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Questioni di sale. Settecento terranovesi contro il marchese

Non tutti conoscono la disputa che vide opporsi per oltre un secolo la nobile e prestigiosa casata dei Pes, marchesi di Villamarina

Questioni di sale. Settecento terranovesi contro il marchese
Questioni di sale. Settecento terranovesi contro il marchese
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 16 July 2017 alle 09:04

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Olbia, 16 luglio 2017- Non tutti conoscono la disputa che vide opporsi per oltre un secolo la nobile e prestigiosa casata dei Pes, marchesi di Villamarina, disputa sorta a causa della comandata per l’estrazione del sale. La lunga contesa compattò profondamente lapiccola comunità terranovese in lotta, ed è forse da vedersi come una delle cause più profonde dell’antica e perdurante rivalità fra Olbia (allora Terranova) e Tempio, da cui i Pes di Villamarina provenivano.

Foto satellitare recente delle Saline olbiesi in Google Earth. Foto satellitare recente delle Saline olbiesi in Google Earth.

Ancora testimoniato dall’attuale toponimo “Le Saline” (nelle varie carte ottocentesche appaiono i toponimi Salina Manna; Salina Longa, Salinas ecc.), la regolare sequenza di paludi estese dal delta del fiume Padrongianos a Murta Maria (vedi figura a lato), si prestò ottimamente all’estrazione del sale, il “frigorifero dell’antichità”, definito “utile quanto il sole” da Isidoro di Siviglia (Cartagena,560ca. – Siviglia 636), uno dei massimi intellettuali e teologi del suo tempo, menzionato anche da Dante nella Divina Commedia. Fin dalla più remota antichità il cloruro di sodio fu infatti l’imprescindibile sostanza atta all’essiccazione di carni e pesci, alla produzione di insaccati e formaggi, alla salamoia di olive, alla conservazione di verdure, frutta ecc., come anche all’essiccazione dei pellami ed a molte altre funzioni. Impiegato abbondantemente già dalle prime civiltà stabili quali i sumeri, gli egiziani, i cinesi, per la sua preziosità il sale venne usato anche come base per gli scambi commerciali, prima e dopo il conio della moneta metallica. Ad esempio, è noto che una parte della paga dei soldati romani poteva essere corrisposta in sale (da qui il nome di salarium, salario) e che –per arrivare ai nostri giorni- durante l’occupazione nazista dell’Italia il prezzo di una delazione era di cinque chili di sale, diventato merce rara nell’ultimo periodo di guerra.

Le indagini archeologiche rivelano che fin dalla prima età cartaginese (fine IV-III sec. a. C.), Olbia produceva ed esportava conserve salate, come quella sorta di salsaliquida maleodorante di interiora di pesce e pesce salato, sembraperò saporitissima, chiamata garum dai romani, i qualine andavano ghiottissimi. Con tutte gli stagni salati prossimi all’abitato, la produzione del sale non dovette costituiremai un problema per la città, fin dai suoi primordi fenici e poi greci. In generale, durante l’Età di Mezzo il sale aumentò ancor più in valore, giacché le gabelle applicate su di esso passarono dal 2,5% dell'età romano-imperiale al 20%, e l'Italia ne divenne il centro del commercio mediterraneo ed europeo. Sia sotto il dominio di Pisa sul Giudicato di Gallura, che nella successiva età aragonese, il sale estratto dal circondario di Terranova (intanto il nome della città era così mutato) era tra le merci più esportate dal porto. Nel Trecento erano almeno quattro le saline in piena efficienza, fra cui la Salina maior di esclusiva proprietà del re di Aragona, “da individuarsi in quella laguna del profondo golfo di Cugnana dove ancora oggi esistono vecchie strutture di una peschiera non più in produzione” (M. Spanu Babay, Figari, Olbia 2004, p. 26).

