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Galluresi nella “Grande Guerra”. Il resoconto del pluridecorato Giorgio Bardanzellu

Tra i testimoni della guerra del '15 -'18 vi è il lurese Giorgio Bardanzellu

Galluresi nella “Grande Guerra”. Il resoconto del pluridecorato Giorgio Bardanzellu
Galluresi nella “Grande Guerra”. Il resoconto del pluridecorato Giorgio Bardanzellu
Federico Bardanzellu

Pubblicato il 11 April 2021 alle 17:30

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Luras. Tra i testimoni della “Grande Guerra” 1915-1918 vi è il lurese Giorgio Bardanzellu. La sua è una testimonianza speciale perché, oltre a guadagnarsi una promozione sul campo e ben tre medaglie al valore, ha raccontato la sua esperienza in almeno tre pubblicazioni. Proponiamo nella sezione Olbiachefu il libro “Pagine di Guerra” (35 pp.), edito nel 1958, per i tipi dell’editore Gatti, facendolo precedere da brevi premesse. La prefazione del libro fu scritta da un altro reduce del grande conflitto, ove rimase mutilato, il tenente Carlo Delcroix. La scrisse in nome della sua ammirazione per il coraggio e lo spirito di corpo dei combattenti sardi, come si evince nella stessa: «Il mio terzo reggimento aveva un deposito alla Maddalena e tutta di sardi era l'ottava compagnia del ventesimo battaglione col quale entrai in guerra, come sardi erano i fanti della brigata Reggio con i quali mi trovai sul Col di Lana. Si scendeva al riposo a Pian di Salesei, vicino al Camposanto, e veramente sembrava giungessero dalla più remota antichità i loro canti nei quali accenti di preghiera si alternavano a gridi di guerra» (Pagine di guerra, cit. p.7). La leva militare prima della Grande guerra Tornando a Giorgio Bardanzellu, l’ufficiale lurese fu non solo un valente avvocato ma anche un brillante giornalista. I suoi scritti, infatti, lasciano trasparire uno stile cronachistico immune da “voli pindarici”. Trasferitosi a Torino per iscriversi all'università, infatti, Bardanzellu esordì nel giornalismo come corrispondente torinese dell’Unione Sarda. Fu anche inviato in Albania per la “Gazzetta di Torino”. Si laureò in giurisprudenza il 5 dicembre 1911. All’inizio del XX secolo, il servizio militare era obbligatorio ma la ferma era limitata al numero dei coscritti individuato ogni anno dal governo. Tale numero era sempre inferiore di molto a quello degli iscritti alle liste di leva e, pertanto, soltanto una minoranza svolgeva il servizio di 36 mesi di ferma, poi ridotti a 24. Per tale motivo, Bardanzellu fu richiamato una prima volta il 31 luglio 1908 dal distretto di Sassari e messo nella riserva per soprannumero di personale (soldato di seconda categoria). Quindi lasciato in congedo illimitato. Fu poi richiamato per formazione e, il 16 agosto 1910, giunse a Genova al 90° deposito reggimentale. Con legge di quell’anno, infatti, i compiti di formazione delle reclute erano passate dai distretti ai depositi reggimentali. La formazione la svolse nei tre mesi che vanno dal 1° aprile al 30 giugno 1913.  In novembre fu di nuovo richiamato al deposito di Ozieri, dove fu ancora una volta posto in congedo illimitato. La carriera di ufficiale A conflitto già in corso in Europa, ma prima dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra mondiale Giorgio Bardanzellu fece volontariamente domanda di frequentare il corso allievi ufficiali e vi fu ammesso il 31 dicembre 1914, ancora una volta al 90° deposito reggimentale di Genova, senza vincolo di ferma. Quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, il 24 maggio 1915, Bardanzellu stava ancora frequentando il corso, dopo essere stato promosso prima caporale e poi sergente. Il 1° agosto dello stesso anno fu nominato sottotenente di complemento dell’arma di fanteria e il 16 dello stesso mese destinato al 