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Emanuela Fioravanti e il Covid: 40 giorni di isolamento tra affetto e senso di abbandono

La testimonianza di una cittadina olbiese che ha sconfitto la malattia

Emanuela Fioravanti e il Covid: 40 giorni di isolamento tra affetto e senso di abbandono
Emanuela Fioravanti e il Covid: 40 giorni di isolamento tra affetto e senso di abbandono
Camilla Pisani

Pubblicato il 18 January 2021 alle 06:00

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Olbia. Di Covid si parla ormai da quasi un anno: la pandemia è argomento universale, primario, quotidiano; il malato, il “positivo” è l’oggetto dell’inchiesta e dell’attenzione mediatica, ed ha assunto, col passare dei mesi, caratteristiche quasi disumane, diventando un numero, un segno più del bollettino giornaliero, una figurina disincarnata e distante. Ma un malato non è un numero, un malato non è un’entità astratta: un malato è innanzitutto una persona. Come si vive, davvero, dentro l’esperienza Covid? Lo abbiamo chiesto a Emanuela Fioravanti, olbiese, che col Covid ha convissuto, tra alti e bassi, quaranta giorni: “sono stata, dall’inizio della pandemia, attentissima a seguire le indicazioni del protocollo sanitario, e ad utilizzare, anche e soprattutto sul lavoro, tutti i dispositivi di protezione individuale, disinfettando la mia postazione e tutto quello che poteva rappresentare un rischio”, racconta Emanuela Fioravanti che ha deciso di raccontare pubblicamente la sua esperienza. Malgrado la scrupolosa attenzione spesa nell’evitare il contagio, una mattina ecco comparire il primo sintomo sospetto: “sentivo da giorni una forte stanchezza, di cui avevo parlato anche con una collega, ma che avevo ricondotto, più che ad una possibile malattia, al periodo di stress lavorativo. Ma un giorno di inizio ottobre inizio ad avere una tosse molto stizzosa, e a quel punto, benché fossi reticente nel collegare i due sintomi, ho capito che c’era qualcosa che non andava. Contattato tempestivamente il mio medico, ho trascorso qualche giorno a casa, decidendo di auto isolarmi in via preventiva, in attesa di eseguire il tampone”. Trascorrono giornate di attesa e di apprensione, e la cittadina olbiese si reca al Mater Olbia per fare il tampone, con in tasca la quasi certezza di aver contratto il Covid: alla perdita di olfatto e gusto, infatti, capisce che il quadro è praticamente confermato. “Ricordo l’alba in attesa del tampone, in preda a questa ansia crescente. Al pomeriggio arriva l’esito: sono positiva. A partire da quel momento devo dire che il mio medico di base si è trasformato nel mio punto di riferimento più importante, seguendomi quotidianamente nella valutazione dei miei progressi -o peggioramenti-, garantendomi fin da subito una terapia e sostenendomi”. La prima settimana di Covid, infatti, si rivela pesante dal punto di vista della sintomatologia: tosse, febbre, respirazione difficoltosa. Ma grazie alla terapia e al costante monitoraggio delle manifestazioni cliniche della malattia, il decorso, seppur difficile, viene tenuto sotto controllo: “come prima cosa, il mio medico ha fatto in modo che io potessi controllare la mia saturazione, parametro fondamentale per comprendere l’andamento della malattia e per optare, eventualmente, per un ricovero tempestivo. Non è mai venuto a visitarmi, ma è stato un validissimo sostegno, mi ha chiamata ogni giorno per raccogliere febbre e livello di saturazione e si è reso disponibile a spiegarmi in modo chiaro e sereno tutti gli aspetti della malattia”. Una delle problematiche che il Covid pone, a livello psicologico, è quella dell’isolamento: per non esporre la collettività al rischio di contagio, è necessario che il soggetto positivo si isoli completamente, sospendendo qualsiasi interazione sociale, comprese quelle necessarie, come approvvigionamento di viveri o farmaci. Ci si trova soli, nella lotta contro un male ancora largamente sconosciuto, oscuro, dal decorso incerto: in un certo senso, è un tête-à-tête con l’ignoto e col fantasma della solitudine, è dover dimenticare il resto del mondo per restare soli con sé. Emanuela Fioravanti lo racconta con un pizzico di commozione: “all’inizio ho dovuto fare i conti con una stanchezza sovrumana, che mi faceva inciampare nei miei stessi passi. La mia fortuna sono stati i miei animali, la cui compagnia e il cui conforto mi hanno permesso di riempire le giornate. Avere loro a cui badare mi ha aiutato anche a scandire un ritmo, a mantenere una routine che dentro giorni infiniti si