Insomma, nella lunga storia più che millenaria di Olbia, seppur con qualche interruzione riconducibile alle più angosciose parentesi storiche e conseguenti crisi demografiche, è giocoforza immaginabile che il sale sia stato estratto dagli stagni circostanti o prossimi al tradizionale abitato, dovendo semmai la ricerca indirizzarsi verso lo studio delle variazioni organizzative e produttive e soprattutto dell’indagine topografica sui vari stagni usati qua e là in luoghi e tempi diversi, come anche del raggio di distribuzione territoriale della fornitura del prodotto, da cui dipendevano settori fondamentali dell’economia agro-pastorale dell’entroterra più o meno immediato, quali i formaggi, le carni salate ed i pellami, richiesti ed esportati regolarmente nel continente. Fatti questi doverosi cenni di premessa, torniamo subito all’argomento annunciato nel titolo.

http://www.archiviostatocagliari.it/imago2/images/uncart/tp117.jpg Carta ottocentesca con rappresentazione delle Regie Saline di Terranova (originale custodito in Archivio di Stato di Cagliari-rielaborato dallo scrivente)

Tutto iniziò nel 1711, quando la Sardegna era finitasotto il temporaneo dominio austriaco, e le Saline furono date in concessione al feudatario don Francesco Pes, cavaliere di Tempio, appena insignito del titolo di “marchese di Villamarina” per i servigi militari resi agli Asburgo contro gli Spagnoli. Il saleveniva estratto soltanto in tre degli stagni della grande area paludosa citata, protetti da apposite canalizzazioni (fossi rustici) costruite per deviare l’acqua piovana, che altrimenti avrebbe compromesso irrimediabilmente la coagulazione del prodotto. I rudimentali impianti sono localizzabili grosso modo presso l'attualecomplesso residenziale Le Vecchie Saline, pertanto tre chilometri prima della frazione di Murta Maria.

Nella concessione del neomarchese, confermata pochi anni dopo col passaggio della Sardegna ai Savoia, era esplicitamente precisato l’obbligo di rifornire di sale l’intera parte della Gallura, ilcuifabbisogno effettivodi circa 200 tonnellate annue si adeguava alla quantità di sale estratto nelle saline in oggetto, un’inezia a fronte di un potenziale produttivo che i periti del tempo stimavano in almeno 7500 tonnellate.

Secondo antichissimo costume”, l’estrazione ed il trasporto del sale su carro sarebbe dovuto spettare ai vassalli di Terranova, misero borgo decaduto, ancora abbracciato dalle malridotte mura duecentesche costruite dai giudici Visconti di Pisa. L’abitato disponeva di non più di trecento uomini adulti idonei al lavoro, su una popolazione che si attestava intorno alle settecento anime. I vassalli venivano annualmente precettati dal feudatario col metodo della comandata, ossia una prestazione obbligatoria con un compenso tanto simbolico quanto irrisorio. Questa comandata era nient’altro che un’odiosa corvée, risalente con ogni probabilità a molti secoli prima, al medioevo, analoga a quelle -per intenderci- imposte nell’Europa feudale a contadini e massari, che in determinati periodi dell’anno erano obbligati a svolgere prestazioni d’opera gratuite al signore, quali l’aggiustamento di strade, lo sfalcio dell’erba, la raccolta dei frutti, la vendemmia, la mietitura, la sistemazione di argini ecc. Qui bastasolo precisare che in Francia le corvée furono tra i primi privilegi nobiliari dell’Ancièn Regime ad essere aboliti dalla Rivoluzione del 1789, ma che in Sardegna e in altre parti d’Europa esse sarebbero durate molti anni ancora.

Contrariamente a quanto molti illustri disinformati continuano a voler credere, nonostante tutte le evidenze documentarie, questo consideratoè un secolo in cui Olbia, anzi Terranova, non dipendeva economicamente né dal mare né dal porto. Fonti di sostentamento primarie per i suoi sparuti e tenaci abitanti erano infatti l’agricoltura e la pastorizia, una condizioneche perdurerà fino agli inizi del Novecento. Come dunque si poteva chiedere di abbandonare i propri orti ed i campi per mesi, e di lasciare mandrie e greggi senza custodia e guida?

