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Una lezione di latino - di Giuliano Deiana

Una lezione di latino - di Giuliano Deiana
Una lezione di latino - di Giuliano Deiana
Giuliano Deiana

Pubblicato il 25 August 2018 alle 17:12

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Una lezione di latino

Quando la sveglia suonò, Salvatore allungò un braccio verso il comodino e, a tentoni, cercò l’abat-jour. L’accese e, alla fioca luce della lampada, si stiracchiò rumorosamente.

Dalle fessure degli scurini, un timidissimo chiarore cercava di penetrare dentro la stanza per convincerlo che il giorno era già spuntato e che, dunque, bisognava levarsi.

Contò mentalmente fino a tre per prendere quel tanto di coraggio che era necessario ad abbandonare la dolce morbidezza del suo letto e, sospirando, protrasse la conta fino a dieci, poi, con nessun convincimento, scalciò le coperte e, rabbrividendo per l’orrore di ciò che stava facendo suo malgrado, si alzò.

Dietro la finestra che si affacciava su via Nuova, il solito gruppo di comari aveva già iniziato il suo cicaleccio mattutino.

Zia Pedrina Pibia e Maria Pistola gareggiavano sulle tonalità più alte: - arrivato è tuo figlio? -Eja! Questa mattina. -E con cosa è arrivato? Col draghetto? -Ma che draghetto e draghetto! Traghetto si dice, traghetto! Capita l’hai?- -Draghetto o traghetto o piroscafo, come ti piace, l’importante è che sia venuto. -E!... quello già è vero!

Il carro di Pietro Sordo doveva esser passato lì vicino perché la voce di zia Bainza Cannone s’era levata più alta delle altre in un grido acuto e rabbioso:

-già vedrai che me la pagherai la gallina che mi hai ammazzato col tuo carro maledetto.

- Ancora con questa gallina!?... – aveva commentato qualcuna.

- Se ti dà fastidio, non ascoltare. Certo, a te non te ne importa nulla! Che cosa te ne può importare? A te non l’ha ammazzata una gallina! E ma… già vedrai che me la paga! Tanto me la paghi, sordo o non sordo, brutto stupido ammazzanimali.

Salvatore si strofinò gli occhi, sbadigliò sonoramente e pensò a quanto sarebbe stato bello svegliarsi a un’ora più decente e senza quel perenne schiamazzo di voci femminili sulla strada.

In gabinetto, poiché l’acqua gli sembrava troppo fredda, fece finta di lavarsi il viso. Inumidì un poco i capelli e li rassettò con le dita di una mano aperta a pettine. Fece per uscire, ma poi ci ripensò. Guardò il suo viso allo specchio, fece due o tre smorfie, tirò fuori tutta la lingua e decise che era meglio darsi una lavatina ai denti col dito indice intinto ripetutamente nell’acqua e strofinato sulla saponetta. Si riguardò allo specchio; con le mani cercò di spalancare meglio che poteva gli occhi ancora assonnati e poi, fatto un ampio e profondo respiro, aprì la porta della stanza accanto, lì dove sua nonna aveva messo a dormire don Geutebrück - il suo insegnante di latino in collegio - quando costui, dieci giorni prima, si era presentato in via La Marmora con una valigiona enorme e l’espresso desiderio di raggiungere, per le vacanze estive, non meglio precisati parenti in Continente.

Il prete, che sembrava ancora più smunto nella sua lunga tonaca lisa e unta, era seduto al tavolo e aveva davanti a sé un fascio di fogli disordinati sui quali scriveva come un forsennato. Con la mano sinistra si arruffava la massa incolta dei sottili capelli biondi. Gli occhi cerulei parevano quelli di uno spiritato.

Il letto era intatto, le tende della finestra tirate, gli scurini chiusi e tutte le lampadine del lampadario erano accese. In un angolo, un pitale colmo di orina maleodorante rendeva l’aria della stanza ancora più greve.

Quando Salvatore entrò, il prete alzò la testa o lo guadò con una strana espressione di meraviglia.

-Già qui? – gli chiese. -Mi avete detto alle sei. Sono le sei, ma se è troppo presto, me ne torno a letto. -No, no. È che non mi sono accorto dell’orario. Bisogna che chieda a tua nonna se mi procura un piccolo orologio. -Nonna non ha orologi – gli disse Salvatore. -Potresti darmi il tuo, allora. -Il bambino guardò l’orologio che aveva al polso e con voce ferma gli disse: -Non posso, questo me lo ha regalato il mio padrino quando mi hanno cresimato. -Avvicinami la bottiglia dell’acqua e il bicchiere, per favore.

