Wednesday, 17 December 2025
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Pubblicato il 17 December 2025 alle 07:00
Olbia. Ogni volta che Roberto Saviano parla di criminalità, soprattutto quando riguarda territori percepiti come “periferici”, si riaccende la stessa polemica. C’è chi lo accusa di diffamare, di parlare male di una terra; e c’è la sua replica, sempre identica nella sostanza: raccontare il crimine non significa infangare un popolo, ma illuminarne i problemi.
Negli ultimi giorni, dopo i recenti arresti legati al traffico di stupefacenti, il tema è tornato prepotentemente al centro del dibattito. Dietro i numeri di una vasta operazione antidroga – 21 misure cautelari eseguite tra Sardegna e penisola – c’è una mappa che parla chiaro: Cagliari, Nuoro, Sassari, ma anche Bergamo, Latina e Novara. Al centro, secondo le indagini, Olbia, indicata come snodo operativo per il controllo, lo smistamento e la spedizione degli stupefacenti.
È in questo contesto che Saviano è tornato sull’argomento, rilanciando sui social un video pubblicato il 1° aprile 2025 (vedi robertosaviano_official). In quel passaggio lo scrittore affermava che “la Sardegna gronda criminalità”, rispondendo alle critiche di chi lo accusava di parlare male dell’isola ogni volta che si occupa di fatti di cronaca che la riguardano.
Saviano non ha quindi formulato oggi quella affermazione, ma ha scelto di riproporla, ritenendola evidentemente ancora attuale alla luce degli eventi recenti. Una precisazione necessaria per discutere con onestà non solo delle parole utilizzate, ma anche del momento e del peso con cui vengono rilanciate.
Sul principio generale che Saviano ribadisce da anni è difficile dissentire: raccontare la criminalità non significa diffamare un territorio. Tacere per salvaguardare un'immagine turistica o identitaria è una forma di ipocrisia. Il mare, il paesaggio, il cibo, la cultura non possono diventare una cortina dietro cui nascondere fatti gravi. La libertà di informazione, se è tale, non seleziona solo ciò che rassicura.
Ma proprio per questo va chiarito, con precisione, che Saviano parla di criminalità, non di una "mafia sarda" in senso tecnico. La distinzione è tutt'altro che secondaria e andrebbe sempre mantenuta, proprio per evitare equiparazioni improprie. Ed è da questa distinzione che conviene partire, se si vuole provare a capire davvero di cosa stiamo parlando.
Il problema, infatti, non è se parlare di criminalità, ma come farlo. Le parole hanno un peso. Un conto è analizzare, distinguere, contestualizzare; un altro è usare formule assolute, mediaticamente efficaci ma culturalmente fragili. Dire che un territorio "gronda criminalità" senza spiegare quali differenze contano rischia di trasformare una denuncia in un'etichetta e un'analisi in una semplificazione.
La criminalità in Sardegna esiste, e negarlo sarebbe ridicolo. Ma non ha la stessa storia, la stessa struttura, la stessa organizzazione delle grandi mafie continentali. Qui, più che sistemi mafiosi nel senso classico, si sono spesso sviluppate forme diffuse e opache di controllo sociale: violenze indirette, intimidazioni silenziose, meccanismi di esclusione. Un crimine che raramente si manifesta in modo spettacolare, ma che agisce in profondità, nel non detto, nella quotidianità. Le eventuali infiltrazioni di criminalità organizzata continentale restano, a mio avviso, elemento esogeno, che fatica a radicarsi in un tessuto sociale storicamente refrattario ai sistemi gerarchici importati. L'individualismo sardo, la diffidenza verso le strutture verticali, la memoria di secoli di dominazioni subite rendono questo territorio poco permeabile a logiche mafiose nel senso classico.
Proprio per questo è necessario, prima ancora che accusare dall'esterno, fare autocritica come sardi. Riconoscere che il problema non riguarda solo la droga o le armi, ma anche ambiti apparentemente rispettabili: gli appalti, i concorsi pubblici, certi meccanismi dell'università, la sanità, le carriere costruite più per appartenenza che per merito. Criminalità senza lupara e senza faide, ma non meno efficace nel produrre esclusione, silenzi, obbedienza.
Ma c'è un livello ancora più difficile da ammettere, perché si presenta come normale, quasi fisiologico: la criminalità ideologico-politica. Quella che non minaccia apertamente, ma fa capire. Quella che lascia intendere che, se non appartieni a un certo schieramento, se non condividi determinate idee, non passerai un concorso, non farai carriera, non entrerai in certi ambienti, soprattutto nel mondo della cultura. Appartenenze che non sono solo di partito, ma anche di cerchie più riservate, dove le affiliazioni e le cooptazioni contano più dei curricula.
È un discorso che viene fatto apertamente. Anche a me è stato detto chiaramente: "Se non hai quelle idee politiche, non sperare di fare strada". Anche questo è criminalità, anche se non finisce nelle statistiche giudiziarie.
È proprio questa forma di violenza silenziosa che mi riporta sempre a una frase del compianto don Renato Iori, ex parroco di Monti, studioso rigoroso e poeta, uomo che ho stimato enormemente e che considero un caro amico. Eravamo in macchina, diretti a Sassari, e parlavamo proprio di questi temi. A un certo punto disse, con quella lucidità asciutta che gli era propria:
«La cosiddetta mafia sarda è peggiore di quella siciliana, perché non ti dà nemmeno l'onore del martirio».
Non era una battuta. Era una diagnosi.
Don Renato coglieva un punto essenziale: esiste una forma di male che non affronta, non sfida apertamente, non si espone. Un male che non produce eroi perché non concede nemmeno la possibilità di una testimonianza limpida. Non uccide sempre, ma logora. Non colpisce frontalmente, ma isola. Non fa rumore, ma scava. È una violenza senza scena, senza sangue, senza racconto. E proprio per questo più difficile da riconoscere e da denunciare.
È qui che il discorso si sposta. Meno slogan, più comprensione dei meccanismi profondi. Meno anatemi, più capacità di distinguere. Non per assolvere, ma per capire davvero. Perché senza comprensione non c'è cura, e senza parole giuste il rischio è di fare rumore lasciando tutto com'è.
La Sardegna non ha bisogno né di silenzi compiacenti né di etichette totalizzanti. Ha bisogno di uno sguardo onesto, rigoroso, capace di includere anche l'autocritica. Anche questo, in fondo, è un atto di lealtà verso un territorio.
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