Wednesday, 30 April 2025
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Pubblicato il 09 December 2018 alle 16:22
Scesero dagli autocarri quando arrivarono a Vicenza. Era il 3 di febbraio. La città era in festa per loro. Ad ogni finestra era esposta una bandiera tricolore, ad ogni muro erano affissi dei manifesti: W LA BRIGATA SASSARI W LA SARDEGNA W L’ITALIA Ai Soldati della Brigata di Ferro date tutti i fiori dei vostri giardini VIVA I SALVATORI DI VICENZA. In cielo, festosa, volteggiava la sessantaduesima squadriglia di caccia SP4. Gli aviatori si sbracciavano nei saluti e lasciavano cadere sulla folla volantini colorati inneggianti ai fanti che gli austriaci avevano battezzato teufeln, diavoli.
Loro, i sassarini, quasi si vergognavano: un po’ perché i sardi sono riservati per natura e non sono abituati ad esser festeggiati dai continentali, un po’ perché erano consapevoli di non essere come avrebbero voluto e come le loro madri gli avevano insegnato: cioè, a presentarsi agli altri puliti e con gli abiti migliori, con quelli della festa. Loro, invece, avevano facce patite e smunte, sporche di fango e irsute, divise lacere e incrostate; erano, in una parola, impresentabili. Parevano l’immagine di quel banditismo di cui la loro Isola, già allora, andava famosa. Li accolsero il generale Pecori Giraldi comandante della 1ª armata schierata sul fronte degli Altipiani, e tutte le autorità civili e religiose in pompa magna. Sfilarono come poterono, a passo di marcia, gli ufficiali e i feriti in testa dietro le bandiere di combattimento che garrivano all’aria di quella gelida domenica di febbraio, le medaglie sul petto. Marciavano con la fierezza che comunque riuscivano a dimostrare, fra ali di folla in tripudio. I bambini si avvinghiavano alle loro gambe, gli uomini davano loro calorose pacche sulle spalle, le donne li abbracciavano e li baciavano e tutti gettavano loro dei fiori. I vicentini facevano a gara per invitarli a casa loro e per metter a disposizione le migliori condizioni di vitto e di alloggio, e chi più ne ospitava, più se ne vantava: - Mi ghin’ n’ò sete!(89) - Mi ghi’ g’o solo do, ma i g’a na fame che vae par dièse. Non per nulla i x’e sassarini puro sangue, i x’e i meio tosi che ghe xe!(90) Il giorno 7, poi, fu lo stesso generale Armando Diaz, capo di stato maggiore del Regio Esercito, che li accolse con tutti gli onori. Egli strinse la mano ai soldati e disse loro: - Voi non sapete, e forse non saprete mai, quanto avete fatto per l’Italia. Non era mai accaduto niente di simile. Nessuna brigata aveva mai avuto un onore così grande: un vero e proprio trionfo.
I quattro mesi di meritato riposo passati a Vicenza, a Cittadella e a Padova, furono, per Paolino, per Daniele e per i loro compagni d’armi, densi di emozioni nuove e di nuove esperienze, ma anche l’occasione per riscoprire e rivivere sensazioni che l’inferno della prima linea pareva aver cancellato. Riscoprirono che le persone abitano nelle case e non nei fossati fangosi e puzzolenti delle trincee, che camminano a testa alta e con la schiena dritta nelle vie e non chini nei camminamenti, che si salutano, si stringono la mano e si abbracciano invece di spararsi addosso. Completamente dimentichi delle donne, se non nei loro sogni e nei loro desideri, si ritrovarono a riscoprirne l’esistenza e a guardarle con incantato stupore. Tutte queste povere grandi cose avevano suscitato in loro il desiderio struggente di far ritorno a casa, di camminare per le strade del proprio paese, di abbracciare le persone care, di sentire il dolce tepore delle labbra della donna amata. Naturalmente, gli alti gradi sapevano che ciò sarebbe accaduto e temevano che questo avrebbe indebolito lo spirito guerresco della truppa e, dunque, si misero d’impegno per tenerli occupati con guardie, marce, esercizi