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Storia di Carolina: da Olbia a Londra tra criminologia e pole dance

Storia di Carolina: da Olbia a Londra tra criminologia e pole dance
Storia di Carolina: da Olbia a Londra tra criminologia e pole dance
Patrizia Anziani

Pubblicato il 24 March 2019 alle 16:52

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Olbia, 24 marzo 2019- Metti un pomeriggio a fare zapping sui social e ti appare lei, una bellissima ragazza dal fisico scultoreo, che ricordavi solo qualche anno prima, o forse poco più, sorridente dentro un passeggino mentre si affacciava per ricambiare il tuo saluto con lo sguardo buffo, un po’ aggrottato e particolarmente intelligente.

Eppure è lei, Carolina, cresciuta e oggi molto donna, incarnazione di quella certa femminilità sarda capace di trasformarsi in un attimo da compostezza ed eleganza british ad aggressività felina della savana più recondita e selvaggia.

L’atletica Carolina è un dardo infuocato di energia esplosiva lanciato nel mondo dell’arte e della cultura a tutto tondo: laurea in giornalismo, master in criminologia in Australia, consulente di social media, scrittrice, blogger, professoressa universitaria part-time, dottoranda in criminologia, ed infine, a sorpresa, intraprendente e ricercata pole dance performer.

L’arco è sua madre, mia ex stimatissima collega responsabile assistente di volo di Meridiana. Come Carolina ha vissuto per molto tempo in Inghilterra, apprendendo l’inglese come se fosse la sua lingua madre.

Poi l’ineccepibile lavoro sugli aeroplani e l’incondizionato amore in Sardegna e per la Sardegna - è sposata con un olbiese d.o.c.- l’hanno resa definitivamente un’adottiva sarda.

Carolina, non nega di avere le sue difficoltà quotidiane nella città dove attualmente vive e lavora. Londra, la metropoli dove si è trasferita per studio nel lontano 2011, dopo aver terminato il Liceo classico a Olbia, è la città che comunque è stata capace di trasformare i suoi sogni in progetti concreti.

Carolina, ci puoi raccontare com’è stato il tuo primo impatto con la città di Londra?

Il mio primo impatto non è stato a dir la verità un primo impatto: penso di aver avuto nove mesi quando mia madre mi ha portata a Londra per la prima volta, e poi ci siamo tornate almeno una volta all’anno fino a quando mi sono trasferita. Viverci è stato diverso dall’andarci in vacanza. Quando i miei mi hanno salutata, e io nella mia stanza dei dormitori universitari mi sono sentita persa in un mondo enorme e complicato che sembrava troppo tosto per me. Però poi mia madre mi dice sempre che è tornata a trovarmi neanche un mese dopo ed ero già un’altra persona, molto più sicura di me e in grado di cavarmela.

Ho sentito molte persone dire “io non ce la farei a vivere in un posto come Londra”, ma chi poi ci si trasferisce la adora. È facile adattarsi, perché hai tutto a portata di mano e la città offre talmente tanto che è impossibile non subirne il fascino (nonostante il tempo sia a volte deprimente).

Nel recentissimo articolo che ti ha dedicato Repubblica hai messo a nudo il tuo carattere forte e determinato, che con una spiccata dose di autoironia sa andare fortemente controcorrente e che non vuole essere imbrigliato dai soliti stereotipi “appaio dunque sono”, ma al contrario le apparenze sono volutamente veicolate per una buona causa: “no alla violenza sulle donne, femminismo e rappresentazione bidimensionale della femminilità”. Quanto le apparenze interferiscono oggi sulla vita di una donna?

Mah, le apparenze influiscono sempre. È una cosa contro la quale io ho sempre cercato di combattere – da ragazzina, per esempio, mi vestivo da uomo con magliettone di rock band e scarpe una diversa dall’altra. È molto facile, da donna, non essere presa sul serio.

Quando presento le mie ricerche alle conferenze – che sia in Inghilterra, in America, ovunque – tutti pensano sempre che sia una studentessa o una stagista fino a quando non salgo sul palco. Agli appuntamenti capita spesso che, soprattutto certi uomini, non ti ascoltino neanche. Tu puoi parlare di fisica quantistica ma per loro hai una sola funzione.

Mi è successo da poco di assistere a una conferenza. Ho conosciuto l’organizzatore e gli ho chiesto di poter presentare le mie ricerche all’evento successivo… e lui mi ha risposto: “La tua presentazione non mi fa impazzire, ma se vuoi venire come mia ospite al prossimo evento sei la benvenuta, mettiti quei bei pantaloni dell’altra volta.” Mi sono vendicata stroncando il suo libro in un giornale accademico (non perché sono cattiva, era effettivamente pessimo).

In sostanza, le mie diverse personalità, passioni e hobby per me sono un gran divertimento non solo perché adoro fare quello che faccio, ma perché mi piace sfidare quello che la società si aspetta dalle donne: se sei una professoressa devi essere seria e mettere solo tailleur monocolore; se ti piace il tuo corpo sei vanitosa; se mostri il tuo corpo devi essere stupida eccetera eccetera. Quando le persone scoprono che sono una professoressa, e una pole dancer, e una scrittrice, e una blogger e blah blah blah sono confuse e la cosa mi diverte. Il fatto che io sappia fare twerk in verticale non mi impedisce di presentare le mie ricerche a una conferenza.