49° reggimento di fanteria (Brigata Parma). Il 1° ottobre giunse al deposito territoriale di Treviso, in territorio dichiarato in stato di guerra. Dopo un breve periodo in cui svolse mansioni di ufficiale istruttore della classe 1896, fu incorporato nel reparto mitraglieri del 207° reggimento, appartenente alla Brigata Taro [Ministero della Difesa, Direzione generale Personale Ufficiali, Divisione matricole e libretti personali, Stato di servizio di Bardanzellu Giorgio, pp. 2-3]. Il volume Pagine di guerra, consta di tre capitoli, corrispondenti a tre differenti azioni a cui l’autore ha partecipato: 1) Sul fronte di Tolmino. Una pattuglia; 2) Sul fronte trentino, in Val Lagarina nel 1916. Storia breve della I sezione mitragliatrici del 207° Fanteria; 3) 30 maggio 1916. La battaglia di Passo di Buole.   La battaglia di Tolmino e la difesa del Coni Zugna Tolmino è una cittadina sulle rive del fiume Isonzo, oggi facente parte della Slovenia. Anche allora era al di là del confine nazionale fissato dall’Isonzo. Sul fronte di Tolmino, Bardanzellu combatté la III Battaglia dell'Isonzo, a partire dal 18 ottobre 1915.   Il secondo capitolo riguarda la difesa del Coni Zugna dove Bardanzellu comandò una sezione di mitragliatrici. Ne scrisse il resoconto anche in: Medardo Riccio, Il valore dei Sardi in guerra, Sassari, 1967, pp. 155-163, nel capitolo Con i Lombardi in Val Lagarina. Il Coni Zugna, presso Rovereto (Trento) era stato occupato dall’esercito italiano nei primi mesi di guerra. Per difenderlo dal contrattacco austro-ungarico, gli italiani costruirono a quota 1419 una serie di fortificazioni battezzate dai militari con il nome di “Trincerone”. Per la sua azione sul Coni Zugna, Bardanzellu fu decorato con medaglia d’argento al VM [Ministero della Difesa, cit.]. Queste le motivazioni: “Nonostante abbia ricevuto l'ordine di ripiegare, rimane sulla linea del fuoco prendendo il comando dei superstiti di una compagnia che guida tre volte all'assalto, resistendo al nemico sino all'arrivo dei rinforzi. Nel prosieguo dell'azione, caduti tutti i suoi soldati, prende il comando di uno dei plotoni sopravvenuti. Infine, caduti anche gli uomini di questo reparto, tranne alcuni ufficiali, riesce ad aprirsi un varco tra i nemici e a rientrare tra le linee italiane”.   Passo di Buole: le Termopili d’Italia L’anno dopo, gli austro-ungarici dettero inizio alla “strafexpedition” per sfondare verso la Pianura veneta. Dopo aver aggirato il Coni Zugna trovarono gli italiani attestati sul Passo di Buole che, da allora, passò alla storia come “Le Termopili d’Italia”. Alla Battaglia del Passo di Buole (31 maggio 1916) partecipò anche Giorgio Bardanzellu, che ne scrisse il resoconto che appresso riportiamo.  [Giorgio Bardanzellu, cit.,1958, p. 30].   Nel 1917, il lurese partecipò ad un’altra azione sul Monte Pertica dove rimase ferito, guadagnandosi un'ulteriore medaglia al valore (di bronzo). Inoltre fu promosso sul campo al grado di capitano. Tornò a Luras in licenza di convalescenza con l'aureola dell'eroe. In paese cominciarono a chiamarlo Babai Jolzi, in segno di rispetto. Scrive il resoconto Passo di Buole nel ricordo di un combattente anche nella raccolta di autori vari Pagine eroiche, Roma, 1917.   Rientrato al fronte, si distinse ancora sul Monte Grappa, ove fu decorato con la Croce al Merito di Guerra (luglio 1918) [Ministero della Difesa, cit.]. A guerra finita, fu nominato aiutante di campo del generale Demetrio Cordero Lanza di Montezemolo, comandante della Brigata Alpi, di stanza in Renania e padre di Giuseppe, martire delle Fosse Ardeatine. Tra i suoi compagni d’armi lo scrittore Curzio Malaparte. Fu congedato nell'agosto del 1919.    