addestrativi, ma anche svaghi che, sotto l’aspetto ludico, nascondevano la volontà di tenere alto il loro livello di aggressività, di competizione e di appartenenza al battaglione. Tollerarono che si giocasse a morra e che, qualche volta, si azzuffassero. Organizzarono perfino una sartiglia91 usando i muli come cavalcature e le baionette come stocchi con cui infilzare scatolette di carne sfondate, appese a una corda tesa fra due baracche e usate al posto della stella che non avevano. Ma il tempo del riposo trascorre in fretta. Passò l’inverno e anche buona parte della primavera. Partirono da Padova il 7 di giugno diretti nella zona di Trevignano-Zelarino-Carpenedo, ancora in riposo, ma, ormai, assai più vicini al fronte di combattimento su cui maggiormente si temeva un massiccio attacco del nemico, nonostante la piena del fiume: la linea di massima resistenza del Piave, la riva destra. Per l’Austria-Ungheria, ridotta ormai ad aver speso, nello sforzo bellico, la quasi totalità delle sue riserve anche alimentari e ad aver pressoché esaurito le sue capacità industriali, era di vitale importanza porre termine alla guerra impartendo all’esercito italiano, che si riteneva ancora fiaccato dalla disfatta di Caporetto, il colpo finale. Per questo puntò alto con un piano offensivo grandioso, pur nella consapevolezza di rischiare il tutto per tutto. Per l’Italia era altrettanto indispensabile che, su quel fronte, il nemico non passasse. Dopo la ritirata del 24 di ottobre, consentire lo sfondamento della linea del Piave avrebbe significato aprire agli austriaci le porte della pianura e, quindi, di Venezia, di Milano, di Torino: d’Italia. I timori dello Stato Maggiore italiano di un assalto nemico sulla linea del Piave erano più che fondati perché, il giorno 13, un intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria austriaca sulla Sella del Tonale preannunciò che il primo dei piani d’attacco dell’esercito imperial-regio, quello diversivo, era scattato. La notte del 14 la Brigata lasciò Carpenedo per ritornare in linea. - Oje est chenàbura. In biddha naran chi est chenàbura bundarosa, ma a mie, a torrare in linia in die de chenàbura non mi aggradat pro nuddha – commentò con un po’ di perplessità Daniele – No, non mi aggradat pro nuddha.(92) - It’est, superstitziósu ses diventadu?(93) – gli chiese Paolino, ma non ottenne risposta. Arrivarono alle quattro del mattino a Meolo. La notte era abbastanza buia e una sorta di nebbia strana e densa aleggiava in un’alta cortina sulle linee. L’aria era irrespirabile e bruciava gli occhi. Si buttarono in alcune case diroccate e cercarono qualcosa o qualcuno che li rasserenasse, ma non trovarono altro che la rassegnata attesa dei reparti a cui dovevano dare il cambio. - Custus no sunti gas alluppadoris; su chi si stanti sparendi a pitzus sunti lagrimadoris e fummiosus. Innoi si calat calincunu arrulloni mannu mannu!(94) – disse Francesco. - Frantzi’, mama mia comente faeddhas!(95) – gli disse Paolino per canzonarlo. L’aria di tempesta che quella alta nube creava, era ancor più esaltata dai lampi delle bocche da fuoco al di là del fronte, dai razzi illuminanti che solcavano il cielo e dal furibondo infuriare dei tuoni dei tiri di contro-preparazione italiani. Il tam-tam dei fanti informava che, verso le 9, i genieri della Sesta Armata nemica avevano gettato delle passerelle attraverso il Piave e, favorite dalla nebbia artificiale, sfondate le difese italiane e incuneatesi in esse, le truppe austriache avevano creato, sulla riva destra, due teste di ponte: l’una nella collina del Montello, l’altra in prossimità di San Donà che era caduto in mano nemica. Vista la scarsità di truppe delle nostre armate lì attestate (VIII e III), fu inevitabile che alla Brigata Sassari arrivasse l’ordine di muovere in direzione di Fossalta