[caption id="attachment_129413" align="alignnone" width="1995"] Marianne Chua Photography[/caption]

Per Repubblica hai scritto “La vita degli italiani all’estero non è sempre London Calling”. Attualmente vivi e lavori a Londra, ma sei nata e cresciuta ad Olbia. Cosa ti manca di Olbia e cosa invece sei contenta di non rimpiangere?

La mia vita e quella delle persone che conosco ad Olbia non è stata ancora contaminata dalla velocità delle grandi città come Londra. La FOMO (fear of missing out) domina la vita di tutti a Londra: hai troppa scelta, quindi perché stai uscendo con una persona sola quando potresti essere su Tinder e conoscerne di più? Perché fai quel lavoro mentre potresti farne un altro? Perché sei in questo bar mentre potresti essere a quell’evento? Il paradosso della scelta molto spesso è stancante, perché ti fa sentire in colpa quando ti prendi il tuo tempo per rilassarti. Di Olbia mi manca la vita meno complicata, il conoscere le persone e le loro famiglie e quindi la possibilità di sapere che non hanno qualcosa di terribile da nascondere, e ovviamente mi mancano i prodotti italiani di stagione, i paesaggi, l’aria pulita.

Nel mio libro Bad/Tender parlo di questo contrasto. Quando ho conosciuto il mio ex violento ero un po’ ingenuotta, non conoscendolo mi sono fidata fino a quando poi si son scoperti i vari altarini. Mi manca quella protezione olbiese che non ho mai voluto, ma che a volte mi sarebbe servita.

La vita accademica al momento mi permette di passare molto tempo ad Olbia quindi al momento vivo le cose migliori di Olbia e Londra. Però non penso di poter vivere ad Olbia full-time: mi piace andare ad eventi che espandono i miei orizzonti, mi piace conoscere persone uniche da tutto il mondo, mi piace parlare inglese tutti i giorni e mi sento a casa nel mio quartiere di Hackney, un quartiere di studenti, artisti, famiglie e localini indipendenti.

Cosa ti manca di Olbia quando sei a Londra e cosa ti manca di Londra quando vieni ad Olbia?

A Londra mi manca l’umorismo italiano e le parole dialettali olbiesi, che sono diventate talmente parte del mio vocabolario che a volte mi devo spiegare coi miei amici provenienti dal resto d’Italia – mamma dice che parlo più sardo da quando sono a Londra di quando vivevo ad Olbia! Mi manca la conoscenza della musica e dell’intrattenimento italiano migliore. Mi manca la vicinanza della maggior parte dei posti, che sono a 10/15 minuti di macchina e non a due ore e mezza di Tube di distanza. Mi mancano le passeggiate in acqua, mi manca svegliarmi col sole sulla mia terrazza e non sentire rumori quando mi addormento la sera (se non la televisione a tutto volume di mio zio al piano di sotto, sempre meglio delle sirene spaccatimpani delle ambulanze londinesi).

Quando sono ad Olbia mi manca la varietà londinese. Mi manca poter scegliere di andare in qualsiasi bar, in qualsiasi zona, a seconda di come mi sento. Mi manca l’anonimato londinese, che a volte quando ti senti sola fa male, ma che quando hai voglia di uscire da sola, o di vestirti come ti pare senza essere guardata, ti assiste: anche se hai la cresta e una tuta leopardata, gli inglesi non battono ciglio. Mi manca l’umorismo scorretto e ovviamente mi mancano gli amici!

Che consigli daresti ad un genitore che vuole mandare il proprio figlio a studiare a Londra?

È un trasferimento che va un po’ pensato a seconda di cosa si vuole fare. Sfortunatamente, un anno dopo che mi sono trasferita, il governo conservatore di David Cameron ha aggiunto alla sua lista di danni inutili un costo di £9000 l’anno per i corsi universitari. Gli studenti possono prendersi un prestito che ripagheranno una volta che entreranno a lavorare, ma è una cifra importante (che chi ha iniziato nel 2011 come me non ha dovuto pagare).

È anche vero che il mondo lavorativo inglese segue procedure diverse rispetto all’Italia, e il modo più facile di abituarcisi è andare all’università, che offre corsi aggiornamento per le professioni e assistenza per far domanda agli stage o a lavoro. Ho conosciuto italiani che hanno iniziato lavorando in un bar e da lì non sono mai riusciti a muoversi – però appunto dipende da cosa vuoi fare: se vuoi lavorare nell’ambito dei ristoranti Londra offre molto, ma se il ristorante è un back-up plan mentre aspetti di meglio, non sempre quel meglio arriva se non sei abituato a fare domanda per altri lavori.

Carolina ama anche ballare, è un’esperta di pole dance: un’arte che richiede impegno e sacrificio, ma che da tante soddisfazioni. Consiglieresti alle tue coetanee questo sport, e perché?