Lasciamo ora la parola al pluridecorato ufficiale lurese e alle sue “Pagine di guerra” (prima parte). Federico Bardanzellu   P R E F A Z I O N ENon senza una sottile emozione si leggono queste pagine a cui Giorgio Bardanzellu affidò le immediate genuine impressioni di alcune fra le più decisive giornate della guerra da lui combattuta dall'inizio alla fine.Egli le aveva tenute per sé e forse non si sarebbe indotto a pubblicarle, se io non lo avessi esortato a farlo, perché la sua umiltà è pari alla sua fierezza di vecchio soldato. Mi è sembrato che questi tre documenti, nella loro semplicità e brevità, valgano più di qualche libro a dare il senso e la misura della virtù di nostra gente e che oggi, come non mai, convenga farli conoscere. Non si tratta dei saltuari appunti di un diario, ma di veri e propri racconti e gli episodi, rivissuti più che riferiti, conservano l'immediatezza e l'evidenza degli atti e dei sentimenti allora compiuti e provati.Dall'alternarsi delle poetiche descrizioni del paesaggio ai rilievi tattici del terreno e delle vivaci annotazioni di stati d'animo alla cruda osservazione e alla nuda informazione dei fatti risulta, ora un secco accento di rapporto militare, ora un tono di commossa rievocazione, e forse vi predomina la nota personale ma senz'ombra di ostentazione né di compiacimento. L'ammirazione, l'esaltazione e la pietà sono tutte per gli altri, mentre per sé egli non fa che dar notizia o piuttosto render conto del dovere così naturalmente compiuto che le sue stesse gesta appaiono atti consueti e comuni. Di gesta si può ben parlare e, a convincersene, basterebbe la motivazione della prima ricompensa al valore a lui concessa: "Comandante di una Sezione Mitragliatrici, dopo aver ricevuto ordine di far ripiegare le armi perché non cadessero nelle mani del nemico soverchiante, domandava di rimanere ancora sulla posizione. Essendo poi rimasto sulla linea di fuoco, unico ufficiale insieme col comandante di battaglione, prendeva il comando dei superstiti di una compagnia e li conduceva tre volte all'attacco resistendo finché sopraggiunsero i rinforzi. Caduti tutti i suoi soldati, assumeva il comando di uno dei plotoni sopraggiunti e rimaneva sulla posizione finché, caduti anche gli uomini di questo reparto, era costretto per non rimanere prigioniero, ad aprirsi un varco fra i nemici che lo circondavano e già gli imponevano di arrendersi". Era il maggio del '16 in Val Lagarina, al tempo della spedizione punitiva austriaca nella prima fase di quella che sarebbe passata alla storia come la battaglia di Passo Buole, alla cui vittoriosa conclusione è dedicato l'ultimo di questi racconti. Nel primo si parla di una pattuglia sul colle di S. Lucia di Tolmino, la testa di ponte che il nemico riuscì a conservare al di qua del'Isonzo e di cui si sarebbe servita l'armata di Won Below, detta il martello della Germania, per spezzare la nostra fronte nell'infausto autunno dei '17. Egli aveva avuto il battesimo del fuoco su quella parte del nostro schieramento dove per ben 29 mesi fummo all'offensiva, ma era stato presto trasferito nel Trentino per essere impegnato nelle grandi battaglie difensive che, dai contrafforti dell'Adige alle cime del Grappa, decisero le sorti della guerra. Tutti sanno che il soldato italiano è fatto per l'attacco, più confacente alla impetuosità, per non dire alla impulsività, del suo temperamento e gli arditi dei nostri reparti d'assalto dovevano diventare il terrore del nemico. La difensiva invece, con una più sperimentata preparazione dei quadri e una più salda disciplina delle truppe, esige la fredda determinazione e la dura fermezza che difficilmente si accompagnano all'ardore e allo slancio. Ciò spiega perché anche nella guerra vittoriosa subimmo gravi rovesci, quando perdemmo l'iniziativa, e tuttavia furono le battaglie di arresto a darci la vittoria, segno che nei momenti supremi il nostro soldato