Già da quanto accennatosi possono intuire le cause delle renitenze alle comandate e l’annosa disputa con i marchesi Pes di Villamarina, i qualiper oltre un secolo si succedettero nella titolarità della concessione. La comunità terranovese, che si mostrò unita e compatta come forse mai più lo sarà nella sua storia, si oppose progressivamente alle pretese del feudatario e dello Stato, anzituttoesponendo lucidamente le proprie ragioni attraverso i suoi rappresentanti. Una delle gocce che fece traboccare il vaso si ebbe però quando fu ingiustamente preteso che i comandati terranovesi non si fermassero a trasportare il sale, da loro stessi estratto, fino aicapienti magazzini dei Pes di Villamarina, al centro di Terranova,ma procedessero ben oltre coi loro carri, trasportandolo in tutta la Gallura e poi entrando nel confinanteMonte Acuto, regione la cui fornitura non rientrava nella clausola della concessione reale. Era troppo. I ministri di giustizia, il podestà ed i consiglieri comunitativi di Terranova prontamente protestarono scrivendo nel 1777 al viceré Lascaris di Castellar una lettera dove si denunciava l’irregolare pretesa del dispotico marchese di Villamarina, la cui casata –si aggiunge per inciso- andava nel frattempo crescendo in potere e prestigio.

http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=615&s=17&v=9&c=4461&id=12311 Particolare della Gallura nella carta geografica settecentesca di Antonio Zatta (da Sardegna Digital Library)

Com’è immaginabile, e come accadde, proteste e riluttanzenon si limitarono alla carta e all’inchiostro, ma si tradussero subitaneamente in azioni concrete quanto forse, anzi, senza forse, disperate. Limitiamoci per brevitàa due esempi scelti, testimoniati dalle fonti scritte. Nel triennio 1776-1779 solo qualche decina di vassalli terranovesi si presentò al lavoro, su trecento comandati. Nel 1786, dopo essere stati precettati cinquanta carri sul totale di circa cento di proprietà dei terranovesi, alle Saline se ne presentarono quattro, più altri due appartenenti tuttavia all’agente baronale.

Unmarchese sempre più preoccupatocercò in tutti i modi di rimediare alla paralisi produttiva causata da questi “scioperi” generali ante litteram (dove a quanto pare non mancavano i “crumiri”), e nel 1775 vana fu la sua propostadi reclutare in alternativa i contadini dei villaggi prossimia Terranova, offrendo loro qualsiasi prezzo. La sola idea di passare dalla salubre aria collinare alle pestilenziali intemperie malariche delle paludi terranovesi causò un panico non monetizzabile fra i villici. Il medesimopanicoera altresì condiviso dai dragoni di stanza a Tempio e dalle stesse truppe governative che, da Cagliari, sarebbero dovute intervenire adimporre l'osservanzadella comandata. Fu così che, nella stessa estate del 1779, ritenutosiassolutamente impensabile che truppe governative arrischiassero di attraversare le intemperiose campagne terranovesi (figuriamoci poi a prendervi stanza nei pressi…), il viceré pensò bene di aggirare l'ostacolo inviandouna fregata della Regia Marina sarda, che gettò le sue ancore nelle acque delgolfo di Terranova. Il minaccioso monito ottenne gli auspicati effetti, ed i rassegnatiterranovesi obbedirono diligentemente alla comandata. L’anno successivo, per un motivo o per l’altro, la fregata risultò ufficialmente in tutt’altre faccende affaccendata, ed i terranovesi non ci pensarono su due volte ed incrociarono le braccia. Al marchese non restò che tempestare di inutili richieste il viceré affinché la regia fregata ridesse la fonda nelle nostre rade.

Stanti le oggettive, ormai croniche condizioni di carenza di manodopera coatta, i livelli di produzione che necessitavano alla Gallura diventavanoassai ardui da raggiungere. Questa è forse la principale causa per cui il marchese fu talvolta costretto ad importare il sale dalle saline Cagliari ed Oristano, per depositarlo a Terranova ed rivenderlo in loco. Al di là di estremi rimedi come questi, ci si chiederà adesso se il rifiuto diestrarre il sale non finisse per danneggiare la stessa economia agropastorale terranovese e gallurese, che di quellonon poteva fare a meno. Sembra che però danni non ce ne fossero troppi, anzi… Scaltramente i terranovesi, e immaginiamo non solo questi in Gallura e nel Monte Acuto, quel sale se lo andavano a raccogliere clandestinamente, e proprio nelle neglette saline del marchese, pure alimentando il fiorente commercio di contrabbando. Ci si dovrebbe anzi chiedere dove finiva la giustificata ritrosità ad obbedirealla secolarecomandata, e dove invece iniziava la lucrosa convenienza, causata paradossalmente proprio dalla prima.

