Thursday, 05 December 2024
Informazione dal 1999
Pubblicato il 02 February 2021 alle 18:45
Olbia. Nel 1952 viene eseguita per la prima volta “4,33”, una composizione di John Cage. Il brano richiede che il pianista si sieda al piano con le mani sulla tastiera per quattro minuti e trentatré secondi senza produrre una singola nota. L’intento dell’esecuzione è quello di spingere il pubblico a porre attenzione ai rumori del mondo, ad apprezzare il “qui ed ora” dei suoni quotidiani e a riflettere sull’impossibilità del silenzio. Non sono certo i suoni a mancare nella vita quotidiana, ma l’attenzione a come ci influenzano e la curiosità verso gli aspetti sociali che li producono [1]. «Sto per firmare un provvedimento che potrei definire così: #iorestoacasa. Non ci saranno più “zonarossa” o “zona 1 e zone 2”, ci sarà solo l’Italia zona protetta. Saranno quindi da evitare spostamenti su tutto il territorio nazionale a meno che non siano motivati da ragioni di lavoro, necessità o salute»[2]. Con queste parole il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in una conferenza stampa annunciava l’inizio del lockdown in Italia che confinando in casa le persone andava a stravolgere le abitudini e gli stili di vita, ma anche il paesaggio sonoro di tutte le aree urbane e non, permettendo quell’attenzione auspicata da Cage, in una maniera cui nessuno avrebbe mai immaginato. Ci veniva così “forzatamente” concesso il tempo per riflettere sui quei suoni sociali a cui normalmente non prestiamo attenzione e alla loro sostenibilità. Nelle intenzioni dell’Unesco, il 2020 doveva essere l’anno internazionale del suono, destinato a sensibilizzare i cittadini di ogni Paese sulle tematiche dell’ambiente sonoro e del rumore. In realtà quest’anno verrà ricordato soprattutto come l’anno del silenzio. Silenzio sicuramente assordante negli abitati più grandi, dove lo spegnimento dei motori ha fatto precipitare i rumori, i suoni che sono informazioni che ci consentono di monitorare ciò che sta succedendo intorno a noi. Spesso il silenzio viene associato alla morte e il rumore alla vita. Con il silenzio nel lockdown viene rappresentata la morte come fine temporanea del consumismo, assenza di informazione e avvio del tempo della riflessione. Improvvisamente abbiamo abbastanza tempo per analizzare la trasformazione di ciò che ci circonda attraverso l’ascolto ritrovato, pratica consapevole di una vita più equilibrata. Un’opportunità nuova per ripensare la contemporaneità, per capire se tutto andrà bene, se ne usciremo migliori. Le città si fermano e con esse i loro suoni. Ed è proprio l’atto del fermarsi che ne favorisce l’ascolto. Il tempo della mutazione sonora è stato finora inesorabile ma lento. Il confinamento ha evidenziato soprattutto nei grandi centri urbani questa proprietà in maniera estrema e immediata. Lo stravolgimento del panorama sonoro così drastico, la dimensione spaziale ridotta ha favorito dinamiche di ascolto più intense e profonde. Fino ad oggi eravamo capaci di stare immersi nel suono circostante, ma non eravamo abituati ad ascoltare. Ora la natura suona con le sue orchestre senza che nessuno ne disturbi l’esecuzione e tutti noi stiamo nei balconi, nei giardini, ai margini dei boschi senza la frenesia del tempo, pronti ad ascoltare. «Oggi il suono del vento che scuote i lecci secolari come i filari di ferula fioriti che torniamo ad ammirare dal Sulcis alla Gallura distese gialle a perdita d’occhio»[3]. Quel vento aveva scosso tante volte i lecci, ma non c’era tempo né silenzio adeguato per quel suono. L’Italia ha visto numerosi progetti scendere in campo per documentare questo periodo attraverso i suoni. Fra i tanti va ricordata l’attività della pagina facebook Locksound-Suoni in trappola[4]. Locksound è un podcast di 11 puntate in compagnia di musicisti elettroacustici, curatori, ricercatori e audiofili per raccontare il rapporto tra percezione sonora e lockdown. Non una vera e propria intervista ma più una informale conversazione telefonica, registrata in bassa fedeltà con una banale app per android. Attraverso i protagonisti delle puntate ci si interroga su quale sia il ruolo del suono e dell’ambiente acustico in questo periodo storico segnato dalla chiusura degli spazi e dal distanziamento sociale. Altro progetto, ma su scala mondiale è Sounds from the global Covid-19lockdown.