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Il "secolo lungo" del colonnello Nino Giua

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Federico Bardanzellu

Pubblicato il 16 March 2019 alle 22:19

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Il ventesimo secolo è passato alla storia come “il secolo breve” in quanto, secondo taluni storici, sarebbe iniziato soltanto nel 1914, con lo scoppio della Prima guerra mondiale e concluso nel 1989 con la caduta del muro di Berlino. C’è un personaggio gallurese, però, che il secolo “breve” lo ha vissuto per intero; anzi, anche qualcosa di più, visto che quando passò a miglior vita (1997), era entrato nel centoduesimo anno d’età. Stiamo parlando del colonnello Giovanni Giua, di famiglia lurese e nato “per sbaglio” a Sassari il 29 marzo 1895. A Luras e in Gallura è ancora ricordato da tutti come Ziu Ninu.

Suo padre era il notaio Pietro Giua, che fu sindaco di Luras tra il 1896 e il 1898; massone iniziato nella loggia Angioy di Cagliari il 28 marzo 1904, fu poi promosso compagno d’arte e maestro [1] Sua madre era Erminia Delogu.

Nino conseguì la maturità classica nel 1912, a soli diciassette anni, al liceo Azuni di Sassari. Nello stesso anno richiese di essere ammesso all’Accademia militare di Torino come allievo ufficiale di artiglieria, superando le visite mediche, pur essendo affetto da un principio di malaria. Giua, infatti, era in possesso di un fisico straordinariamente atletico e sapeva anche cavalcare egregiamente, tanto che per vari anni primeggerà nelle competizioni militari [2]. Uscì dall’Accademia con il grado di sottotenente e fu assegnato al 17° reggimento di artiglieria[3].

Il 24 gennaio 1916, Nino Giua, da tre mesi tenente, fu iniziato alla massoneria nella Loggia Andrea Leoni di Tempio ma non andò oltre il grado di apprendista [4]. Nel frattempo, infatti, era scoppiata la prima guerra mondiale e il tenente Giua fu inviato in territorio di guerra al comando della 2a batteria bombarde del 17° reggimento. Partecipò alla battaglia di Gorizia (4-17 agosto 1916) e fu promosso sul campo capitano che era ancora minorenne (allora la maggiore età si conseguiva a 21 anni). Fu anche componente della Corte marziale. Il giornalista Vanni Loriga ne riporta un aneddoto in un articolo dell’Almanacco gallurese 2003-2004.

La corte si era riunita per giudicare un soldato sardo che era rientrato dalla licenza con un giorno di ritardo per la mancata coincidenza del battello in partenza da Golfo Aranci. Giua si sentì di accogliere le giustificazioni dell’incolpevole soldato ma la maggioranza dei giudici non era dello stesso parere e lo condannò a morte. Il giovane capitano, allora, si ribellò e fece rilevare che la sentenza di condanna non aveva alcun valore, essendo uno dei suoi componenti minorenne: lui. Il presidente fu così costretto ad annullare il verdetto e a rifare il processo dove – sembra – l’imputato riuscì a scampare alla condanna a morte [5].

Il capitano Giua partecipò alla battaglia di Monfalcone del 28 maggio 1917 dove fu ferito in combattimento alla faccia. Per tale motivo gli venne concessa una prima Croce al merito di guerra [6]. Durante la convalescenza, il 25 ottobre 1917, sposò in Luras Lucia Careddu (m. 1966). La coppia, nel 1918 ebbe Vanni (m. 1989), nel 1923 Mariolina, nel 1927 Pietro (m. 1991) e, nel 1937, Paolo.

Dopo la guerra, Nino Giua si laureò in ingegneria industriale al Politecnico di Milano (1921) [7]; poi insegnò resistenza dei materiali presso la Scuola di Applicazione e Istituto di Studi militari dell'Esercito[8]. Il catalogo digitalizzato SBN cita sei testi universitari di cui è autore Giua non solo sulla resistenza dei materiali ma anche di termodinamica, meccanica e macchine.