fa fatica a tenere su”. Ma quello che segna la differenza tra un abisso di solitudine e la salvezza è, come spesso accade, il fattore umano: “ho avuto il dono di avere accanto, anche se a distanza, amiche che mi hanno fatta sentire amata, accudendomi come fossi una dea. Pur senza uscire di casa, ricevevo tutto quello di cui avevo bisogno; cibo fresco, giornali, addirittura una pizza dalla mia pizzeria di fiducia. È stato commovente accogliere le premure e l’affetto sia da parte di chi mi vuol bene, sia da parte di qualche vicino”. Un grande afflato solidale, quindi, a volte inquinato da qualche gesto sgradevole: “purtroppo ho sperimentato anche io la discriminazione in quanto malata, ho visto come la paura del contagio influisce sulle persone, tanto che c’è stato qualcuno che addirittura, vedendomi dietro la finestra, ha voltato lo sguardo per evitare anche solo di salutarmi. Ma questa è stata solo una piccola parte di quello che ho vissuto; sono stati molti di più i gesti di vicinanza, di partecipazione, di affetto”. La condivisione dell’esperienza sembra essere uno strumento vincente per non soccombere alla paura, come spiega la cittadina olbiese: “con una cara amica, anche lei contagiata, avevamo contatti telefonici quotidiani, e scambiandoci le reciproche impressioni su quanto stavamo vivendo, confrontando i sintomi e aggiornandoci sul decorso della malattia, siamo riuscite in parte a tenere a bada l’angoscia. Condividere è stato fondamentale per quanto riguarda l’impatto psicologico che il Covid ha su chi si ammala. Ho cercato di affrontare questa esperienza con serenità, ho meditato e pregato molto, ho cercato di mangiare benché nulla avesse sapore, ho cercato di leggere e di dare un ritmo alle giornate, per quanto possibile”. Nota stonata di questa testimonianza è certamente la delusione nei confronti delle istituzioni, che, nonostante la solerzia della nostra intervistata, avrebbero latitato su più fronti: “mi sono sentita abbandonata. Ho ricevuto un’unica chiamata dalla Asl, nella quale mi è stato chiesto conto della mia situazione e durante la quale, alla mia richiesta di segnalarmi all’interno della app Immuni, ho ricevuto fumose promesse su una telefonata da parte dell’ufficio d’Igiene, mai ricevuta. Da lì in poi, non ho più sentito nessuno, fino al tampone successivo, che mi è stato concesso un mese dopo il primo -effettuato a mie spese-. Quello che ho percepito è stato un fortissimo senso di abbandono, che è stato pesante da vivere, ero sola con la malattia. Mi sono sentita anche vagamente presa in giro, poiché da parte mia ho cercato di fare tutto il possibile per seguire i protocolli, auto isolandomi immediatamente dopo la comparsa dei primi sintomi, scaricando Immuni e cercando un contatto con la Asl, la quale però non ha fornito di contro una risposta efficace, vuoi per sovraccarico, vuoi per organizzazione da rivedere”. Quello che questa testimonianza ci lascia è sicuramente un messaggio di coraggio, di speranza: “mi piacerebbe poter restituire quello che ho ricevuto nei quaranta giorni del mio isolamento, perché è stato un meraviglioso insegnamento di solidarietà e di umanità. Purtroppo è complicato riuscire ad aiutare concretamente chi si ammala di Covid, perché non conosco nomi né ho contatti per capire a chi indirizzare il mio aiuto. Nel mio piccolo, con le amiche, abbiamo creato una sorta di piccolo team di supporto alle nostre conoscenze che stanno attraversando la malattia; ogni giorno con una chiamata, un messaggio, cerchiamo di essere presenti e lanciare un messaggio di incoraggiamento”. C’è molta incertezza sul decorso che la malattia fa, e che certamente si fonda sulle peculiarità fisiche di ognuno: ma questa incolpevole fumosità, questo alone di gravosità che aleggia intorno alla diagnosi di positività può essere alleggerita dal racconto di chi, come Emanuela Fioravanti, ce l’ha fatta: “sarei felice se qualche malato, leggendo le mie parole, potesse affrontare questo viaggio con maggiore serenità, nella consapevolezza che il decorso non sarà necessariamente drammatico, e anche quando lo dovesse diventare, potrebbe avere un epilogo felice”. Passare attraverso il Covid, l’isolamento, la mancanza di certezze derivante dalla parziale ignoranza su questo virus può essere devastante per la psiche: è per questo che testimonianze positive come questa possono rappresentare, senza per questo ambire a diventare misure universali, un balsamo per chi sta lottando, un appiglio per non arrendersi e uscire dalla tempesta a schiena dritta.