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Olbiachefu

Ma non ci piegheremo

Ma non ci piegheremo
Ma non ci piegheremo
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 24 February 2019 alle 12:24

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Olbia, 24 febbraio 2019- Oggi è giorno di votazioni. Le urne attendono. Regola vorrebbe di scrivere e pubblicare qualcosa di riempitivo, non dico di disimpegnato. Qualcosa insomma che non entri del merito della questione. Silenzio, si vota, dice la legge antica come la democrazia, niente propaganda nelle ultime quarantotto ore.

Dovrei scrivere di passato, archeologia, vecchi personaggi di Olbia o dintorni. Dovrei raccontarvi una qualche storia, stuzzicare la mente e il cuore del lettore con fatti ed aneddoti, che sembravano cancellati, ed invece erano solo nascosti nel remoto angolo della memoria. Questa dovrebbe essere Olbiachefu. Riempirei lo spazio della pagina, forse avrei più visualizzazioni ancora che nelle ultime settimane, partite di calcio permettendo. E invece no, oggi non farò questo.

Senza dimenticare il passato, scriverò, invece, di futuro. Un futuro che non si intravede. Un futuro di morte e desolazione. La gente è infelice, è infelice il mio popolo, è impoverito, eccetto che di rabbia. La pastorizia ha fatto il mio popolo. Parlo da chi – paradossale no? - è nato sul mare, ed i pastori li ha conosciuti veramente a quasi trent’anni, dopo il mio rientro nell’Isola. Da quando è esistito questo porto di Olbia imbarcava, insieme al sale, i prodotti della pastorizia: formaggio, pellami, insaccati, animali. Se non lo si faceva ufficialmente, che vuol dire legalmente, lo si faceva da altri approdi alternativi non lontani, attraverso il contrabbando. Uno di questi scali nascosti dai pini nani porta ancora il nome di Poltu Casu, il porto del formaggio (dei contrabbandieri). Esportavamo, allora, da queste coste, di nascosto dell’autorità, prodotti così preziosi, richiestissimi sempre, e tra loro intimamente collegati come lo sono il sale ed il formaggio, al punto che il secondo serviva altrove per salare i cibi insipidi. Un commercio florido, ma essenziale per sopravvivere noi delle coste ed i pastori dell’entroterra, alla faccia del dazio dei Savoia.

Prende forme diverse, ora, il contrabbando. Non è più in ballo la sopravvivenza della povera gente, ma il lucro di pochissimi: i padroni del mondo fanno le regole, gli industriali locali le applicano, o meglio sono costretti a farlo. Si “contrabbanda” di nascosto dell’opinione pubblica ciò che è assurdamente legale importare qui, cioè il latte delle pecore rumene e bulgare, che io non so nemmeno che forma del muso abbiano. Si contrabbanda “legalmente”, usiamo sempre questo verbo, formaggio che si spaccia come fatto qui, ma non è sardo, è fatto là, altrove, laddove gli operai che guadagnano una miseria vengono mantenuti dalle badanti dei nostri padri diventati troppo vecchi in una terra di vecchi centenari. È un contrabbando diverso, ufficialmente legale, ma più “criminale” del primo, intendo quello antico del Settecento e dell’Ottocento, che aveva almeno la sua nobiltà del rischio dettato da una necessità generata dal fisco avvoltoio. Nessun insulto ai sardi ha mai conosciuto la storia sarda, più di questo. Subimmo deforestazioni, umiliazioni, deportazioni parziali sotto Roma, che ostentava piccoli e robusti sardi pelliti in catene nei suoi trionfi. Nel pieno medioevo schiavi e schiave sarde, chiamati servi, furono trasportati nelle stive verso le case dei ricchi mercanti pisani e genovesi. Domestiche, tzeraccas, emigravano in continente a migliaia nel Novecento, per lavare scale e piatti sporchi nelle case dei ricchi professionisti delle città industriali. Fummo umiliati nelle miniere del Belgio, nei ristoranti tedeschi, negli alberghi svizzeri. Continuiamo ad essere umiliati facendo i camerieri nella Costa Smeralda, le cassiere o i magazzinieri nei supermercati che spuntano come funghi, in ogni dove, qui ad Olbia, e non solo, e che portano altrove gli incassi, altrove rispetto agli acquirenti dei prodotti venduti.

