Olbia. "La storia di una promessa", si intitola così il libro scritto da Gianpaolo Imbriani che verrà presentato a Olbia martedì 22 luglio alle 20 al The Wine club, in piazza Matteotti. Una storia che racconta un viaggio tra emozioni, ricordi, promesse e grandi valori trasmessi attraverso sport, passione e impegno.
Gianpaolo Imbriani è il fratello di Carmelo Imbriani grande calciatore di serie A, scomparso prematuramente a causa di una malattia 12 anni fa. Gianpaolo Imbriani parte da quella malattia, da quel letto di ospedale e dall'affetto, incredibile, che tutta l'Italia, da nord a sud aveva manifestato per quella giovane promessa del calcio, con uno striscione onnipresente:"Imbriani non mollare".
Il dolore ha molti modi di manifestarsi, trasformarsi ed essere accettato, Giampaolo ha trovato un modo per viverlo e provare a superarlo coinvolgendo, letteralmente, il mondo intero nella sua testimonianza di vita del fratello, dello sport e dei valori a cui non si deve rinunciare mai.
Un lungo viaggio, 124 Paesi visitati e più di 600 mila km percorsi, e la condivisione della loro storia attraverso testominianze, racconti, e due immagini simbolo, oltre al pulmino.
Da chi è partita, tra lei e Carmelo, l'idea dello sport come strumento di lotta contro le discriminazione e come strumento di unione?
"In realtà è nata durante il periodo della sua malattia quando le tifoserie da nord a sud del Paese si sono unite sotto un unico striscione, 'Imbriani non mollare', per un calciatore che non poteva vantare nessun trofeo ma che evidentemente aveva lasciato un segno come uomo. Con quello slogan ho poi iniziato a viaggiare in autostop così da poter salire in macchina delle persone che mi offrivano un passaggio per raccontare loro il motivo del viaggio. Un modo di viaggiare che con il tempo mi ha permesso di credere che il 90% delle persone che incontro sono buone".
La passione per il pallone che aveva Carmelo, è cresciuta con lui?
"Sì, da quello che racconta nostro padre è stato sempre innamorato del pallone e con il tempo quella passione è diventata poi una professione che lo ha portato a giocare in serie A, fino a sedersi in panchina quando è diventato un allenatore di calcio. Negli anni che allenava i più piccoli credo che lo preoccupasse di più tramettere loro dei valori che potevano servire fuori dal rettangolo di gioco piuttosto che insegnare loro gesti tecnici e tattiche. Lo dico perché anche io facevo parte di quei bambini che sognavano il goal in una finale di un mondiale ma gli occhi me li aveva fatti aprire Carmelo dopo avermi chiesto: “Cosa ti spinge a restare in campo anche se sta diluviando e la partita è una di quelle giocate senza arbitro? È la passione! Ma se crescendo ti rendi conto che quella partita invece nemmeno la organizzeresti più, perché c’è freddo ed è meglio non prendere un raffreddore, o se a un allenamento preferisci stare in giro per il paese perché sai che quel pomeriggio puoi incontrare la ragazzina che ti piace tanto, in quel caso allora non perdere tempo su quella strada, il calcio accontentati di giocarlo".
“Giocalo, tanto con il pallone non ci devi fare nessun contratto. Lo trovi sempre ed ovunque. Dagli un calcio quando ne hai voglia - suggeriva saggiamente Carmelo - ritrovati per qualche partitella con gli amici di sempre e presentati su altri campi lontani da questo di casa”. Questo fu uno spunto su cui entrambi i fratelli ebbero di che riflettere e come racconta Gianpaolo: "C’era poco da fare, preferivo quella ragazzina! Desideravo di gran lunga trascorrere del tempo con i miei amici, stare in giro fino a tardi e non preoccuparmi di dare il buon esempio a chi mi vedeva dentro e fuori dal campo. Ho preferito allora giocarci con quel pallone tutte le volte che mi permetteva di integrarmi in un paese lontano dal mio. Mi bastava avvicinarmi a un campetto per chiedere ai ragazzi che vedevo giocare di mettere in squadra anche me per finire, nella maggior parte dei casi, a bere una birra con uno di loro".

Condividerebbe un ricordo di una monelleria tra fratelli? Un ricordo simpatico che magari vi è costato una sgridata.
Purtroppo non ne ricordo molti. Deve sapere che Carmelo si è trasferito per giocare a Napoli quando aveva 12 anni. Lasciare un paese come il mio con poco più di 500 anime per trasferirsi in un una città come Napoli, con 1000 pregi e altrettanti difetti, lo ha portato a crescere lontano dalla famiglia e molto più velocemente di me e mia sorella Diamante. Questo lo ha portato a sentirsi più responsabile nei confronti della sua famiglia e con il tempo, nei nostri confronti, si comportava come un padre. Con questo non voglio dire che non abbiamo avuto delle sgridate, anzi, sono state tante e per lo più legate ai danni che poteva causare un pallone nelle mura di casa".
