Sunday, 14 September 2025
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Pubblicato il 14 September 2025 alle 09:00
Olbia. Cari lettori, con questo nuovo numero della nostra rubrica “Pillole di benessere e crescita personale”, abbiamo scelto di trattare un argomento tanto importante nell’ambito della guarigione emotiva e della crescita personale quanto spinoso: le storie che ci raccontiamo pur di non affrontare i traumi e il dolore psicologico. In questo viaggio alla scoperta delle trappole in cui cade il nostro sistema difensivo inconscio nell’intento di proteggerci dalla sofferenza emotiva – che poi ci tengono imprigionati in dinamiche disfunzionali e autosabotanti – abbiamo chiesto aiuto alla dott.ssa Paola Gallelli - esperta in dinamiche psicologico-relazionali e in avanzate tecniche di coaching – per guidarci nei sentieri insidiosi delle mappe mentali che ogni persona costruisce per muoversi nel mondo.
“Te la racconti. Ci siamo passati tutti, in fondo – esordisce la dott.ssa Gallelli - Ce la raccontiamo perché ancora non c’è abbastanza spazio dentro di noi per accogliere la nostra ferita. E allora la copriamo, la mascheriamo, la travestiamo da ragione, da pretesa, da giudizio. La riempiamo di frasi come: “Eh, ma è colpa sua…”, “Se solo cambiasse…”, “Io così non ce la faccio più”. E lo facciamo con una convinzione che ha il sapore della protezione, ma che, in realtà, spesso è solo paura”.
Fermarsi a guardare la propria ferita fa paura. Fa paura sentire davvero quel dolore che ci portiamo dentro da anni. Fa paura sentire la mancanza, il vuoto, la solitudine. Fa paura sentire la rabbia che ci ha bruciato dentro quando non siamo stati visti, o il dolore di quando ci siamo sentiti respinti, abbandonati. Allora, piuttosto che sentirlo, quel dolore, preferiamo raccontarci una storia. Una qualsiasi, purché ci tenga lontani da quella sensazione. Purché ci illuda che il problema sia fuori, nell’altro, nel mondo, nel destino. Ma più del dolore stesso, ciò che ci spaventa davvero è l’idea di non sopravvivere a quel dolore. Che ci travolga, che ci spezzi. È questa la trappola più invisibile: confondere il dolore con la fine. “Ma questa è solo una convinzione dell’ego, costruita per proteggerci quando eravamo troppo piccoli per reggere certe emozioni -spiega Paola e continua - In realtà, quando troviamo il coraggio di restare in quel dolore — senza scappare, senza giudicarci, senza sentirci sbagliati — accade qualcosa di reale. Il sistema si riorganizza, la mente si fa più chiara, il corpo si rilassa. E la ferita smette di essere una minaccia. Diventa un varco. Un punto di accesso alla nostra verità più profonda”.
Secondo studi psicologici, questo punto di svolta non si tradurrebbe solo in una liberazione emotiva, quanto piuttosto in un cambiamento radicale capace di toccare l’intera struttura con cui viviamo la vita. È quì che comincerebbe la trasformazione. Non ci si perde, ci si ritrova. E proprio in questo spazio nuovo, più ampio, si può iniziare a guardare con occhi diversi ciò che prima sembrava insormontabile. Si iniziano a vedere gli autoinganni per quello che sono: strategie sottili per non sentire. Frasi come “È colpa sua se sto così”, “Mi ha ferito con quelle parole”, “Non mi capisce mai”, “Se cambiasse, andrebbe tutto bene”, “Non posso lasciarlo/a, senza di lui/lei non ce la faccio.” Frasi comuni, dette da tante persone, in tante relazioni, in tanti contesti. Frasi che sembrano logiche, perfino sensate. Ma che in realtà ci tengono bloccati in un punto. Ci fanno girare in tondo perché ci spingono a guardare sempre fuori e mai dentro. E finché continuiamo a farlo, la ferita resta lì. Viva, aperta, pronta a riattivarsi ogni volta che qualcosa o qualcuno la sfiora.
“Accogliere la propria ferita non significa restare nel dolore. Non significa crogiolarsi nella sofferenza, né tantomeno diventare vittime – spiega ancora la coach - Significa, invece, fare spazio dentro di sé perché quel dolore possa respirare, trasformarsi, sciogliersi. E quello spazio interiore si apre solo attraverso la vulnerabilità. Solo quando smettiamo di indossare corazze. Solo quando lasciamo andare i ruoli, le difese, le certezze assolute”.
