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Come isola sorella. In ricordo di Massimo Rasenti

Come isola sorella. In ricordo di Massimo Rasenti
Come isola sorella. In ricordo di Massimo Rasenti
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 23 July 2020 alle 22:11

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Olbia, 23 luglio 2020- “Noi tabaccai vendiamo tutti la stessa cosa allo stesso prezzo, come i benzinai (al tempo era così, eravamo nei primi anni Ottanta, n. d. r. ). Quello che dunque fa la differenza è il valore aggiunto al pacchetto di sigarette: giovialità, cortesia, disponibilità a farsi due chiacchiere…”

Massimo è stato figlio d’arte, e questo era stato l’insegnamento di suo padre Mario, Mario Rasenti, per me “zio Mario”, il più grande amico di papà. Il tabacchino di zio Mario Rasenti era il tabacchino storico del Corso Umberto I, o meglio di quella parte del corso che scende dolce verso il mare ed il porto, verso il resto del mondo, e ne prende la brezza, gli odori, i richiami e gli echi lontani dell'oltremare. Come Olbia.

Quel tabacchino era uno dei cuori della cittadina. Zio Mario ci metteva di tutto, oltre al cuore olbiese nel suo tabacchino, nei gloriosi anni Sessanta, quando esplodeva il turismo d’èlite. E a luglio ed agosto potevi trovarci Johnny Dorelli o Ugo Tognazzi a comprare il pacchetto di sigarette, o una bottiglia artigianale di sughero, un piccolo tappeto sardo oppure, che so, un cestino souvenir, di quelli a due colori rosso e nero col coperchio. Tutti compravano e compravamo le cartoline (chi non ricorda le cartoline edizioni Rasenti?); molti entravano solo a chiedere informazioni e indicazioni. Tanti divenivano subito amici di zio Mario. Più che un tabacchino era un emporio dove trovavi di tutto, anche le risate omaggio: zio Mario era simpaticissimo, burlone, ci lasciò tutta la sua vita di lavoratore (e di fumatore) là dentro. Finì per farci i soldi frutto di sacrifici e levatacce, e finì per metterci dentro anche i due figli, Carlo e Massimo.

Poi zio Mario se ne andò, e Carlo e Massimo divennero loro le istituzioni umane dello storico tabacchino. Che era un po’ come la farmacia dei tempi andati: ci passavamo e ci ritrovavamo, anche se non eravamo fumatori o superenalottisti, ma perché eravamo amici, eravamo “fedali” del 1960, e quasi tutti avevamo fatto le elementari insieme. Centro di informazioni e di pepati pettegolezzi , di Totocalcio e Superenalotto, con pipe e sigarette che aspettavano negli scaffali, l'esercizio aveva ridotto l’assortimento della merce. L’artigianato era passato tutto ad un altro negozio specializzato dei Rasenti, sempre sul Corso, giù verso le ferrovie, ed altri oggetti, altri gadgets erano apparsi, erano cambiati gli arredi del tabacchino che aveva perso quel fascino intriso dello spirito dizio Mario, ma i tempi ed il marketing macinavano tutto, e comunque era sempre un luogo di buonumore, di battute, di scherzi per noi giovani ventenni e trentenni.

Massimo Rasenti, Diego Cubeddu, lo scrivente, Giuseppe Serra, Gianni Piu e Giangiacomo Pischedda, coetanei e fedeli frequentatori del tabacchino Rasenti, in una foto scattata là davanti nei primissimi anni Novanta.

Carlo poi se ne andò via, troppo giovane per morire, e Massimo rimase infine solo. Finì anche quel tabacchino, fu venduto, non ho mai capito bene come, finì una storia di profumi di tabacco e cuoio di pelletteria sarda, di costume (antropologicamente inteso), di sole dell’estate riflesso nelle cartoline esposte sul marciapiede. Finì quel mondo, un mondo.

Anche Massimo si porta via le tante storie che avrebbe voluto raccontarmi, ma lascia indelebili quei ricordi nella mia memoria di quasi sessantenne. Io, purtroppo, rimandavo sempre a farmele raccontare tutte. Come si rimanda il viaggio in Corsica, perché tanto è una certezza, è lì che la vedi sempre all’orizzonte, l’isola sorella. Ma non è così, maledizione, non è così che funziona la vita, che non è un'entità geografica. Ricordo le nostre gite in barca in allegria, il suo grembiulino nero ed il fiocco rosso quando fummo compagni di banco; la sua ultima telefonata, qualche giorno fa, dall’ospedale, quando mi annunciava felice di avere ritrovato la fede, quella fede antica che ci aveva insegnato suor Gabriella nei suoi catechismi.

Riusciva a trovare sempre il lato buono di tutto. Stavolta però hai trovato il lato migliore nel tuo congedo provvisorio, anche se ci mancherai.

Perdonami se a volte sono scomparso per troppo tempo. So che leggerai comunque queste righe dall’alto, posizione in cui si vede tutto e meglio. Noi continuiamo a restare qui, rasoterra, distratti, indaffarati, presi da mille stupidaggini, ignoranti delle cose semplici che tanto amavi. Arrivederci.

Agosto 1989