-Cities and memory [5]. L’ideatore Stuart Fowkes ha recuperato i suoni delle città per farli diventare parte di un progetto artistico in modo da verificare il cambiamento dei suoni delle città durante la pandemia. Il progetto ha ricevuto contributi da quasi cento Paesi nel mondo. È stata realizzata così una mappa sonora globale con i nuovi panorami sonori delle città del mondo. Si possono ascoltare gli applausi degli operatori sanitari, ma anche le canzoni anti coronavirus in Senegal o le preghiere in un monastero tibetano all’alba. In Italia, come in altri Stati, i contributi di questi ascolti come pratica collettiva hanno messo in luce il cambiamento del rumore negli abitati umani, dove i rumori della natura si sono riproposti senza troppe interferenze all’udito disponibile all’ascolto. A fianco al canto degli uccelli, del gallo, degli animali che riconquistano territori, si affianca il suono sinistro delle ambulanze, quello degli scenari da futuro distopico con i mezzi della protezione civile che avvisano di stare in casa ma anche quello degli inni nazionali alle 18. Protagoniste assolute tra le registrazioni del progetto sono le campane delle chiese che diventano un evento nel panorama silenzioso della quarantena. Spesso coperte dal marasma sonoro del quotidiano, talvolta odiate da chi ci convive accanto, sono state indicate come uno dei suoni percepiti maggiormente, provenienti da edifici sacri chiusi. Campane che diventano icona sonora che limita la zona culturale in mancanza di altri indizi. Qualche anno fa con l’associazione Realtà Virtuose [6], decidemmo di realizzare anche noi una mappa sonora nel territorio del nostro comune Padru e in particolare delle sue frazioni nell’entroterra della Gallura al confine con Baronie e Monte Acuto nel nord est della Sardegna. Ci interessava indagare il paesaggio sonoro e le sue trasformazioni attraverso registrazioni sul campo che intercettavano le toniche degli elementi naturali come le foreste, le sorgenti, i fiumi, ma ci sembrava utile ricercare anche quei marcatori sonori e segnali tipici delle feste religiose o laiche, delle botteghe artigiane, delle sagre paesane, consapevoli che non si poteva scindere il soggettodall’oggetto, la natura dalla cultura in una visione dualistica errata. L’obbiettivo era ed è quello di dar vita ad una biblioteca sonora che crei mondi sonori, percepiti nella maggior parte dei casi soggettivamente, che sia anche spazio emozionale della memoria che cerca di portare il concetto di comunità attraverso il suono. Una mappa sonora che dà tempo per capire come il suono si sta modificando nel tempo, che mette in luce come il paesaggio sonoro sia mutevole e dinamico vista la sua natura transitoria. Se il precipitare dell’intensità del paesaggio sonoro ai tempi del lockdown ha caratterizzato soprattutto i grandi centri, nella periferia d’Italia (paesi delle Alpi, degli Appennini, e delle isole) molti hanno sostenuto che la differenza si sia sentita meno. Molte di queste aree sono interessate da una caduta libera del suono inesorabile, colonna sonora cupa dell’avanzata dello spopolamento. «La vita nei piccoli centri non pare cambiata eccessivamente con la pandemia, le immagini delle città vuote si riflettono in quella dei piccoli paesi dove la vita aveva rallentato così tanto da apparire immobile come se il virus vi abitasse da tempo immemore» [7]. La parte già esigua di suoni antropici si è ulteriormente affievolita con la sospensione di quelle ricorrenze caratterizzanti la comunità. Sono venuti a mancare quei focolai sonori che sono i riti di convivialità che accompagnano l’organizzazione di feste religiose, la preparazione comune dei pasti, le raccolte fondi porta a porta. Anche l’assenza dei riti funebri ha contribuito a modificare i suoni percepiti e i suoni raccontati dalla comunità. «A Elva in provincia di Cuneo, il coronavirus non ha cambiato di molto le abitudini degli abitanti. Per quanto riguarda le provviste alimentari, tutti quanti sono già abituati a