E’ vero infatti che, per la maggior parte, siamo stati educati a pensare che la vulnerabilità sia debolezza. Ma, in fondo, tutti sappiamo che è esattamente il contrario. La vulnerabilità è forza allo stato puro. È la forza di chi sceglie di non fuggire più. Di chi resta, anche quando tutto dentro spingerebbe a scappare. Di chi guarda, invece di accusare. Di chi si fa domande, invece di dare colpe. Di chi osa sedersi accanto alla propria ferita, anche se fa male, anche se brucia, anche se trema. Perché è lì, in quella vulnerabilità, che si trova il vero potere del cuore. Un potere che non è controllo, che non è supremazia, che non è avere l’ultima parola. Ma un potere che ha il volto della presenza, della dignità, dell’amore. Un potere che non urla, che non pretende, che non chiede di essere riconosciuto. Un potere che semplicemente è, che resta saldo anche quando tutto vacilla. Fino a quando non faremo questo spazio dentro di noi, cercheremo di riempirlo dal di fuori. Nelle relazioni, nell’approvazione, nei gesti dell’altro. E questo crea una fame costante, un’ansia sottile, un bisogno che non si sazia mai. Perché nessuno potrà mai colmare ciò che noi stessi rifiutiamo di vedere. Nessuno potrà guarire ciò che non vogliamo neppure nominare.
“È lì che inizia la svolta – conferma Paola - Quando smetti di raccontartela. Quando inizi a farti la domanda giusta: “Cosa mi sta mostrando questa situazione di me?” Non è facile, ma è lì che si apre una porta. Un varco verso una comprensione più profonda e autentica, non contro qualcuno, ma a favore della propria consapevolezza”.
Dobbiamo tuttavia fare attenzione – ci allerta – in quanto questa domanda non deve servire per giudicarci, né per chiuderci ancora di più. Non si tratta di dire “non devo più fidarmi” o “è colpa mia se mi succede questo”. Quanto piuttosto di chiederci con sincerità: “Dove, in questa dinamica, sto andando contro me stesso/a?” Se tutti mi tradiscono, forse posso guardare dove sto tradendo me stesso/a pur di compiacere l’altro/a? Se nessuno mi capisce, forse è il momento di chiedermi quanto spazio sto dando davvero alla mia verità, senza paura di perdermi l’approvazione. La risposta autentica non è mai giudicante, non chiude, non contrappone. Espande. Riporta al centro, restituendo potere.
Imparare a sedersi accanto alla propria ferita è un atto sacro. Un atto che richiede presenza, rispetto, dolcezza. Richiede tempo, ascolto, pazienza. Richiede anche di smettere di giudicarsi e di pretendere di voler guarire “in fretta”, per diventare “qualcosa di meglio”. Non si tratta di aggiustarsi. Si tratta di riconoscersi. Di accettare che siamo esseri in cammino, pieni di pieghe, di luci e ombre, di amore e paura. E che tutto fa parte del viaggio. La relazione più importante che possiamo avere infatti non è con l’altro, è con noi stessi. E da quella relazione che nascono tutte le altre. Solo quando impariamo a stare con noi stessi, a sentire il nostro sé più autentico e profondo, a onorare anche le nostre parti più fragili, possiamo davvero stare con l’altro. Non per bisogno, ma per scelta. Non per colmare, ma per condividere. Non per trattenere, ma per creare.
Ma quale il consiglio pratico per portare guarigione e consapevolezza là dove c’è una ferita, trasformarci e vivere una vita ogni giorno più felice? Ecco la risposta dell’esperta: “Quando senti che c’è qualcosa che ti fa male, che ti accende, che ti fa reagire, prima di cercare colpevoli fuori, prova a fermarti. Respira. Porta attenzione al tuo corpo, al tuo cuore. E chiediti con amore: “Cosa vuole insegnarmi tutto questo? Perché la vita non ci punisce. Ci accompagna. Ci mostra, con delicatezza o con forza, dove ce la stiamo ancora raccontando. Dove stiamo ancora fuggendo da noi. E ogni volta che scegliamo di ascoltare – ascoltare davvero - anche il dolore più profondo si trasforma in guida. Perché non siamo qui per proteggerci a oltranza. Siamo qui per espanderci, per scoprirci, per essere ogni giorno la versione migliore di noi stessi, accogliendo e integrando ogni nostra parte. E tutto ciò che incontriamo nella vita – ogni relazione, ogni caduta, ogni scintilla di luce – lo incontriamo proprio per questo: per ricordarcelo”.
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