trova la forza di superare sé stesso. Tutto sta che sia convinto della necessità di battersi e le guerre si vincono o si perdono, non secondo che siano giuste o meno, ma secondo che il popolo abbia o non abbia la coscienza della posta in gioco. L'ultima volta si finì per considerare la sconfitta il male minore. Nella guerra di cui si parla in queste pagine non passò per la mente dei soldati che fosse meglio perderla e, se per un momento prestarono ascolto ai vani promettitori di pace, bastò vedere calpestata la terra di Italia a farli imbattibili.Giorgio Bardanzellu fu un fante e di questa figura antica e nuova del coraggio unito alla pazienza egli ebbe e tuttavia conserva lo spirito e l'aspetto.Si può anzi considerarlo un fante nato, perché è sardo e della sua gente di molta fatica e di poco nutrimento, bruciata dai venti e dal sole, dalle febbri e dalla passione, usa a fare di povertà dignità e di rassegnazione entusiasmo, egli ha dimostrato in pace e in guerra la fedeltà spinta alla devozione e al sacrificio. Nato in provincia di Sassari il 12 agosto del 1888, in quella Luras dove tuttavia il padre suo è ricordato come il patriarca della Gallura, egli ne partì fanciullo per compiere i primi studi a Firenze e passare quindi a Torino, che per lui rimane la capitale del vecchio regno sardo, dove si laureò in legge e dove è rimasto per esercitarvi con grande dignità e fortuna la professione forense. Da allora non ha fatto che approfondire l'amore alla sua terra a cui è continuamente tornato, quasi a riprendere vigore dalle scaturigini del proprio spirito e del proprio sangue. A udirlo parlare del suo paese e della sua casa, dove il padre vicino a morte volle riunire a mensa tutti, i suoi figli e spartire il pane per rultima volta, si ha il senso dell'antichità e della religiosità della gente sarda che già mi aveva colpito nei cori del suoi soldati. Il mio terzo reggimento aveva un deposito alla Maddalena e tutta di sardi era l'ottava compagnia del ventesimo battaglione col quale entrai in guerra, come sardi erano i fanti della brigata Reggio con i quali mi trovai sul Col di Lana. Si scendeva al riposo a Pian di Salesei, vicino al Camposanto, e veramente sembrava giungessero dalla più remota antichità i loro canti nei quali accenti di preghiera si alternavamo a gridi di guerra. Per averli uditi, io posso dire di aver sentito l'anima della Sardegna che ho ritrovato in questo suo figlio.CARLO DELCROIX     SUL FRONTE DI TOLMINO NEL 1915UNA PATTUGLIAEravamo di ottobre sul fronte di Tolmino. La notte era fonda, mite, piena di stelle. Solo la guerra infuriava. A Santa Maria si erano svegliate le mitragliatrici che, col loro ritmo assillante, riempivano la vallata di sibili e di rombi. I cannoni battevano con ostinazione la passerella del rio Selo, da noi occupata. Questo torrente scorreva in fondo alla fertile valle di Santa Lucia e si gettava nell'Isonzo oltre le dirute case del villaggio che portava lo stesso nome.Era un modesto corso d'acqua che irrorava orti e campi allora abbandonati, ma che, in quei giorni, offrivano ancora alla carezza del sole gli ultimi loro frutti. Sugli alberi, senza foglie, le superstiti mele, colorite e saporose, formavano la irresistibile attrattiva dei soldati che, per coglierle, rischiavano di beccarsi una fucilata. Le erbe alte potevano mascherare, di notte, il movimento delle pattuglie. Le sentinelle non si stancavano di sparare. Sparavano ad intervalli, senza obbiettivi, per tenersi sveglie e per disturbare. Le trincee nostre lambivano il bosco di Usnik, a mezza costa delle alture di Cemponi e si snodavano, grevi, lungo la strada di Caporetto ancora in nostro possesso. Allora questo nome era ricco di promesse per tutti i soldati che, in quel settore, si maceravano nel fango delle trincee. Era la cittadina