Salvatore eseguì. Il prete riempì il bicchiere e vi immerse l’indice e il medio della mano destra. Aveva dipinta sul viso, giovane ma patito, la stessa devota espressione che avrebbe avuto se avesse intinto le dita nell’olio santo invece che nell’acqua. Poi col gesto solenne del celebrante si disegnò il contorno degli occhi e delle sopracciglia, bevve un sorso d’acqua che trattenne in bocca risciacquandola rumorosamente; infine, si alzò e, avvicinatosi al pitale, ci sputò dentro.

-Mammamia! Se lo avesse visto nonna! – pensò Salvatore.

Il bambino avvertì il desiderio di raccontare tutto alla vecchia insinuarsi perfidamente nel suo animo e si sentì rinfrancato dai non gravi sensi di colpa che, timidamente, si erano affacciati in lui quando, poco prima, aveva fatto finta di lavarsi il viso e i denti.

“Sì, glielo devo proprio raccontare a nonna. Le devo dire lo sporcaccione che è così, magari, lo caccia via prima del tempo e io mi libero di quest’ossessione” pensò Salvatore mentre prendeva posto alla sua destra.

-Caro Salvatore, oggi studierai la Morfologia della grammatica latina. Tu sai che cos’è la Morfologia, vero?

Salvatore si sedette, poggiò i gomiti sul piano del tavolo, si prese il viso fra le mani e strinse gli occhi per cercare, in uno sforzo di disperata concentrazione, di ricordare dove avesse sentito codesta parola che non gli pareva del tutto nuova. Ma al cervello e alla lingua non arrivò nulla.

-Non me lo ricordo più. -Salvatore, Salvatore! Come puoi non ricordare! Su, pensaci un pochino. M o r f o l o g i a. Che voleva dire morfo? Morphé in greco voleva dire forma. E logìa? Che significa logìa? Anche lei viene dal greco, da lògos che vuol dire discorso. Insomma, la morfologia è quella parte della grammatica che studia le parti del discorso. Che studia la flessione delle parole, la loro derivazione e anche la loro composizione. Una parte della grammatica. Hai capito? Come la sintassi; come la fonetica. Tutte queste cose insieme fanno la grammatica. Ti è chiaro Salvatore?

Salvatore accennò di sì con la testa.

-Lo sai chi usò per primo questo nome? Chi lo inventò, possiamo dire?

Salvatore scosse la testa e insieme le braccia per dire di no, che non lo sapeva.

-Fu Goethe. Il grande Goethe coniò questo termine.

Salvatore assentì e sistemò più comodamente il capo fra le mani.

La voce di Geutebrück era pedante, senza alcuna modulazione, monotona. Il bambino pensò che se quell’accento avesse avuto almeno la durezza della lingua tedesca, forse lui sarebbe riuscito a restare un po’ più sveglio.

Ma quel prete, nonostante il suo nome e il colore dei suoi occhi, non era tedesco. Era italiano. Italiano di un paese che non ricordava più dove fosse. Su in alto fra i monti, gli pareva di ricordare. Glielo aveva detto quando ancora erano in collegio e lui non la smetteva mai d’asfissiarlo con le sue lezioni di latino. Nell’ora di latino? latino. Nell’ora di ricreazione? latino. Dopo il refettorio? latino. La notte, prima d’andare a dormire? Latino. Salvatore avrebbe dovuto essere un latinista e, invece, in quella materia, riusciva a rimediare solo un quattro come voto massimo.

Era stato promosso per miracolo e sua madre, piena di materno zelo, aveva pensato bene di invitare Geutebrück a trascorrere qualche giorno di vacanza a Olbia, “quando partirà per raggiungere i suoi parenti, così, se vuole, potrà aiutare Salvatore a colmare le sue lacune”, aveva detto all’insegnante. L’avrebbe strozzata, sua madre, se avesse potuto.

Il prete era arrivato dal collegio con un valigione la cui dimensione aveva fatto preoccupare non poco sia il bambino sia sua nonna. Si era installato nella camera che la vecchia gli aveva assegnato e da lì non usciva se non per mangiare e per andare in gabinetto.

Dopo i primi tentativi infruttuosi, gli amici si erano stancati di venire a chiamare Salvatore per andare al mare insieme, o per giocare in strada alle figurine. A tutte le ore del giorno, lui era impegnato col prete a studiare latino. Alla fine, capita l’antifona, qualche volta venivano sotto la finestra per canzonarlo rumorosamente:

-Salvatoreee, noi andiamo al mare. Studia bene eh! Mi raccomando. -Salvator, Salvatorum, asinum, asinorum, latinum, latinorum.

