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I bombardamenti aerei su Olbia del 1943: una memoria personale

I bombardamenti aerei su Olbia del 1943: una memoria personale
I bombardamenti aerei su Olbia del 1943: una memoria personale
Giuliano Deiana

Pubblicato il 14 May 2018 alle 17:16

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Questa lettera, in forma di memoria e riflessione personale, fu da me spedita nel mese di maggio 2013 ad Agostino Amucano, ideatore dell'evento commemorativo "Olbia sotto le bombe", organizzato il 24 maggio di quello stesso anno dalla A. C. Larathanos, in collaborazione con il Circolo Nautico di Olbia presieduto da Fabio Fiorentino. Purtroppo non potei presenziare alla serata, ma volli essere comunque presente inviando questo mio video, dove leggo la mia poesia "14 maggio". Dopo cinque anni decido di pubblicare -su richiesta di Agostino Amucano e Patrizia Anziani- questo video, insieme alla lettera che lo accompagnava. Lo faccio in un giorno per me molto triste, nel settantacinquesimo anniversario della morte di babbo e lo dono all'intera città di Olbia, che ho sempre nel cuore pur non vivendoci più.

Giuliano Deiana per Olbiachefu

Ammentos, quel 14 maggio del 1943

Com'è possibile vivere senza le cose che sono la nostra vita?

Spogli del nostro passato non ci riconosciamo.” John Steinbeck da Furore.

A che serve passare dei giorni se non si ricordano?” Cesare Pavese

Non conoscevo quella mappa dello Spano, tratta dal volume La Gallura, relativa al bombardamento di Olbia. Debbo ringraziare il Dr Agostino Amucano che me l'ha fatta conoscere attraverso la pubblicazione sulla pagina “Personaggi” di Ieri e di Oggi di Facebook.

Il vedere e l'analizzare quella mappa, il guardare, uno per uno, quei puntini rossi -innocua notazione grafica sulla carta ma tragico indice di morte nella realtà- ciascuno dei quali individua il luogo in cui una delle trecento-trenta-tre bombe piovute in quel tragico pomeriggio ha preso contatto col suolo della nostra città esplodendo col suo carico di distruzione e di morte, ha suscitato in me vive emozioni, di duplice natura, ma ugualmente profonde.

Da una parte, la mia formazione culturale di tipo scientifico e la deformazione professionale che ne è conseguita, mi hanno portato ad immaginare, quasi visivamente, il cataclisma che s'è creato ogni qualvolta il “naso” o la spoletta di coda -cinicamente ritardate nell'esplosione quel tanto che bastava affinché quelle micidiali bombe potessero penetrare all'interno dell'edificio così che l'esplosione avvenisse con maggiori danni (pensate a quelle bombe di 225 Kg come a semplici “oggetti” inerti, non esplodenti; esse arrivavano a terra, dai 3.200 metri di quota da cui furono sganciate, ad una velocità d'impatto di circa 902 Km/h, con una forza-peso data dall'accelerazione di gravità di circa 2.200 Kg).

Poi l'esplosione! Ed allora le 500 libbre, i 225 Kg di “amatolo” -(fullpulver NT, lo chiamavano gli americani: una miscela micidiale di tritolo e di nitrato d'ammonio)-, usato come esplodente nelle bombe GP che il nemico di allora ci buttò sulla testa e corrispondenti a circa 315 Kg di tritolo, scatenavano tutta la loro mortale potenza distruttrice: temperature di esplosione che andavano dai 2.000 ai 4.000°C, sfera di fuoco con un diametro dai 20 ai 30 m, onda di pressione ed onda retrograda devastanti non solo per gli edifici ma, soprattutto per le persone, fumi velenosi o tossici...

Questa visione infernale ha toccato ancor più profondamente le corde del mio animo, già incline per sua natura all'introspezione (intesa quest'ultima in senso socratico), alla nostalgia ed alla poesia, ed ha sollecitato il riemergere alla coscienza dei racconti uditi da bambino e delle memorie raccolte nei lunghi decenni in cui sono andato a cercare, quanto più possibile, notizie su quel mio padre, mito sconosciuto, morto, insieme al fratello, in quel tragico 14 di maggio quando io avevo solo dieci mesi.