Pur provenendo da una famiglia massone (la massoneria era stata soppressa dal fascismo nel 1925), Nino Giua fu fedele al regime. Nella sua casa torinese, tuttavia, c’era la massima ospitalità per parenti e amici sardi, anche oppositori del fascismo. Tra questi, il collega professore di chimica Michele Giua, di Castelsardo, ma di cui Nino non era parente [9]. Michele Giua, esponente di Giustizia e Libertà, fu poi condannato a 15 anni di carcere come sovversivo; nel dopoguerra sarà per dieci anni senatore socialista (1948-1958).

Agli incontri della domenica in casa Giovanni Giua partecipano anche Clara Collini, moglie di Michele Giua e sua figlia Lisetta, che poi sposerà un antifascista come Vittorio Foa. Tra gli amici dei ragazzi Giua c’è anche l’altro figlio di Michele, Renzo Giua, che parteciperà alla Guerra civile spagnola nelle file dei repubblicani e cadrà in combattimento[10].

Scoppia la Seconda guerra mondiale. Giovanni Giua è subito destinato, con il grado di colonnello, al comando del 5º reggimento di artiglieria contraerea nella battaglia delle Alpi Occidentali, sul fronte francese [11]. E’ un’effimera transitoria vittoria per il Regio esercito, cui riuscì solo l’ingresso nella cittadina francese di Mentone, perdendo più soldati dell’esercito nemico.

Molto più tragica sarà la partecipazione italiana alla Campagna di Russia, tra il 1941 e il 1943. Il colonnello Giua vi fu inviato come capo dell'ufficio comando dei reggimenti di artiglieria aggregati al Corpo d’armata alpino.

Giunse sul suolo russo il 1° giugno 1942 [12]. Gli alpini pensavano di essere impiegati sulle montagne del Caucaso e, invece, furono costretti a combattere in pianura, con un equipaggiamento decisamente inferiore a quello dei nemici e degli alleati tedeschi.

Giua partecipò all'offensiva italo-tedesca del Medio Don che fu fermata dall’Armata Rossa a Stalingrado. Fu ordinato il ripiegamento, sotto la neve del “generale inverno” russo, alla fine del 1942. Ne seguì l’offensiva sovietica Ostrogorzk-Rossoš. Il colonnello Giua era alla testa dell'11º Raggruppamento di artiglieria di Corpo d'Armata che, insieme al battaglione Morbegno, costituiva la formazione di coda del 5º reggimento della 2ª Divisione alpina “Tridentina” in ritirata [13] .

Il 22 gennaio 1943, dopo un combattimento con l’esercito sovietico presso Ossadtschij, i due reparti rimasero isolati dal resto dell’armata. Giua ebbe allora un diverbio con il comandante del “Morbegno”, maggiore Romualdo Sarti. Il colonnello gallurese sosteneva che per il ricongiungimento fosse necessario dirigersi verso sud, mentre il suo interlocutore era del parere di proseguire verso ovest. Separatisi allora i due reparti, il “Morbegno” fu pressoché distrutto il giorno dopo nella battaglia di Varvarovka, mentre l'11º Raggruppamento di artiglieria riuscì a ricongiungersi con il resto dell’armata italiana[14].

Questa, ormai, era in rotta. Gli italiani marciavano nella neve spinti solo dal desiderio di tornarsene a casa. L’equipaggiamento pesante era andato perduto nelle precedenti battaglie, disperso sotto la neve nella steppa o abbandonato per non rallentare il passo. Scrive Alfio Caruso: “Al termine di una marcia che sembrava infinita, costata migliaia di morti per congelamento, le prime avanguardie italiane giunsero nei pressi del villaggio di Nikolajewka (26 gennaio 1943, ndr), dove ad aspettarli c'erano circa seimila russi, appostati con mortai e mitragliatrici. I nostri soldati, per uscire dalla sacca in cui erano stati chiusi dovevano necessariamente liberare quella postazione. Iniziò così un cruento assalto, potendo i nostri contare solo sul proprio fucile, sulle bombe a mano e sulla forza della disperazione. Liberarono a caro prezzo la chiesa del villaggio dai nidi di mitragliatrici e sostennero il contrattacco nemico, ispirati dal generale Reverberi. Costui ricordò che quella era la sola via per tornare in Italia; salito sull'unico carro armato disponibile, un panzer disperso, venne colpito fatalmente. Malgrado ciò e malgrado la ferma determinazione russa, al termine della giornata il campo era italiano; tre battaglioni russi erano distrutti completamente e il resto in fuga”.