e di Capo d’Argine. Camminarono in ordine sparso lungo fossati che delimitavano campi sconvolti dall’esplosione delle granate, resi scivolosi dalla pioggia e, quando fu giorno, Paolino si accorse del grande numero dei feriti che incontravano di rientro dalla prima linea: molti nelle barelle sorrette dai porta-feriti, tanti altri a piedi con camminate stracche e sofferenti e lo sguardo vacuo di chi ha visto la morte in faccia. Tutti fasciati alla meglio con bende fangose e insanguinate. In cielo volteggiavano squadriglie di Nieuport che, a volo radente, mitragliavano gli austriaci per rallentarne l’avanzata e di Caproni che bombardavano i ponti di barche sul fiume per impedire il passaggio di altre truppe e delle salmerie. - Custa est sa fin’e su mundhu(96) – disse Paolino a sé stesso. - Eh, ti l’aia nadu chi a nos pònnere in viaggiu in die de chenàbura nos diat àere batidu malastru!(97) – soggiunse Daniele. - Oramai sémus inoghe. Male o no male, como sémus in ballu e devimus ballare.(98) Quando il loro plotone ricevette l’ordine, si fermarono sull’argine di un canale costeggiato da salici sbrindellati che correva parallelo al fiume. Ciascuno dei fanti cercò un qualcosa che potesse somigliare ad un rialzo del terreno e, in piccoli gruppi, secondo gli ordini ricevuti, cercarono di scavare un fosso che potesse offrire un po’ di riparo, disponendosi lungo il canale. Più che con la piccola vanga in dotazione, molti scavavano il terreno molle con le mani, usando poi le tacche sull’impugnatura dell’attrezzo per misurare quanto profondo fosse lo scavo: - sette taccas, trentachimbe centimetros. Tróppu pagu! Si nos ispàrana nos abbérin dae ‘attìle a calcandzos. Ajó, foltza! Ancora unu pagu, movidebos!(99) Stesero, di fronte a ciascun riparo, verso l’argine del fiume, dei rotoli di filo spinato e si acquattarono in attesa di quel che la sorte gli avrebbe mandato. Nella buca più prossima alla loro, più profonda e più larga, Paolino fece piazzare la mitragliatrice. Come serventi Michele e Simone che, per esser entrambi di Nule e vicini di casa nel loro paese, andavano molto d’accordo; soprattutto quando stavano dietro al pezzo o a una tazza di vino. La guerra a Col del Rosso era stata una guerra diversa. Là erano andati all’assalto delle trincee nemiche. Avevano corso allo scoperto, con gli austriaci che gli sparavano addosso con le mitragliatrici e con i fucili. Poi, quelli che ci erano arrivati, si erano buttati dentro come furie assatanate, infilzando con la baionetta più corpi che potevano, scavalcando e calpestando morti e moribondi, amici e nemici nello stesso identico modo. Qui sul Piave, invece, la guerra sembrava un’altra cosa. Si doveva stare nascosti dentro buche le cui pareti grondavano acqua, e si doveva aspettare che il nemico attaccante si facesse vedere per potergli sparare addosso. Quella era una guerra d’attacco, questa era una guerra di difesa. - Mals que te atribolin! A me no me desplan està sossegat agualdant che ma matin(100) – disse Lorenzo l’algherese. - Candu z’abarani a ammazzà, no vi sarà bisognu d’interrazzi, pagosa sottu terra vi semmu jà(101) – gli rispose Antonio, un sassarese a cui non mancava mai una battuta irridente. Di tanto in tanto qualche granata esplodeva non lontano da loro, con un boato assordante, sollevando colonne di fango e stracci grigio-verdi. L’ordine era stato perentorio: “resistenza ad oltranza. Contrattaccare; non interrompere, per nessuna ragione, la continuità della linea”. - Ragazzi, davanti a noi c'è soltanto il nemico che tenta di avanzare. Per ora è trattenuto dai tiri di sbarramento della nostra artiglieria. Fate molta attenzione, perché fra non molto attaccherà – aveva detto il tenente passando in rassegna la lunga linea di fossi. Le esplosioni delle bombe, il crepitio delle mitragliatrici e della