In quel funesto periodo, le mie famiglie dei rami paterno e materno, così come moltissime altre che avevano lasciato Olbia, erano sfollate a Padru per scampare al pericolo dei bombardamenti.

Ad Olbia erano rimasti soltanto i maschi: mio nonno Giuliano, nostromo al Genio Marittimo dell'Escavazione Porti, mio padre, sergente furiere impiegato in Capitaneria e i miei due zii paterni Peppino e Mario: l'uno, militare in Aeronautica, impiegato all'Idroscalo e l'altro, appena diciannovenne, impiegato come commesso nella farmacia Giorgini che, allora, aveva sede in via Porto Romano, quasi all'angolo -se non proprio all'angolo- con il corso Umberto.

Vivevano, tutti insieme, nella casa dei nonni paterni al numero 3 di via Cavour.

Mio padre, che era l'unico sposato dei fratelli, la sera, terminato il servizio, preferiva, però, raggiungerci a Padru in bicicletta.

La bomba che, attendibilmente, lo ha ucciso (perdonatemi se ne ricordo il nome: Giovanni Maria Deiana -Miucciu Ischiria- e l'età: 27 anni appena compiuti) è quella che cadde sul mercato, lì dove oggi è piazza Matteotti.

Quel lunedì pomeriggio, mio padre, che aveva finito il suo turno del mattino in Capitaneria, presumibilmente, andava da via Cavour verso il cortile di Rasenti in via de Filippi, dove oggi c'è il Banco di Sardegna. Da quel cortile partiva un calesse per Padru, una sorta di corriere, come poi nel dopo-guerra partiranno i “postali” di Tucconi.

Aveva fretta di farmi avere delle scarpette che aveva confezionato per me con pelle d'agnello e sughero. La sera di quello stesso giorno, come ho detto prima, sarebbe venuto a Padru in bicicletta, come tutte le sere; ma non poteva aspettare un intero pomeriggio: aveva fretta, e desiderio di farmele avere subito, quelle scarpette.

Così, il mattino di quello stesso giorno, col primo "messaggero" che aveva trovato, aveva comunicato a mia madre che, nel primo pomeriggio, andasse a ritirare il pacchetto, all'arrivo del calesse a Padru.

"Ma no podes'aspettare? deasi los poltas tue!" - "Nono chi no potho! Chelzo chi Liano los appede subbidu!" avrebbero potuto dirsi se i cellulari si fossero usati anche allora.

Quando iniziò l'allarme aereo, o forse quando già cadevano le prime bombe sul porto, però, dovette ritornare sui suoi passi.

Io credo, per raggiungere il più in fretta possibile il fratello minore, Mario, di soli diciannove anni. Mio padre, che era il maggiore dei fratelli maschi -e, quindi, in assenza di mio nonno, il “capo” a cui erano affidate le sorti dei più piccoli, che sapeva che cosa terribile fosse la guerra per averla combattuta in Spagna, lui che aveva molto forte il senso del dovere e che profondo sentiva il legame con la famiglia, lui non poteva non correre per dare aiuto e protezione a quel ragazzo che sapeva solo a casa.

Lo ritrovarono riverso sul marciapiede in via Regina Elena, col viso rivolto verso piazza Regina Margherita, all'altezza di piazza Matteotti, lì dove c'era -e mi pare ci sia ancora- il salone da barbiere di Degortes.

Doveva avere in tasca le mie scarpette.

Così è stato raccontato a mia madre; così mi fu narrato da mio zio Peppino; così mi fu confermato da Nardino De Filippi, al fianco del quale mi ritrovai seduto quel pomeriggio di dieci anni fa quando, nella sala Expò, si celebrò il 60° anniversario di quel dramma.

Nardino, che pure mi conosceva da bambino e che bene conosceva mio padre, mi riconobbe solo quando mi feci riconoscere. Ed allora mi abbracciò con molto calore e, raccontandomi, pianse. Ricordo ancora le sue lacrime sulle mie guance. Le ricordo come un balsamo che, in quel momento, mi liberò l'anima dalle angosce e dai dubbi che non s'erano mai sopiti nel corso di tutti quei decenni.