Dopo la battaglia di Nikolaevka, nel corso di quella che può essere chiamata “un’offensiva all’indietro” in un clima terribile, il colonnello Giua riportò un piede congelato. Giunto al di là delle linee, fu ricoverato presso l’ospedale di riserva di Charkiv, dove fu immerso in un calderone d’acqua bollente e riuscì a riottenere la funzionalità dell’arto, altrimenti compromesso per sempre. Rientrò definitivamente in Italia nel febbraio 1943 [15]. Di circa 230.000 soldati ben 74.000 non tornarono più a casa.

In patria, Giua aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Per tale motivo, dopo la Liberazione, fu imprigionato nel campo di concentramento di Fossoli e poi a Forte Boccea, sino all’11 novembre 1945 [16]. Per i suoi trascorsi “repubblichini”, l’11 maggio 1946 fu collocato d’autorità nella riserva dell’esercito e, il 20 novembre 1948, in congedo.

Rientrato nella condizione di “civile”, Giua conseguì l’incarico di ingegnere capo dell’INA-Casa [17]. Reintegrato, poi, a tutti gli effetti, nel 1951, fu ricollocato nella riserva l’anno successivo e, nel 1953, gli fu attribuita la Croce di guerra al valor militare, per la sua partecipazione alla campagna del Medio Don.

Nel 1955 fu tra i soci fondatori del Rotary Club di Tempio Pausania. È stato definitivamente collocato a riposo per età, a settant'anni, il 30 marzo 1965 [18]. Con legge 334 del 25 Giugno 1969, in qualità di combattente della guerra 1914-18, gli fu concesso di richiedere la promozione, a titolo onorifico, al grado superiore di generale di brigata; dal suo stato di servizio, tuttavia, non risulta che ne abbia mai fatto domanda[19].

Rimasto vedovo, si sposò una seconda volta a Roma, nel 1975, con Elsa Marullo. Sopravvisse anche alla seconda moglie e a tre dei suoi quattro figli.

Quasi centenario, guidava ancora personalmente l'automobile. Il suo centesimo compleanno è stato festeggiato a Roma, alla presenza di innumerevoli parenti e amici.

Una vita che ha attraversato in prima persona tutte le vicende del novecento: un secolo che, per il colonnello gallurese non è stato affatto “breve”.

[1] Fonte: archgall.it Archivio della Massoneria gallurese.

[2] Vanni Loriga, ''La domenica a Corso Vinzaglio'', in: ''Almanacco gallurese 2003-04'', Giovanni Gelsomino, Sassari, 2003, pag. 167

[3] Ministero della difesa, Direzione generale Personale Ufficiali, Divisione matricole e libretti personali, ''Stato di servizio di Giua Giovanni'', pag. 1

[4] Fonte: Cinzia Lilliu, La Massoneria in Sardegna. Dalle soglie del XIX secolo all’avvento del fascismo, Università di Cagliari, Facoltà di Scienze Politiche, 1989-90

[5] Vanni Loriga, cit.

[6] Ministero della difesa, cit., pag. 8

[7] Ministero della difesa, cit., pag. 7

[8] Vanni Loriga, cit.

[9] Vanni Loriga, cit.

[10] Vanni Loriga, cit.

[11] Ministero della difesa, cit., pag. 9

[12] Id.

[13] Alfio Caruso, ''Tutti i vivi all'assalto. L'epopea degli alpini dal Don a Nikolajevka'', TEA, Milano, 2003, pagg. 238-239

[14] Alfio Caruso, ''cit.'', pag. 256

[15] Ministero della difesa, cit., pag. 5

[16] Id.

[17] Vanni Loriga, cit. pag. 174

[18] Ministero della difesa, cit., pag. 7

[19] Id.