fucileria, il rombo delle eliche degli aerei sembravano rumori lontani ed estranei a quella specie di silenzio irreale che l’attesa della comparsa del nemico pareva quasi creare. Poi, improvviso, il rabbioso strepito della mitragliatrice di Miche e di Simone ruppe l’incantata inerzia in cui tutti erano caduti. Subito fu un inferno di fucilate. Era come al tirassegno: gomiti a terra, fucile saldamente imbracciato, presa la mira sull’austriaco che avanza, fuoco! La vita di un nemico cessava e cadeva nel fango insieme a lui. Uno in meno! E pazienza se aveva famiglia e un’esistenza da vivere. Intanto la mitragliatrice, tutte le mitragliatrici della linea, sventagliavano i loro proiettili e abbattevano gli attaccanti come birilli. A ondate successive, gli assalti dei nemici si susseguirono senza tregua, ma gli austriaci riuscirono a procedere di poco per la risolutezza dei nostri difensori. Anche fra i fanti sardi si cominciarono a sentire le grida di dolore di chi era stato colpito e le imprecazioni di quelli che avevano visto morirgli accanto l’amico o il compagno. L’intera Brigata non si mosse, se non per avanzare o arretrare sulle precedenti posizioni: mai più indietro di quelle, mai oltre quel limite. L’intera giornata trascorse nella continua alternanza di una difesa statica, dentro le buche come talpe e di contrattacchi accaniti all’arma bianca, fino a che non giunse la notte a portare un po’ di apparente quiete. Ora ci si ammazzava al buio, in silenzio, corpo a corpo, con le armi bianche. I fucili di notte non servivano e, per taluni, neanche le baionette a cui non erano abituati: meglio le leppe.(102) All’alba di domenica, giorno del Signore, i due cattolicissimi eserciti ripresero i combattimenti, ciascuno chiedendo a Dio la grazia della vittoria. Anche i singoli poveri soldatini, senza distinzione di colore della divisa, forse, chiesero allo stesso Dio d’aver salva la pelle. L’artiglieria del nostro Regio Esercito continuava il suo martellante tiro e quella dell’Imperial-Regio Esercito rispondeva con altrettanta vigoria, seppur con minore intensità. Riprese il tiro a segno dei fanti, ripresero le raffiche di mitragliatrice e ricominciarono anche gli attacchi austriaci e i contrattacchi italiani alla baionetta. Tutto come prima, quella domenica 16 giugno del 1918. Poi, in quell’inferno, Paolino e Daniele udirono il sibilo di un proiettile di artiglieria di piccolo calibro che s'avvicinava. Erano troppo esperti, ormai, per non capire che poteva essere quello buono per spacciarli. Cercarono di sprofondarsi nel fango più che potevano e, nello stesso istante in cui avvertirono l'impatto del proiettile sul terreno e il simultaneo scoppio a poco più di un metro da loro, videro quel restava dei due nulesi alla mitragliatrice volare in aria come pezzi di fantocci insieme a un grosso zampillo di terra e di fango. Restarono storditi per qualche istante, poi Daniele, con uno scatto da gatto arrabbiato, balzò in piedi e, puntando il fucile con la baionetta inastata verso il nemico, si lanciò in avanti, di corsa, urlando: - Como m’azis segadu su catzu, austriacos de merda!(103) Paolino si sollevò un poco, quel tanto che bastava per vedere, poi sentì arrivare, distinto e terribile, il sibilo molto più forte di una seconda granata. Il proiettile cadde lì dove Daniele infilzava il suo ultimo austriaco. Lo scoppio fu terribile e lo spostamento d’aria che lo colpì come un maglio, insieme alle schegge, lo fece volare indietro di parecchi metri. Avvertì il caldo viscoso del sangue scorrergli dalle orecchie e dagli angoli della bocca e, nel petto, sentì come un vuoto immenso, neanche doloroso. Poi, per lui, fu il buio assoluto e giacque come un mucchietto di stracci abbandonati. Lo raccolsero ancora vivo quando gli austriaci avevano iniziato, lì in prossimità di quell’ansa