Il primo viaggio, quanto è stato difficile?
"Lo è stato molto ma è servito farlo. Un mese dopo aver perso mio fratello ho approfittato di un invito al Campidoglio a Roma dove al “Premio Andre Fortunato” ne avevano dedicato uno a mio fratello. Alla fine di quella manifestazione non avevo intenzione di tornarmene a casa e dopo aver ripiegato l’abito di Carmelo che avevo preso in prestito dal suo armadio, avevo preferito poi indossare uno zaino che mi aveva regalato lui qualche anno prima, dove mi ero fatto cucire sopra 2 toppe. Una mostrava l’immagine di Carmelo in bianco e nero che avevo ricavato da una foto che lo vedeva esultare dopo un suo goal a Bergamo. L’altra invece metteva in risalto un disegno di Keith Haring, che avevo tatuato 3 mesi prima di perderlo, e che vede 2 omini, uno di colore giallo e l’altro rosso, che si abbracciano sotto un planisfero. Con il tempo ai miei occhi hanno assunto le sembianze di 2 fratelli che viaggiano per il mondo abbracciati. Grazie ad un passaggio di alcuni miei amici avevo raggiunto Trieste e il confine con la Slovenia".
"Da li dovevo raggiungere la stazione dei treni a pochi km di strada, ma ho allungato il braccio quando ho sentito una macchina arrivare alle mie spalle dopo aver capito che ero in ritardo. Avevo sentito in quel momento toccarmi il braccio e mi ero fermato convinto che fosse stato mio fratello a farlo. In realtà impiegai poco per capire che semplicemente era stato il laccio dello zaino spinto dal vento. Mentre realizzavo questo, la macchina che avevo sentito arrivare si era poi fermata per farmi salire, con a bordo una signora che stava accompagnando il figlio in stazione. In quei pochi minuti di strada avevo realizzato che in effetti avrei potuto usare l’autostop per risparmiare qualche soldo. L’autostop oltre a permettermi di continuare il viaggio, mi permetteva di raccontare il motivo del viaggio a chi mi lasciava salire in macchina. Quindi da un lato, - spiega Imbriani - mi permetteva di non tornare con la mia testa in quella maledetta stanza d’ospedale dove avevo visto andare via mio fratello e dall'altra mi permetteva di raccontare e di mostrare le foto di un fratello calciatore e di tifoserie che da nord a sud del Paese erano scese in campo per sostenerlo. Da allora non mi sono ancora fermato".
Cosa porta con sé, fisicamente di suo fratello? Una maglietta, un cappellino?
"Di oggetti in viaggio ne ho portati tanti. Sono partito con una maglia che mostrava un’immagine di mio fratello in bianco e nero che avevo creato perché sono convinto che anche solo un’immagine e una storia ben raccontata possano arricchire la formazione di quei ragazzi che si affacciano al mondo del calcio e sono convinto che sceglieranno mio fratello come un idolo da seguire, nonostante non potesse vantare nessun trofeo ma seguiranno il suo esempio dopo aver chiesto a loro stessi:“perché tutto quell’affetto nei suoi confronti?”
"Nel mio zaino ci ho infilato poi un furgoncino che tiravo fuori ogni volta che volevo scattare una foto che mostrasse quanta strada avessi percorso da quel maledetto 15 febbraio 2013.
Non manca mai nemmeno una bandiera con l’immagine di mio fratello e quella di Keith Haring che uso nelle scuole dove entro per raccontare questa storia e per coinvolgere poi gli alunni in uno scatto. Mi piace anche sottolineare che in ogni viaggio porto con me degli oggetti che mi sono stati regalati da amici perché mi piace sottolineare che racconto di 2 fratelli che girano il mondo abbracciati, ma che é anche “supportata emotivamente” da tanti amici. Quella che non manca mai infine è una bandiera sarda che mi permette di vantare il mio amore per questa terra".
Siamo vicini al terzo stadio, raggiunti i 5 si fermerà?
"Sogno da tempo di costruire 5 campi di calcio in 5 diversi Continenti. Così da far sposare la passione del calcio di mio fratello con quella dei viaggi coltivata dopo la sua scomparsa. Ad oggi Carmelo può già vantare, grazie ad un regalo del Benevento calcio, un campo a Benevento. Grazie invece a dei missionari che operano in Tanzania, in Africa, é stato realizzato il secondo ad Itigi, proprio in Tanzania. Sto collaborando ora con la Fundacion Fucas per realizzare un campo a Salta in Argentina, in America.
È ancora lontano il traguardo -afferma convinto Imbriani - e quindi non riesco ancora a vedermi fermo".
C'è una famiglia che porta nel cuore tra quelle che l'hanno ospitata in questi anni?