Il bambino si mangiò le unghie per scacciare la rabbia che gli faceva battere il cuore con più forza e cercò di immaginare che cosa avrebbe potuto fare per far soffrire le pene dell’inferno a quel pretaccio maniaco. Si concentrò fino allo spasimo perché la sedia si rompesse e lo facesse cadere malamente a terra, perché gli cascasse il lampadario sulla testa, perché un folletto amico gli rovesciasse il pitale addosso; ma nulla accadde e Geutebrück continuò imperterrito la sua lezione.

-Dicevamo, allora, che con la morfologia noi studiamo le parti del discorso che, in latino, come ricorderai, sono … Quante sono Salvatore? Ooo… -O… -Sì, bravo! Ooo… -Ottanta – affermò Salvatore.

Il braccio del prete scattò come una saetta e un potente scapaccione si abbatté sulla testa dell’alunno.

-Macché ottanta! Otto! Sono otto, Salvatore. Solo otto. E quali sono? Quali ti ricordi?

-Nemmeno una, professo’.

-Povero me! Oh povero me! Sono il sostantivo, l’aggettivo, il pronome e il verbo. E queste sono le parti variabili. Ripetile. Su, coraggio.

-Aggettivo, pro…

-Prima viene il sostantivo. Sostantivo, aggettivo, …

-Sostantivo, aggettivo, pronome, verbo.

Bravo! Lo vedi che quando vuoi sai esser intelligente?! Poi ci sono le parti invariabili che sono: l’avverbio, la preposizione, la congiunzione e l’interiezione. I n t e r i e z i o n e. Capito? Ripeti.

A Salvatore pareva che un’onda di mare gigantesca lo sommergesse trascinandogli addosso, come sassi, tutte quelle parole che lo lasciavano senza fiato. Si sentiva annegare. Annaspò per risalire in superficie e presa una boccata d’aria, ripeté con voce affannata:

-inter… interiezione, congiunzione, preposizione e …avverbio.

Geutebrück lo guardò con aria interrogativa. I suoi occhi cerulei esprimevano una velata meraviglia.

Salvatore pensò di aver sbagliato ancora una volta e irrigidì il collo puntando ancora meglio i gomiti sul tavolo per reggere la sberla che sentiva arrivare. E, invece, gli giunse alle orecchie la voce del prete:

Salvatore, perché non ti piace il latino?

L’intonazione era la più dolce che il bambino gli avesse mai sentito usare.

-Sì che mi piace – mentì.

-No, non è vero. Non mentirmi. Non ti piace, Salvatore, lo sento. Perché non ti piace questa lingua che pure è così importante? che ha dato lustro a Roma e al suo Impero, che dà, ancora oggi, lustro alla nostra Patria? Pensa a Cesare, a Cicerone… Chi mai può vantare fra i suoi progenitori nomi così illustri? Noi siamo i loro figli, Salvatore.

Noi siamo la progenie di quegli Eroi, dei Conquistatori del mondo, dei Civilizzatori. Come potremmo noi, come potrai tu appellarti con orgoglio Civis Romanus se non ami e se non intendi la loro lingua?

-Ma nessuno parla così, ormai. Solo i preti in chiesa – azzardò timidamente Salvatore. -Ma no, no e no! Assolutamente no! La nostra stessa cultura è latina. Il nostro modo di pensare è latino. Noi siamo intrisi di latinicità… di cultura latina, insomma. Latinicità è una parola orribile, bruttissima; non usarla mai, mai! Tu non te ne rendi neppure conto, ma quando tu pensi, il tuo pensiero trasuda latino. Tu, tu, … tu sei… Quando qui in questo tuo paese – Olbia si chiamava, come oggi – quando qui a Olbia c’erano le terme e le ville di Atte e il porto era uno dei più importanti per Roma, be’ allora, lo sai? si parlava latino: L a t i n o! Oh, buon Dio! Come potrò mai convincere questo piccolo uomo ignorante, questo piccolo barbaro a …, a … Che Iddio mi dia la forza per combattere questa battaglia. Che Iddio m’aiuti nella mia missione.