Da allora, tutte le volte che mi capita di passare su quel marciapiede, anche oggi che son prossimo alla vecchiaia -se non già vecchio- son dibattuto dall'intimo dubbio se deviare il mio percorso per non calpestare quei pochi metri quadri che accolsero i suoi ultimi istanti di vita o se, invece, percorrerli di proposito per sentirmi, in qualche modo, più vicino a lui ed al suo momento estremo.

Dopo la morte della mia nonna materna (Marianna Asara - Calvone) avvenuta nel gennaio del 1967, ci fu necessità -e desiderio- di seppellirla insieme a mio padre.

Con la mamma decidemmo di riesumare le salme di babbo e di zio Mario per far posto, nella tomba di famiglia, a nonna.

Volli assistere all'operazione, quasi un rito, che ziu Bonignu (figlio) condusse con molto amore ed un po' di commozione che mi parve sinceramente inusuale in uno che eseguiva quel mestiere. Si giustificò, con un po' di timido imbarazzo, dicendo che mio padre gli era amico -o che era stato suo commilitone, non ricordo più-.

Scambiò con ziu Boselli, lo stagnino che aveva l'ingrato compito di sigillare i poveri resti in due cassette di zinco, parole di apprezzamento per mio padre ed aprì le casse di legno.

Ero lì con trepidazione, quasi dovessero presentarmi una persona della quale avevo sentito parlare da lunghissimo tempo. Volevo conoscere mio padre. Quel padre che per me, fino a quel giorno, era stato solo una fotografia di porcellana incollata su una lastra di bianco marmo.

Volevo materialmente conoscerlo, anche se solo attraverso le sue povere ossa.

Trovammo i cari resti con ossa ampiamente fratturate, com'è tipico di chi sia morto per la forte onda d'urto di un'esplosione. C'erano anche i brandelli consunti della sua divisa da marinaio, quella che indossa nella fotografia, i gradi ancora intatti, poche monete, la fede nuziale e quelle scarpette da bambino fatte di pelle d'agnello e di sughero pressoché intatte.

C'era anche una terza rotula non pertinente allo scheletro di mio padre.

Era, verosimilmente, quanto rimaneva di suo fratello Mario che era stato centrato in pieno da una bomba caduta, non dove fino ad oggi io avevo ritenuto erroneamente, ovvero sull'Albergo Italia in via Porto Romano, in posizione prossima alla farmacia Giorgini, ma, invece, lì dov'era il giardino dei Careddu-Pasella, fra via Cavour e via de Filippi. Praticamente di fronte a casa sua!

Illuminanti son stati, in questo senso, i ricordi di cui mi han reso partecipe gli amici Pier Paolo e Pinuccia Degortes, ai quali esprimo la mia più viva gratitudine.

Testimonianze poi confermate dalle riemerse memorie di ciò che, in quel tempo, riferì a mia madre il cognato, mio zio Peppino.

Cito testualmente ciò che ebbe a scrivermi su Facebook Pier Paolo Degortes: “Probabilmente il padre di Giuliano Deiana morì con altre tre o quattro persone (tanti mi sembra di ricordare dai racconti di mio padre) che si erano rifugiate lì, nel cortile della famiglia di mio nonno, tra via Cavour e via de Filippi. C'era un piccolo agrumeto e mi raccontava dei resti delle vittime dilaniate che vennero proiettate tutt'intorno sui rami degli alberi. Una cosa orribile.

Ed anche quel che scrisse, lo stesso giorno, Pinuccia Degortes: “Questi tristissimi fatti fanno parte della storia di Olbia ed è giusto parlarne per ricordare i caduti. Qualche tempo fa , si è iniziato a parlare , qui su Facebook, di questi avvenimenti, e allora io ricordando che qualcuna di queste bombe è caduta nel giardino comune dei nonni di Pier Paolo Degortes, dei miei nonni e altri parenti, ho chiesto a mio padre. Papà è un Signore che ha compiuto da poco 90 anni, dotato di una memoria invidiabile. Mi ha spiegato questo: nel 1943 lui era richiamato a Sassari e per questo motivo non aveva assistito ai bombardamenti, ma venne in licenza subito dopo. Fu subito informato che in giardino erano morte diverse persone, tutti amici e vicini di casa da sempre. I loro nomi sono impressi nella sua memoria, ed ora anche nella mia, sono Miuccio e Mario Deiana Ischiria (che sono i parenti di Giuliano Deiana e di Raffaele Bigi) e Gesuino Dessena (Zio dei Dessena dell'albergo Terranova ). Nel raccontare questi fatti, mio Padre, era visibilmente commosso, e, suo malgrado, è riuscito a trasmettere la stessa commozione anche a me.

