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Olbiesità: una categoria discutibile dal punto di vista antropologico

Olbia, dal punto di vista storico-demografico, è una città fondata sulla mobilità

Olbiesità: una categoria discutibile dal punto di vista antropologico
Olbiesità: una categoria discutibile dal punto di vista antropologico
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 06 August 2025 alle 10:00

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Olbia. Negli ultimi anni, nell’ambito di alcune iniziative culturali e mediatiche locali, si è diffuso il ricorso alla parola “Olbiesità” come tentativo di definire una sorta di identità collettiva legata alla città di Olbia. Il termine, per quanto suggestivo, solleva interrogativi importanti sul piano storico, sociale e antropologico.

Sotto il profilo etimologico e concettuale, la nozione di “Olbiesità” appare priva di un fondamento solido. Non risulta, infatti, né attestata nella tradizione linguistica sarda o italiana, né supportata da una definizione condivisa all’interno degli studi antropologici sul territorio.

Al contrario, si tratta di un’etichetta recente, un neologismo costruito in ambiti circoscritti, spesso in occasione di mostre, pubblicazioni o narrazioni selettive legate a ristretti circuiti culturali consolidati.

Olbia, dal punto di vista storico-demografico, è una città fondata sulla mobilità.
Nel corso degli ultimi settant’anni, il suo tessuto urbano si è sviluppato attraverso un massiccio afflusso di popolazione proveniente non solo da altri centri della Sardegna, ma anche da numerose regioni italiane e paesi stranieri.

Basti pensare che, secondo gli ultimi dati Demo Istat, i cittadini di origine straniera residenti a Olbia sono quasi seimila unità, con una forte incidenza — nell'ordine — delle comunità: rumena; senegalese; marocchina; ucraina; albanese a cui ne seguono altre di minore consistenza numerica, non per questo meno rilevanti (es. comunità cinese). Queste persone non solo risiedono stabilmente nel territorio, ma vi lavorano, vi crescono famiglie, vi partecipano in modo attivo e costante. Anche appassionato.

In tale contesto, parlare di “Olbiesità” come se si trattasse di una identità originaria, chiusa, trasmissibile per nascita o per “stile di vita condiviso” (bisognerebbe poi vedere cosa si intende con ciò), rischia di risultare fuorviante, culturalmente poco inclusivo.

Una città come Olbia, che ha costruito la propria identità moderna sulla stratificazione di provenienze, storie, lingue e percorsi diversi, fin dall'epoca romana, non può essere racchiusa in una categoria identitaria rigida (per quanto vagamente definita...) o celebrativa.

Chi scrive ha alle spalle una genealogia familiare documentata a Olbia almeno dal XVII secolo, ma proprio per questo motivo considera inaccettabile una visione esclusiva o mitizzata dell’appartenenza locale, o a certi modi di essere e pensare. O a certi luoghi da frequentare.

L’identità di una comunità non si costruisce a partire dalla memoria selettiva, ma dalla capacità di includere le molteplici forme di radicamento: chi nasce, chi resta, chi arriva, chi sceglie.

In termini antropologici, sarebbe dunque più opportuno sostituire il concetto di “Olbiesità” con una riflessione più ampia sulla pluralità delle identità urbane, sulla coesistenza di micro-comunità, sulla trasformazione continua dei luoghi di appartenenza e sulla molteplicità di questi.

Una città non è uno specchio, ma un tessuto in evoluzione. E la sua vera forza sta nella capacità di accogliere le differenze senza irrigidirle in modelli fissi o simbolici preconfezionati arbitrariamente.

Il rischio, altrimenti, è quello di trasformare un’idea potenzialmente fertile in un’espressione simbolica esclusiva e autoreferenziale, che restituisce solo un’immagine parziale — e dunque falsata — della realtà cittadina.

In definitiva, più che insistere su una presunta “Olbiesità” da celebrare, sarebbe forse più utile domandarsi quali volti, quali storie, quali voci mancano ancora nei racconti pubblici su Olbia. È lì che passa la vera costruzione di una città: nella ricerca attiva di ciò che non si vede e non si nomina. Ma esiste.