Salvatore sentiva ronzare nella sua testa questo profluvio di parole, come un nugolo di mosconi quando s’avventano su un vasetto di marmellata aperto. Nessuno ne aveva mai usate così tante parlando con lui, nemmeno signorina Clementina Marroni quando, tornato da scuola, correggeva i compiti a lui e a Piera. Non aveva mai cercato di capire così tante parole insieme neppure quando con Piera faceva la gara, dizionario alla mano, a chi dei due fosse il più bravo a conoscere il significato delle parole o a correggere gli errori dell’altro.

-Io sono più bravo. Quella volta tu hai detto l’aradio. Non si dice. Si dice la r a d i o.

-E tu, l’altro giorno hai detto, invece, che il carro di Pietro Sordo aveva imbistito la gallina di zia Bainza

-Sì, è vero, l’ha schiacciata. Non se la sono nemmeno potuta mangiare.

-Eja, ma non si dice imbistire, si dice investire. Il carro di Pietro Sordo ha investito la gallina.

- Ma burlando mi stai? Se le ha tolto pure le piume, la ruota! Quale vestire?!

Don Geutebrück doveva essere ancora assorto nella supplica rivolta a Dio perché taceva guardando coi suoi occhi slavati un punto indefinito delle macchie che l’umido aveva disegnato sul muro.

Salvatore, invece, momentaneamente dimentico delle sue sciagure, abbandonò i ricordi del passato per indirizzare il suo pensiero a situazioni che immaginava più attuali.

L’orologio al suo polso segnava le otto e mezzo.

- Parliamo ora della flessione – riprese a dire il prete. – La flessione dei sostantivi, degli aggettivi e dei pronomi si chiama declinazione. Quella dei verbi, invece, si chiama coniugazione. Nelle parole soggette alla flessione si distinguono: la radice…

A quell’ora, Antonello, Piero e Gavino dovevano aver già inforcato le biciclette per pedalare fino a Marinella, per fare il bagno e per cercar ricci.

Una rabbia profonda e sorda gli invase il petto e salì irrefrenabile fino agli occhi e alla gola. Due lacrimoni non ne vollero sapere di restare nascosti dietro le palpebre e un lamento gorgogliante gli sfuggì dalla bocca.

Tolse dal viso il sostegno delle mani e cominciò a dondolare la testa avanti e indietro come, al cinema, aveva visto fare qualche volta ai matti.

- Io voglio andare al mare. Io voglio andare al mare. Io voglio andare al mare…

Il prete distolse la sua attenzione tanto dalle macchine d’umido quanto dal suo eloquio e guardò, con meraviglia e degnazione, il bambino che sedeva accanto a lui.

- Basta, Salvatore. Ora basta. Smettila subito.

- Io voglio andare al mare. Io voglio andare al mare. Io voglio andare al mare…

-Ti ho detto di smetterla! Stai fermo! – disse con voce imperiosa Geutebrück.

Poi balzò in piedi con impeto. La sedia si rovesciò e cadde pesantemente all’indietro. Afferrò saldamente per le spalle Salvatore e iniziò a scuoterlo energicamente.

-Finiscila!

-Io voglio andare al mare. Io voglio andare al mare. Io voglio andare al mare…

-Ti ho detto di smetterla. Stai zitto! Te lo ordino!

Un potente scapaccione si abbatté sulla nuca di Salvatore proprio nel momento in cui il suo capo era più vicino al bordo del tavolo. Il naso picchiò duramente sul margine di cristallo che ricopriva il piano e un fiotto di sangue sprizzò improvviso allargandosi un una chiazza che colò fino al pavimento.

Il prete si portò le mani alla bocca in un gesto di disperazione proprio nel momento in cui la porta si apriva per lasciare entrare la nonna.

La donna guardò il nipote e tamponando il naso sanguinante col suo grosso fazzoletto, puntò il suo sguardo penetrante sul sacerdote che, rinsecchito nella sua lunga tonaca logora, continuava a tenere le mani sulle labbra.

-E tu saresti un prete? – sibilò la vecchia. Poi aggiunse – ora tu prendi la tua brutta faccia, la tua valigiona e il tuo latino e mi saltate tutti e tre la porta. E fa che non ti veda più in casa mia. Capito mi hai?

Fu così che don Geutebrück terminò le sue vacanze a Olbia e tristemente ritornò in collegio perché, poveretto, non aveva nessun altro luogo in cui andare, nemmeno da quegli imprecisati parenti su nel Continente.

Con lui anche quelle lezioni di latino finirono e si concluse, anzitempo, la permanenza di Salvatore in quel mesto convitto lontano da casa in cui lui non aveva mai scelto di andare.

Allein-Bruson, agosto 2018

© Giuliano Deiana 2018