Per i motivi che prima ho esposto, ovvero: i ricordi delle testimonianze rese a mia madre, i racconti di mio zio Peppino e, quelli più recenti, di Nardino De Filippi, ma soprattutto l'ispezione visiva -quasi autoptica- dei due cadaveri -o di ciò che di essi restava- mi porta ad affermare, con quasi assoluta certezza, che non è possibile che i due fratelli morirono nello stesso luogo e, particolarmente, che mio padre morì per gli effetti dell'onda d'urto (e/o delle schegge proiettate, e/o della sfera di fuoco) di un ordigno che ebbe l'impatto col suolo ad una ventina di metri da lui, ovvero della bomba caduta sul mercato.

Si consideri, a riconferma “scientifica” di questa mia tesi, che una bomba GP da 500 libbre caricata ad amatolo, com'erano quelle degli alleati, genera una sfera di fuoco di circa 21-22 m e un'onda di pressione che varia da 34,7 Kg/cmq (per una distanza di 10 m) a 4,4 Kg/cmq (per una distanza di 20 m).

Per chiarezza d'esposizione dirò che, per il corpo umano, sono considerate mortali le lesioni che derivano da un'onda di pressione pari a 10 Kg/cmq e gravissime quelle che conseguono a valori della medesima onda non inferiori a 3 Kg/cmq.

Quel giorno, dicevo all'amica Pinuccia, e riconfermo ancor oggi, che, alla fin fine, l'individuare l'esatto luogo in cui quelle due vite si spensero, oggi ha poca rilevanza.

Mi preme, invece, ringraziare infinitamente suo padre che ha conservato nella sua memoria -e mi piace credere anche nel suo cuore- il nome di mio padre Miuccio e di mio zio Mario.

Quel mattino del 1967, nel medesimo loculo, insieme alla bara di mio padre, ne trovammo anche un'altra più piccola. Conteneva i resti di una bambina.

Ziu Bonignu mi chiese chi fosse e che doveva farne. Gli risposi che, se aveva riposato insieme a mio padre ed a mio zio per ventiquattro anni, poteva continuare a rimanere ancora con loro per tutti gli anni a venire.

Ziu Boselli chiuse ciò che restava di quel corpicino nell'altra cassetta di zinco, quella destinata a mio zio, e misero tutti, nonna, babbo, zio e bambina nel medesimo loculo.

Per quante ricerche io abbia fatto, non son riuscito a sapere chi fosse quella bambina. Una piccola sconosciuta che, probabilmente, è stata sepolta, in quei giorni di grande trambusto, insieme a mio padre, magari per far credere a mia nonna paterna (Pietrina Giua) che quella fosse la bara dell'altro suo figlio Mario.

Sono ancora lì, tutti insieme e continuano a farsi compagnia, com'è da quel 14 di maggio del 1943.

Prima di chiudere questa mia memoria debbo dar conto di un articolo apparso a pagina 2, sezione Olbia della Nuova Sardegna del 16 maggio del 2003 a firma di Luigi Soriga.

E' un articolo di cui ignoravo l'esistenza e di cui ho preso cognizione solo ora.

Cito testualmente quanto scrive il giornalista riferendo una testimonianza di Nardino De Filippi: “Alcuni portuali sapevano le banchine non erano sicure. Le navi avrebbero attirato gli aerei e gli ordigni come mosche. Dovevano andarsene. Si nascondono sotto la tettoia del municipio. Una bambina di tre anni nella confusione si perde. Piange disperata, non trova i genitori. Gli scoppi si susseguono, i portuali la prendono in braccio e la portano con loro al sicuro, dentro il Comune.

Non si è mai saputo chi fosse quella bambina, il cadavere non è mai stato riconosciuto.

Io non so se a voi attraversi la mente il mio stesso pensiero. Sarà quella la bambina che dorme da settant'anni insieme a mio padre ed a mio zio? Chissà!

Genova, 22 maggio 2013

©Giuliano Deiana

https://www.youtube.com/watch?v=cZyYarDbnFI