato", ha spiegato Bartolazzi, annunciando una soluzione diversa: contratti stagionali per medici disposti a lavorare nei PS con le famiglie al seguito, tre-quattro mesi l’anno. Una toppa, non una riforma.
E intanto le liste d’attesa restano infinite. Proprio in questi giorni un’olbiese malata cronica si è vista proporre, per una semplice ecografia alle carotidi, un appuntamento a Sorgono nell’ottobre 2026. L’alternativa? Il privato a pagamento. Ma chi non ha soldi? Chi vive con 600 euro di pensione? Per molti la risposta è una sola: rinunciare. Rinunciare a curarsi, a controlli fondamentali, a una diagnosi precoce.
Il 18 settembre la presidente Alessandra Todde aveva rivendicato i dati dell’emergenza-urgenza: 53mila interventi 118 gestiti dalle centrali di Cagliari e Sassari (+5% rispetto al 2024), 709 missioni di elisoccorso, di cui 26 fuori regione e 20 in aree impervie. "Sono risultati concreti, frutto dello straordinario lavoro di Areus, degli operatori e del volontariato", ha detto la presidente, sottolineando l’avvio di nuove postazioni estive e l’impegno per una quarta elibase nella Sardegna centrale. Il giorno dopo, il 19 settembre, Todde ha incontrato insieme a Bartolazzi i precari OSS, annunciando un percorso misto di assunzioni e stabilizzazioni. Ma la Regione porta soprattutto statistiche, progetti non ancora realizzati e la promessa che “stiamo lavorando per migliorare”.
E così, mentre si celebra il diritto a morire, i corridoi degli ospedali raccontano altro. In Sardegna riaffiora l’immagine dell’accabadora, la donna che nei paesi veniva chiamata quando una persona non riusciva più a morire. "Prima che lei entrasse, i familiari dovevano svuotare la stanza: via i simboli religiosi, i mobili, i quadri, i comodini. Restava solo il letto con il paziente, al centro. Poi lei entrava e, con un gesto, poneva fine alla sofferenza", mi ha raccontato T.D., della provincia di Oristano, che da ragazzina, alla fine degli anni Cinquanta, aveva assistito a quella scena restando fuori dalla porta, mano nella mano con sua madre. Quello che poteva sembrare solo un mito popolare ha lasciato tracce concrete: nel Museo Galluras di Luras è conservato il martello della Femina Agabbadòra, un arnese di legno rinvenuto in un vecchio stazzo in demolizione, accanto a frammenti di orbace nero. Un reperto che lega memoria e territorio, e che oggi – nel pieno della crisi sanitaria – smette di essere solo storia museale per trasformarsi in simbolo inquietante di attualità.
Allora era pietà popolare, oggi evoca il paradosso di una Regione che legifera sul fine vita mentre non riesce a garantire il diritto alla salute e alle cure.
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