del Piave, la loro ritirata sulla riva sinistra. Riuscì a dire soltanto: - dev’iscriere a sorre mia. Dademi unu lapis(104) – poi cadde in un vuoto assoluto, ma il suo spirito, mentre lasciava il suo corpo, espresse in un baleno quella lettera che avrebbe voluto scrivere: Cara Marianna, cara sorella mia, io ho il desiderio di mandarti questi miei cari saluti sperando di trovarti bene in salute e così anche il nostro carissimo babbo e tutte le nostre care sorelle, specialmente Cosima e il mio affezionato nipote Pazzolu105 che ormai, a otto anni, sarà un giovanotto. Devi dire a babbo che io ho fatto tutto il mio dovere come lui mi ha insegnato sempre e che deve essere orgoglioso di me. Tu cara sorella devi riguardarti. Mi hai scritto che sei incinta di tre mesi. Vedrai che sarà un bambino bello e sano e vivrà tutti gli anni che non ho potuto vivere io. E se invece sarà una bambina,106 sarà bella e sana lo stesso e vivrà a lungo anche lei. Ti abbraccio insieme a babbo e a tutte le care sorelle. Tuo devotissimo fratello Paolino. Quando l’infermiere arrivò con un foglio e una matita, Paolino era già morto. Coprì il suo volto con un lenzuolo e, così come faceva con tutti i morti, si segnò la fronte e il petto con un segno di croce frettoloso. Il sindaco di Terranova Pausania, di lì a qualche giorno, ricevette dal Comando del Reggimento il seguente telegramma: Comando 151° Reggimento Fanteria Brigata Sassari. Questo Comando compie il doloroso ufficio di partecipare alla S. V. Ill.ma la morte del caporale Paolo Asara, nato il 22 febbraio 1899, avvenuta il 16 giugno 1918 a Capo d’Argine per ferite riportate in combattimento. Si prega di dare la triste notizia alla famiglia usando i dovuti riguardi. F.to Ten, Col. Ettore Mura. Ricevuta la notizia, il sindaco si accinse a far scrivere, alla famiglia di Antonio Asara la comunicazione di rito secondo il succinto modello: Compio il doloroso incarico di partecipare che il suo figliuolo Paolo Asara è morto in seguito alle ferite riportate in combattimento a Capo d’Argine sul Piave. Questa Amministrazione, che vive di tutte le ansie, di tutti i dolori del popolo, è unita a Lei nell’ora del suo umano, intenso cordoglio, e si mette a sua disposizione per qualunque bisogno e desiderio legittimo e santo nella tristissima contingenza. Si conforti al pensiero che la Patria segnerà il nome di Paolo Asara fra quelli dei migliori suoi Figli. Con sensi di stima. Poi ci ripensò e, preso cappello e bacolo, uscì dal comune per andare a su Lavatoriu10 a portare la triste notizia a Babbaj Antoni.(7) Sento il dovere di ricordare qui i nomi dei soldati a cui, arbitrariamente e forse maldestramente, ho cercato di dar vita nel racconto e che, nella realtà, una vita l’ebbero per davvero. Come Paolo Asara, combatterono tutti nel 151° Reggimento della Brigata Sassari. Essi sono: - soldato Daniele Cocco, nato a Buddusò, disperso il 16 giugno 1918 sul Piave, - soldato Salvatore Castagna, nato a Semestene, morto il 29 dicembre 1917 nell’ospedale da campo n. 165 a Conco, - tenente Soggia Gesuino, nato a Sassari, morto il 16 giugno 1918 sul Piave, - sergente Antonio Fara, nato a Macomer, morto il 16 giugno 1918 sul Piave, - soldato Paolo Ciudino, nato a Tempio Pausania, morto il 2 ottobre 1918 in prigionia, - soldato Stefano Asara, nato a Tempio Pausania, morto il 9 novembre 1918 per malattia, - soldato Francesco Meloni, nato a Quartu Sant’Elena, morto il 19 giugno 1918 sul Piave, - soldato Lorenzo Castaldi, nato ad Alghero, morto il 16 giugno 1918 sul Piave, - soldato Antonio Canu, nato a Sassari, morto il 29 ottobre 1918 sul Piave, - soldato Michele Manca, nato a Nule, morto il 16 giugno 1918 sul Piave, - soldato Simone Nadaiu, nato a Nule, morto il 16 giugno 1918 sul Piave.06 April 2025
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