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Paolo Rossi, la casa di Gaetano e quei tre gol

Paolo Rossi, la casa di Gaetano e quei tre gol
Paolo Rossi, la casa di Gaetano e quei tre gol
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 10 December 2020 alle 18:27

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Olbia, 10 dicembre 2020- Nel soffocante pomeriggio del 5 luglio 1982, ci ritrovammo nell’appartamento di Gaetano, a Careggi, noto quartiere di Firenze, per i quarti di finale dei mondiali di calcio spagnoli. Gaetano, un catanese allegrone e sempre positivo, cercava di contenere il mio pessimismo realistico: “Almeno quattro, come nella finale del 1970”. “Mah” replicò “non si sa mai…”.

Il Brasile di quel mondiale era stratosferico, anche se non c’era più Pelé. Era il grande, indiscusso favorito, aveva asfaltato tutte le squadre che aveva incontrato fino a quel momento. Non perdevano una partita da otto anni, non li battevamo dal 1938. Ciò basti. E poi, fino a quel momento, non è che fossimo da vincere i mondiali. Nel primo girone avevamo rifilato tre mediocri, noiosissimi pareggi contro squadre piuttosto modeste, e se poi avevamo battuto l’Argentina, è anche pur vero che i gol erano venuti da un centrocampista (Tardelli) e da un difensore (Cabrini). L’attacco non c’era, o quasi.
Bearzot aveva puntato tutto su Paolo Rossi, il centravanti, che rientrava proprio per quei mondiali dopo due anni di squalifica per lo scandalo del “Calcioscommesse”. Una condanna poi rivelatasi ingiusta, crudele. Più che appresso al pallone, nelle prime partite loavevamo visto muoversi a rincorrere se stesso e il ricordo di quel fulmine di guerra che era stato quando giocava nel Vicenza. Il suo cognome sembrava sottolinearne in modo beffardo l’ordinaria mediocrità da signor Rossi.
Smilzo, non troppo alto, le spalle un po’ cadenti, le gambe sproporzionatamente corte rispetto al busto, pallido, gli occhi allampanati, quasi disperati. Un cadaverino. Fu la causa di mille e milioni di improperi lanciati in quei giorni sulla pipa imperterrita di Bearzot, l’allenatore testardo come un mulo friulano. “Cambialo, cosa lo tieni a fare in campo, fai entrare Tizio, fai entrare Caio…”. Anche io ero tra quelli. Ma è anche vero che c’è un bellissimo detto degli antichi sardi: “Kando su patimentu si mutat in contentu, itte bellu penare!” (Quando la sofferenza si trasforma in gioia, che bello soffrire!). La saggezza della Provvidenza.

Gliene fece tre. E trionfammo. Chi non c’era, o non era ancora nato (per quelli soprattutto sto ora scrivendo) non può capire l’emozione che vivemmo. Con Paolo Rossi vedevi la palla entrare dentro la rete e solo dopo sapevi dal replay che l’aveva colpita lui. Era come una scossa elettrica che fulminava difensori e portieri. Ti usciva da dietro, ficcava il piede tra le gambe dei difensori e anche dei suoi stessi compagni d’attacco. Non te ne accorgevi. Non se ne accorgevano. Ma era gol. Erano i gol di Paolo Rossi.
E questa fu la resurrezione di Pablito, come la chiamò il titolone del Corriere dello Sportil giorno dopo, numero che va ancora a ruba sulle aste di Ebay. Firenze esplose in una festa pazzesca e irrefrenabile, liberatoria, come il carnevale di Rio. C’ero anche io in mezzo alla bolgia infernale, con Gaetano, sulla la mia Honda 125 in mezzo a quel disumano casino di Piazza Repubblica.

Quello fu forse l’anno più difficile della mia vita, e i miei urli di gioia furono rabbiosamente eccessivi anche per questo. Ma ringrazio Pablito il toscano, e la sua resurrezione, perché mi insegnarono molte cose, quel giorno di caldo insopportabile, ed una in particolare: avere fiducia in se stessi sempre, e dare fiducia sempre a chi la merita. Per cui chiedo scusa anche a te e alla tua pipa sbuffante, vecchio caro Enzo Bearzot. I Campi Elisi non esistono se non nei miti dei Romani, ma l’altro luogo in cui credevate vi ha certamente accolti.