scendere a valle ogni quindici, venti giorni» [8]. Toni Farina su Dislivelli, intervistando altri residenti, riferisce situazioni comuni in molti piccoli centri della penisola: «Il “distanziamento sociale” per noi è una costante. Siamo talmente pochi che i vicini non li vediamo per giorni e possiamo continuare ad occuparci dei nostri animali, dei campi, della pulizia dei boschi. La montagna ha sempre richiesto una certa elasticità e talvolta sacrifici. Certo isolamento è una parola che fa paura, ma noi abbiamo vissutoisolamenti invernali da bambini anche per periodi lunghi. Senza luce, senza telefono, sappiamo che si può ripetere. La montagna ha forgiato gente temprata, ciò non toglie che abbiamo paura che il contagio risalga la valle e decimi i pochi abitanti stabili, penalizzi una realtà sociale agli sgoccioli. Paura per i nostri nonni, i nostri vecchi,che sono la nostra memoria. Quelli che si sono rifugiati qui se ne andranno appena tutto sarà finito, come hanno sempre fatto. Ma noi che restiamo abbiamo bisogno di proteggerci. La mia scelta di rimanere in montagna va oltre il fattore economico, ma occorre pazienza, tutto ritornerà. Dovremo rivedere le nostre priorità, ma questo blocco planetario sta facendo respirare la Terra» [9]. «La vita a Elva prosegue pressoché identica anche se la preoccupazione di molti riguarda il tremendo contraccolpo che tutta la popolazione del pianeta sarà costretta a subire a causa di questa pandemia. In valle già si sentono le gravi conseguenze nell’ambito turistico-ricettivo e tutti quelli che lavorano in questo settore guardano al futuro con profonda incertezza. In quanto titolare di azienda agricola sono privilegiata. Il danno ci sarà, ma posso continuare a lavorare. Per la nostra categoria il turismo è un’integrazione, una buona integrazione, ma non è tutto, le attività basate solo sul turismo sono penalizzate molto di più» [10]. Questo deve essere un monito per le attuali e future speculazioni turistiche che vivono il territorio al di fuori di quell’economia circolare che consente di vivere e far vivere le comunità. Troppo spesso anche nella nostra isola alcune attività ricettive sono rimaste slegate dal contesto e, più che offrire, hanno occupato spazi senza favorire lo sviluppo delle economie locali. Un territorio non può vivere di turismo staccato dall’agricoltura locale, dalla tradizione così come dall’innovazione tecnologica. Il coronavirus che svuota molte strutture ricettive che non hanno alla base la “buona integrazione” sono destinati ad affrontare enormi difficoltà e future incognite. Anche a Sa Pedra Bianca, frazione di circa 100 abitanti nel comune di Padru, nord est della Sardegna, dove il fenomeno del food desert lo si conosce da tempo e l’unico negozio di generi alimentari, l’edicola e il bar hanno chiuso i battenti negli anni 80, i residenti si sono adeguati come ad Elva. Per le persone anziane impossibilitate negli spostamenti, l’approvvigionamento di beni che esulano dall’autoproduzione locale, viene delegata a figli e nipoti presso i centri a valle o sulla costa. Prima della pandemia era di ausilio anche la visita di venditori ambulanti che con altoparlanti gracchianti squarciavano il paesaggio sonoro con i richiami più disparati. Essenziali e artistici al medesimo tempo, portavano con loro le bancarelle del mercato, raggiungendo località lontane, isolate, reiterando magicamente quei rituali di nomadismo di mercanzie e culture che in passato hanno favorito lo scambio di sementi e di conoscenza. In passato i mercanti che arrivavano a Sa Pedra Bianca, come nelle altre frazioni della zona per quello che era l’ambulantato stagionale, vi sostavano per diversi giorni. Arrivavano principalmente dal Nuorese a cavallo per stagnare le pentole o per riparare gli utensili, ma anche per vendere giochi e piccoli strumenti musicali portati a dorso d’asino per la festa di paese. Partecipavano a tutti gli effetti come abitanti temporanei alla vita della comunità e poi ripartivano per altri paesi per far ritorno a casa con il frutto del loro lavoro spesso barattato con qualità di sementi diverse e prodotti locali. Oggi con il miglioramento delle vie di comunicazione, l’ambulante