Sulla pole dance potrei scrivere un intero articolo (e l’ho fatto, per il giornale Metro UK)perché c’è tanto da dire. A livello sportivo, non penso di aver mai fatto nessuno sport che mi abbia dato la forza, il fisico, la passione e il divertimento della pole dance. È uno sport dove usi tutto il corpo, è faticoso, è stancante, è pericoloso (se cadi ti fai molto molto male) ma allo stesso tempo è divertente: stai ballando, stai volando, non ti sembra di fare sport. Molto diverso dal fare addominali in palestra (anche se, per potenziare, servono anche quelli).

Ho iniziato a fare pole durante il mio master di criminologia in Australia. Non conoscevo nessuno, mi sentivo sola, la mia ansia e la mia depressione non accennavano a migliorare e quando andavo a correre non mi concentravo sul paesaggio ma sulle mie preoccupazioni. Pole in Australia è molto popolare e la scuola vicino alla mia università aveva buone promozioni, quindi ho provato e non l’ho mai abbandonato.

La cosa che mi è piaciuta subito di pole è che è una comunità che accetta molto il diverso. Ci sono uomini e donne di tutte le età, origini, orientamento sessuale e con fisici perfetti o meno atletici. L’importante è divertirsi. E visto che la pole dance incoraggia le esibizioni – siano un saggio, una gara, o un evento – puoi essere anche un’atleta, ma se non hai il carisma sul palco la tua performance non sarà sempre fantastica. Questo dà spazio a persone con abilità diverse – a volte fanno poco a livello di acrobazie, ma hanno ritmo, o hanno presenza scenica. Ogni performer è diverso e va apprezzato nella sua unicità.

Piccola parentesi: io vivo pole come uno sport, infatti mi alleno dalle 7 alle 15 ore settimanali e faccio gare (ne ho vinta una l’anno scorso e adesso competerò in due gare prima di tornare in Sardegna d’estate). Però è importante ricordare che pole si ispira e prende tantissimo dal mondo degli spogliarelli – e quando fai mosse ed esercizi che si chiamano “vagina monster” e “hello boys” non lo puoi evitare! Quindi nonostante pole sia uno sport, è importante riconoscere e dare sostegno alle sorelle spogliarelliste, che fanno un lavoro difficile, tosto e sono anche delle grandi performer, invece di dire “ah ma io non sono una spogliarellista eh”. Per me, usare il mio corpo e shoccare il pubblico è una delle cose più belle della pole dance – in sostanza, ci sono stili diversi, alcuni più simili alla danza di una ballerina, altri più da spogliarellista, ed è importante riconoscere che sono tutti belli senza giudicare.

Sono parte di una bellissima comunità che si chiama PD Filthy Friday, facciamo esibizioni, lezioni e ci sosteniamo a vicenda sui social media. È una sorta di attivismo in perizoma che promuove l’accettazione di noi stesse/i (ci sono tanti ragazzi che si esibiscono con noi), della diversità e che soprattutto accetta l’aspetto più scabroso della pole dance, perché molto spesso aiuta le persone a sentirsi a proprio agio col proprio corpo e con la propria sessualità. Io per prima, essendo stata in una relazione violenta, odiavo il mio corpo e non mi sentivo a mio agio con me stessa: fare pole mi ha ridato la forza e la possibilità di piacermi.

Attualmente sei impegnata in un dottorato di ricerca in criminologia, ci puoi raccontare di che si tratta e dei tuoi progetti a breve termine?

Mi definisco una cyber-criminologa perché mi occupo di internet, social media e di adattare la legge ai cambiamenti tecnologici. Mi sto concentrando sui troll di Twitter che scrivono insulti nel parlare di casi di cronaca, e la mia ricerca si sta fondendo con lo studio delle teorie di cospirazione e delle fake news. In sostanza, sto cercando di creare un modus operandi del tipico troll per aiutare sia le aziende di social media che i governi ad adattare i loro regolamenti e le leggi a questo tipo di comportamento, che per me non è la dimostrazione della pazzia di un gruppo di persone, ma un atteggiamento che si estende a tutta la società vista l’opportunità di utilizzare queste tecnologie a livello anonimo.

Ho presentato la mia ricerca in Galles, a Londra, a Bruxelles e a Washington DC e adesso la presenterò in Islanda, a Maggio, in una conferenza di Internet Service Providers che invita un gruppo di professori a parlare di nuove ricerche in campo di Internet.

Spero di finire il mio dottorato in un anno, e nel frattempo insegno giornalismo e criminologia all’università. Un po’ come hobby, ho anche scritto un articolo accademico sul gruppo Facebook Fire WERK With Me, che unisce meme di Twin Peaks con meme di RuPaul’s Drag Race, il mio talent show preferito dove una serie di Drag Queen si sfidano per trovare la prossima superstar del drag. Il mio articolo parla delle comunità online dei fan e verrà pubblicato in un libro su Drag Race e la filosofia quest’autunno. Spero di poterlo presentare facendo un’esibizione drag!

Mi potete trovare su Facebook, Twitter e Instagram sotto @bloggeronpole.

Il mio sito è https://bloggeronpole.com/, dove scrivo sia in Italiano che in Inglese.

Il mio libro si trova su Amazonqui