Umiliati sempre. Ma nessuna umiliazione fu più umiliazione di questa: il formaggio che fu nostro prima dei tempi di Abramo ed Isacco e dei nuraghi rischia di non essere più nostro, pur spacciato come nostro. Quale efferatezza è mai questa? Umiliati ora anche nel nostro cibo, nelle nostre viscere, nei nostri antichi succhi gastrici. Il popolo fiero che siamo, sopravvissuto agli attacchi longobardi e arabi grazie anche al nostro formaggio, ora soccombe davanti a un subdolo cancro silenzioso, introdotto dagli ipocriti ruffiani sacerdoti del Dio Mercato. Alle carestie del grano sardo si poteva sopravvivere mangiando il formaggio e la carne di pecora delle montagne sarde. Il formaggio sardo campava l’uomo sardo, nel bene e nel male, nelle gioie e nei dolori. La sua pelle aveva l’odore del formaggio, le sue capanne, le sue vesti, le sue abitazioni, le sue cantine, le sue soffitte, anche i suoi amplessi, avevano l’odore del formaggio. Così come gli Islandesi sanno di aringa affumicata, stoccafisso e balena, e gli Irlandesi di patate e Guinness.

Ora il formaggio di Sardegna è lui che non sopravvive all’uomo, anzi a quegli uomini che si sono venduti al sinedrio del Tempio della globalizzazione per trenta denari. I pastori urlano, si lamentano, versano il loro sangue bianco sull’asfalto e gridano che il loro latte costa meno dell’acqua comprata al market. Ma che mostro abbiamo creato? È questa la Civiltà, il Progresso che illudeva come allocchi i nostri padri e i nostri nonni? Quali saranno le forze che si scateneranno, davanti a tale aberrazione? Perché, sì, si ribelleranno, eccome ci ribelleremo. Non portate una madre ad avere difficoltà a nutrire i suoi figli, non lo fate! Non colmatela quella misura; non sapete che è stato quello a far scattare le grandi rivoluzioni della storia? Ma, ohimé, quante sono le persone che capiscono veramente ciò che sta succedendo?

Hanno distrutto il grano rosso, su tricu ruju, che campò le plebi della Roma imperiale, che campò noi, e che era il vanto del sole sulle nostre piane, e lo fu per millenni. “Portate pazienza” dissero i politici incapaci ed improvvidi, e si volle così, nelle alte misteriose sfere, che venissero prodotte solo forme di pecorino di mille tipi. L’Europa lo ordinava, viva l’Europa! L’Europa ordinò, e chinammo il capo. Interi e floridi paesi -cito solo Bonorva- che soprattutto sul tricu ruju campavano, finirono così per spopolarsi o quasi. Il nostro pane, anche il carasau, ora lo facciamo col grano americano, vero? Vi rendete conto della follìa, cari giovani abituati ad essere assuefatti all’incredibile e al virtuale? Non è un videogame, o meglio, lo è, nel senso che per qualcuno la vita di un popolo è come un bandito che Lara Croft annienta con la mitraglietta, premendo semplicementecol pollice il pulsante del joystick.

Ci hanno abituati lentamente alla follìa, come ci si abitua ad avvelenarsi con l’alcool e la nicotina. Dopo il grano, ora è in corso la distruzione di fatto anche del nostro latte, quindi delle nostre pecore, e il latte si trasforma alchemicamente in sangue versato. Vogliono di conseguenza distruggere una terra, un popolo, la sua storia, la sua stessa struttura familiare e sociale, è anche questo che vogliono. È la nostra possibilità estrema di sopravvivere comunque autonomamente che vogliono distruggere. Come hanno fatto con i nostri cugini greci.

Noi non lo permetteremo, non dobbiamo permetterlo. Stiamo qui ad aspettare. Come quando aspettavamo, accorti, abili, pazienti ed armati, saraceni e turchi che sbarcavano sulle nostre spiagge con la luna piena. Ci provavano. Le prendevamo e ne davamo, dicevano i cronisti arabi dell’Altomedioevo, che ci rispettavano e temevano eccome. Ma alla fine, seppure subendo danni, non riuscirono a conquistarci. Noi non ci piegheremo. Moriremo in piedi. Ma non ci piegheremo.

@M. Agostino Amucano