che si sognava di raggiungere nello spiraglio delle brevi licenze, dove rivedere gente, dove ritrovare un po' di vita civile, dove un caffè poteva accoglierci o una donna sorridere. La strada che biancheggiava nella oscurità era il nastro delle speranze e delle fantasie dei soldati del 3° Battaglione del 25° Reggimento Fanteria, di turno in quelle trincee. Passata la strada, la falda della collina strapiombava, di un balzo, sul fondo valle. Si stendevano poi, per alcune centinaia di metri, intrecci di siepi, di fossi e di argini che si arrestavano al solco del ruscello, scavato profondo nel verde dei prati. Di lì la collina risaliva verso Santa Lucia. La strada che, dalle case di Selo, portava a Kosarce si insinuava tra gli alberi, smozzicati dal cannone, per raggiungere Tolmino. A mezzo, spiccava la cappella della Madonnina, rimasta ancora intatta, un fiore di gentilezza fra gli orrori della morte. Poi incominciavano i reticolati, le abbattute di alberi, le trincee nemiche. L'obbiettivo era ben preciso: arrivare ai reticolati tra Kosarce e la Madonnina, riconoscerne i varchi, rilevarne la resistenza, scoprirne i punti deboli. Dovevamo rimanere fuori tutta la notte e raggiungere gli obbiettivi dopo aver esplorato il terreno e osservato gli eventuali movimenti del nemico. Verso mezzanotte le mitragliatrici tacquero. Ma un certo nervosismo perdurò in tutto il settore per l'attività dei razzi. Le luci di bengala illuminavano la valle con bagliori spettrali.Le ombre delle piante, osservate dalla posizione di a terra, quandoi razzi lentamente calavano, si allungavano in moventi sagome di giganti informi. All'una, l'ora parve propizia. Un balzo e fuori dalla trincea. Ciascuno ha un fucile con la baionetta inastata, le cartucce assestate nelle giberne, una vanghetta alla cintura, una pinza tagliatili. Ancor le bombe a mano non erano in dotazione. La sorte nostra era affidata al nostro coraggio e a Dio. Le sentinelle ebbero la parola d'ordine: Romolo, Roma. Scivolammo nel fieno umido e odoroso. Una piccola sosta sul ciglio della strada. Qualche fucilata sibilante. Un colpo di cannone. Avanti. Come ramarri attraversammo la bianca striscia stradale e ci inoltrammo cauti, muti, guardinghi. Il fucile ci era di impaccio ma lo tenemmo ben stretto perché rappresentava l'unica nostra possibile salvezza. Ci investì il fulgore di un razzo; ci gettammo giù, col ventre a terra, tra l'erba foltissima. E poi, carponi, fino a raggiungere la siepe. Un alito di vento.Le foglie, stormendo, confondevano il trepido rumore dei nostri passi.Ci disponemmo per l'avvicinamento. Un sergente con due uomini a sinistra, io, con altri due, a destra. A cose fatte il punto di riunione è la Madonnina. Incominciammo a spingerci avanti ma un rumore ci ferma. Rimaniamo in ascolto col cuore sospeso, Forse una pattuglia nemica che si avvicina. Stiamo pronti a scattare con le baionette che fremono. Ma non è nulla. Arriviamo al rialzo dei morti: un mammellone che servì di protezione ai nostri in una rapida avanzata di agosto. Il riparo era ottimo ma solo frontalmente: i soldati, pronti per lo scatto, mordevano la terra in una tensione di contenuta forza elastica.Quando una mitragliatrice nemica, piazzala di improvviso sul loro fianco, li prese di infilata, fulminandoli. Rimasero lì, inchiodati al terreno, fermi nella morte col gesto in atto dello slancio interrotto. Erano ancora insepolti con la loro forma umana conservata dagli abiti, bianchi per la calce di cui furono aspersi da compagni pietosi.La carne sfatta mandava ancora un sentore di cadavere. Che importa! In mezzo ai morti anche i vivi, stesi in ascolto, immobili, paiono dei morti per il nemico che guata. Rimanemmo a far loro compagnia per poco tempo. Poveri morti! Il vento, alitando, pareva comunicasse pure ad essi