"Di famiglie che mi hanno ospitato lungo il viaggio ne ho conosciute molte. Soprattutto grazie ad una brutta esperienza avuta in Messico dove ero stato picchiato e derubato. Dopo quell’episodio dovevo trovare una soluzione per continuare il viaggio nonostante fossi stato derubato della carta dove all’interno avevo i soldi guadagnati in un’esperienza che mi aveva visto lavorare a New York. Un consiglio su come continuare il viaggio me lo aveva dato una ragazza americana incontrata in macchina con altre 3 ragazze messicane che mi avevano offerto un passaggio. Era loro ospite grazie ad un’applicazione, il Couchsurfing, che permette di chiedere ospitalità nei Paesi che attraversi lungo il viaggio e mi invitò ad usarla. Quel programma mi aveva permesso di raggiungere quella meta con i soldi che mi erano rimasti dopo il furto. Oltre a quelli, mi aveva messo in condizione di risparmiare tempo per goderlo insieme alle persone che mi ospitavano e che mi invitavano a passeggiare nelle strade delle loro città. Da allora oltre a quel monumento, alla cascata e al panorama che c’era da vedere, ho avuto modo di godermi le persone che hanno arricchito il mio viaggio ed ho iniziato a credere che forse quel brutto episodio non era stato un caso".
"Tra tutte queste famiglie c’è poi la famiglia Galano di New York che mi ha raccolto da terra quando nel febbraio del 2015 avevo raggiunto la grande mela convinto di poter incontrare personalmente i membri della Fondazione Keith Haring e raccontare loro il perché, oltre all’immagine di Carmelo, utilizzavo nelle mie foto anche una che appartiene a loro. Persi però le speranze di incontrarli quando arrivò Febbraio che sembrava voler soffiare sulla mia ferita per ricordarmi che erano già trascorsi 2 anni da quando avevo perso mio fratello. In quei giorni mi sentivo smarrito e mi ritrovai perso in strada dove Antonio Galano, titolare del locale dove lavoravo, era venuto a prendermi per portarmi a casa loro. Ancora oggi ho le chiavi di casa e ogni volta che torno in quella città non ho bisogno nemmeno di suonare al citofono".
Guardandosi indietro rifarebbe ogni passo di questi viaggi o cambierebbe qualcosa?
"Ho realizzato che ho iniziato a viaggiare un mese dopo aver perso mio fratello quando ero ancora in uno stato confusionale ma grazie a quello ho fatto cose che con razionalità non avrei fatto: per esempio mettermi in viaggio senza molti soldi in tasca perché in quei mesi avevo solo bisogno di evadere. Poi la Pandemia mi ha costretto a tornare a casa e durante la quarantena ho cominciato a rivedere le foto dei miei viaggi. Fino a quel giorno ero convinto di aver perso la memoria e ogni volta che un amico mi chiedeva “raccontami della Bolivia, dell’Asia o dell’ultimo viaggio che hai fatto” io rispondevo che non lo ricordavo. Poi peró nel rivedere quelle foto ho cominciato a notare che in realtà io ricordavo quello scatto, con chi ero e chi l’aveva scattato. Così ho cominciato a chiedere a me stesso “perchè allora dico che non ricordo?” e poco alla volta ho cominciato a scrivere tutto fino a capire che non avevo perso la memoria. Era solo una forma di difesa, per paura di tornare al periodo più brutto con Carmelo in ospedale preferivo mettermi in condizioni di dire “non ricordo nemmeno quello che ho fatto ieri”. In realtá era tutto ancora dentro la mia testa".
"Negli ultimi anni forse rimpiango di non aver imparato a usare i social. Mi confronto alcune volte con dei ragazzi che sono bravi a raccontare un viaggio che li vede partire in traghetto da Olbia per raggiungere Civitavecchia e lungo quella tratta ti fanno vivere quell’esperienza in mezzo al mare mentre si vede sullo sfondo un mare agitato ma poi arrivano tutti salvi. Alla fine di quella diretta sui social risultano loro i viaggiatori e io che magari sono sulla stessa nave ma con il telefono in tasca sembra che non sono mai uscito di casa. Questo potrebbe essere lo strumento che mi permetterebbe di far conoscere questa storia a tanti altri e molto più velocemente. Avrei certamente potuto documentare meglio i miei viaggi ma non li avrei vissuti come ho fatto, quindi non credo che cambierei molto".
Racconterà altri passi della vostra storia con un nuovo libro?
"Probabilmente si. Non mi piace però l’idea di chiudermi nuovamente in una stanza e viaggiare solo nella mia mente. Mi piacerebbe però far notare che i miei viaggi sono ricchi di storie di vita, di persone, culture e bellezze che il mondo mi ha saputo regalare! Racconto storie affascinanti, un'infinità di aneddoti e le meraviglie di ogni Paese che ho attraversato. È la storia di un giramondo a cui la vita ha presentato un dolore talmente grande che ha trovato in questo suo girovagare, il solo modo per affrontarlo! 12 anni di viaggi, di incontri, di storie incredibili e profondamente reali, intrecciate a storie di famiglia, di amore e di amicizia, di esperienze straordinarie che mi hanno permesso di ritrovare me stesso. È la mia storia, il mio dolore e la continua ricerca di un nuovo timbro sul passaporto!"