Il Palazzo dei marchesi Pes di Villamarina in Terranova, in un rilievo della prima metà dell'Ottocento (Archivio di Stato di Cagliari). Il Palazzo dei marchesi Pes di Villamarina in Terranova, in un rilievo della prima metà dell'Ottocento (Archivio di Stato di Cagliari). In giallo a sinistra sono indicati i magazzini del sale e del tabacco.

Si spiega allorala reazionestizzitadel marchese di Villamarina, che nel 1784 aprì le dighe facendo irrompere l’acqua marinanelle vasche di evaporazione,preferendocosìvedere andare in malora l'annatadel saleanzichévedersela sottrarre furtivamentee smerciare di contrabbando dagli stessi terranovesi ribelli. Come se ciò non bastasse, fra l’inverno e la primavera dell’anno successivo il “don” dovette subire l’ennesimo affronto: i furbi terranovesi, avendo fiutato che le scorte di sale dei magazzini del marchese (vedi figura precedente) andavano esaurendosi, ne fecero incetta comprandolo al “solito prezzo di otto soldi la misura”, e rivendendoseloal mercato nero al prezzo di “sette reali a quei che ne erano senza, i quali – così il marchese si lagnava scrivendo al viceré- si stimavano anche fortunati di poterlo avere ad un prezzo sì esorbitante”. Oltre al danno, purela beffa.

I marchesi di Villamarina dovettero aspettare ancora molti anni per cogliere l'occasione diunavendetta che, se veramente fu tale, ciappareanche atrocemente spietata. A perpetrarla fu colui che, dell’illustre stirpe tempiese, arrivò alla massima e più prestigiosa carica di potere per un nobile di Sardegna.

Era il 1816, il celebre “anno senza estate” che portò una terribile carestia in tutta Europa e nel Nordamerica. I terranovesi, guidati dal sindaco Antonio Lupacciolu -avo paterno dello scrivente- spedirono un’accorata lettera al viceré di Cagliari, e lo implorarono di inviareprontamente una nave carica di grano “per andare al riparo di una rabbiosa fame, che presso poco va a fare altrettanta strage”. Pronta fu la risposta, datata al 16 ottobre, ed oltremodo secca e perentoria: NO. Firmato: Don Giacomo Pes di Villamarina, insediatosi da pochi mesi -proprio lui!- come Viceré di Sardegna.

Nel 1832, le saline di Terranova, ora concesse al nipote del viceré sardo, don Francesco Pes di Villamarina, vennero espropriate gratuitamente dal Demanio di Stato. Intorno alla metà del secolo furono definitivamente abbandonate e di esse, come detto, resta solo ormai l'appellativo della zona e della lunga spiaggia frequentata da bagnanti, quasi sempre ignari di questa passata storia di lotte e sofferenze.

© Marco Agostino Amucano

Ritratto del Viceré di Sardegna Marchese Don Giacomo Pes di Villamarina.
http://www.araldicasardegna.org/palazzi_quadri_oggettistica/quadro_giacomo_pes_villamarina.htm

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

PANEDDA, D., Olbia e il suo volto, Sassari 1989. PANEDDA, D., I Nomi Geografici dell’Agro Olbiese, Sassari 1991. PIRA, S., Il sale, il marchese di Villamarina e i terranovesi, in Da Olbìa ad Olbia, Atti del convegno internazionale di studi, Olbia, 12-14 maggio 1994, vol. II, G. Meloni e P. Simbula curr., Sassari 1996, pp. 327-343. SPANU BABAY, M., Figari. Storie del golfo e di Golfo Aranci, Olbia 2004.