il fremito delle nostre anime. Ma non turbammo a lungo il loro silenzio. Scivolammo, tra morto e morto, in un canale. Affondammo i piedi nell'acqua. Scavammo nicchie di protezione sul ciglio, con la vanghetta e con le mani. Ancora in ascolto. Nulla! Fucilate, razzi, cannonate: il consueto ossessionante ritmo della guerra. Arrivammo al rio Selo. Dove si passa? A guado. Giù, nell'acqua fredda fino al petto. Passati. Attenzione nel risalire. Un buffo di vento, una folata di foglie morte ci diedero l'impressione di cose vive. Ora bisogna puntare verso l'erta, decisi, risoluti. Ta-pum: una fucilata per noi. Alt! Il colpo si ripete. Una sentinella avanzata deve averci visto. Rimanemmo zitti e stretti. Passò alta sulle nostre teste una raffica di mitragliatrici. Scoperti? Non ancora. Ritorna la calma e avanziamo carponi. Eccoci sull'orlo della strada di Kosarce. Un razzo. Giù, tra i ciuffi d'erba, immoti, con la mano sul fucile, pronti a sparare. Ma non bisogna svelarsi: spareremo solo se saremo aggrediti. Intanto come si fà ad andare oltre la strada senza essere visti? Il nemico è lì, a cinquanta metri. Si scorge, confuso, l'intrico dei reticolati. Le tenebre ci ostacolano la vista, ma sono a noi amiche. Tutto si confonde nell'universale grigiore. Una vedetta provvede con un razzo ad orientarci. Aspetto che il cannone spari per superare la strada, strisciando. I due compagni ripetono la manovra. Avanziamo, ugna ad ugna, fin sotto i fili. Quando udiamo da qualche parte sparare un fucile allunghiamo una mano o spingiamo un piede: un colpo di cannone ci consente uno spostamento o uno sbalzo. Così i rumori vengono attutiti o confusi e la sentinella non ci avverte, Ma, tra una cannonata e l'altra, quale tormento! Un colpo di tosse, un sussulto, può tradirci. Persino il respiro sembra che possa rivelare la nostra presenza. Il fegato si attacca alla schiena in un brivido che muore tra le mascelle serrate. Però lo stesso istinto di conservazione e la volontà protesa fino allo spasimo ci sospingono, strisciando fra stèrpi e pietre, lungo i reticolati da riconoscere.Indugiamo davanti a un rialzo di roccia, sporgente, come uno sperone,sul pendio e difeso da un triplice ordine di filo spinato. Un piccoloavvallamento a destra, verso la Madonnina, forma un rientrante ove itre ordini di filo si ricongiungono, assottigliando la difesa e costituendoun possibile varco per le sortite del nemico o per un nostro attacco. Ilfante Palermo si arrischia fin sotto il reticolato per provare la resistenza con una pinza tagliafili. É bastato un attimo! Il cecchino diguardia, accortosi della mossa, dà l'allarme. Un crepitio di fucili e unoscroscio di mitragliatrici si scatenano su tutta la linea. Impossibile andare oltre. Ma la nostra missione era ormai terminata. Raggiungemmo di corsa le nicchie prima predisposte ed attendemmo per rientrare che le raffiche di fuoco si rabbonissero. Cessarono, quando Dio volle, anche le sventagliate delle mitragliatrici ma per cedere il turno ad un convulso martellare di artiglierie che investirono la terra di nessuno e picchiarono sulle nostre posizioni.Armati di pazienza e di coraggio aspettammo fino all'alba. Nelleluci grige, che un sottile velo di nebbia rendevano lattiginose, rifacemmo la strada del ritorno, staccati l'uno dall'altro. Quando scavalcammo il parapetto della trincea e rimettemmo i piedi sul terreno che ci era consueto, ci sembrò di rientrare a casa.Ci contammo. Uno mancava: il soldato Palermo. Quando sorse il soleirradiando le valli e le trincee dalla vetta del Monte Nero, scorgemmocol binoccolo, nel piccolo rientrante nemico, appeso ai reticolati, unbraccio, nettamente staccato dal fuoco falciante delle mitragliatrici. Ilcorpo di Palermo giaceva, abbattuto, sulla terra bagnata dal suo sangue. Fine prima parte.