sosta per breve tempo, ma è sempre un momento di convivialità oltre che di necessità per le persone impossibilitate a spostarsi. Quest’ulteriore silenzio al tempo del covid-19 ha contribuito ad enfatizzare oltre ai suoni degli animali e della natura, anche il senso di solitudine di alcuni. Il coronavirus ha dato ulteriore visibilità anche nei media al dibattito sui borghi. E agli studiosi che da tempo lavorano con le comunità si sono affiancati personaggi pubblici come Tito Boeri che nella trasmissione di Rai 3, Ogni cosa è illuminata, ha incentrato tutto il suo intervento sull’opportunità di riabitare i borghi ma soprattutto di trasformare le città in borghi come a evidenziarne la rivincita. Potrebbe questa nuova linfa spostare gli equilibri e sollecitare nuovi stili di vita e nuovi mondi possibili da troppo tempo auspicati? La catastrofe, a cui fa spesso riferimento l’antropologo Vito Teti nelle sue riflessioni, rende impossibile, sempre e comunque, il ritorno a un prima. In un intervista al Fatto quotidiano del 3 giugno 2020 Serge Latouche esordisce con pessimismo: «Se questa volta ci salviamo, la prossima sarà peggio». Qualche riga dopo però afferma che «la cosa più interessante è che per la prima volta la salute è stata considerata più importante dell’economia. La pandemia ha accelerato il ritorno dello Stato, la logica dell’austerità è saltata in aria». «Il Coronavirus mette in discussione lo status quo di un rapporto sbilanciato tra centro e periferia, tra pianura e montagna, tra luoghi densamente abitati e altri meno, dove i primi fino a ieri erano posti al centro e i secondi messi in secondo piano. E questa emergenza rapida ed improvvisa arriva in un momento storico già di grosso cambiamento, sotto molti punti di vista: climatico, economico, culturale. Oggi in Italia studiosi, opinionisti, professionisti e politici si chiedono se l’emergenza Covid-19 non possa essere un’occasione per ricollocare al centro delle dinamiche di sviluppo, dopo anni di oblio, un quarto dell’intero territorio nazionale costituito dalle aree interne del paese, per la stragrande maggioranza fatto di montagne»[11]. Non sono certo che tutto cambierà, nessuno è in grado di sapere se l’umanità saprà e potrà, davvero, ripartire in maniera completamente diversa dopo quella che Teti riferendosi al dramma dello spopolamento definisce catastrofe. Ma sicuramente si dovrà iniziare ribaltando il modello di sviluppo per prendersi cura del pianeta, ripartendo dai beni comuni e dal bene comune. E se è vero che le crisi offrono veramente opportunità, questo è il momento di verificarlo in maniera compatta, auspicando di poter finalmente essere ascoltatori e protagonisti di un nuovo paesaggio sonoro. Scrive Erri De Luca: «ecco che un’epidemia di polmoniti interrompe l’intensità dell’attività umana. I governi stabiliscono restrizioni e rallentamenti. L’effetto pausa produce segnali di rianimazione dell’ambiente, dai cieli alle acque. Un intervallo relativamente breve mostra che la minore pressione produttiva fa riprendere colore alla sbiadita faccia degli elementi. La micidiale polmonite che soffoca il respiro, sta a specchio dell’espansione umana che soffoca l’ambiente». Un altro mondo così come un altro suono è possibile. Note[1]Il rumore del mondo. Società, etnografia e paesaggi sonor, F. Ronzon, QuiEdit, Verona, 2010.[2] Cit. discorso del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, 9 marzo 2020.[3]Giallo Ferula, G. Mameli, La Nuova Sardegna, 6 giugno 2020.[4]https://www.facebook.com/locksoundpodcast/?ti=as[5]https://citiesandmemory.com/2020/05/remixing-sounds-global-lockdown/[6]https://www.facebook.com/realtavirtuose/[7] Cit. Seddaiu, La bottega di Zia Vittoria. In “Dialoghi Mediterranei”, n 43, maggio 2020.[8] Franco Baudino, ex sindaco, “rude” montanaro di Elva, 95 abitanti, sul numero 104 di “Dislivelli”.[9] Rivista “Dislivelli”, n. 104. Abitanti da Marmora (CU), 61 abitanti.[10] Intervista di Toni Farina a Monica Colombero (Agriturismo Lou Bia http://www.loubia.it/)su“Dislivelli”, n. 104.[11] Maurizio Dematteis, in “Dislivelli”, n.104. © Corradino Seddaiu
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