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Cronaca

Un'olbiese a Mauthausen: vedere coi propri occhi per combattere l'apatia

Un'olbiese a Mauthausen: vedere coi propri occhi per combattere l'apatia
Un'olbiese a Mauthausen: vedere coi propri occhi per combattere l'apatia
Carlotta Rossi

Pubblicato il 13 July 2019 alle 18:46

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Olbia, 13 luglio 2019 - I progetti scolastici sono una cosa meravigliosa: ti fanno provare cose nuove, ti permettono di incontrare persone diverse da te e ti permettono di capire quanto effettivamente l’istituto che frequenti funziona.

Perché il momento in cui diventa palese se una scuola segue la strada giusta, è quando fa qualcosa per i suoi studenti che non sia la pianificazione di una verifica.

Ho avuto la possibilità di passare 4 - lunghissimi - giorni con 40 persone fra studenti e professori di 3 scuole diverse. Ho sperimentato quanto sia estenuante viaggiare in pullman.

È vero che pensare alla meta aiuta, ma ciò non toglie che sia un mezzo veramente odioso e scomodo.

Ci è stata data l’opportunità di visitare 3 campi di concentramento.

Dachau, Mauthausen e Gusen.

Purtroppo o per fortuna sono una persona che odia le frasi fatte e, ancor di più, detesta in maniera viscerale i discorsi ripetitivi.

Cosa potrei raccontarvi che non sia già stato detto? Forse niente.

Credo che lo studio di quel particolare periodo storico, che ci viene proposto a scuola, abbia molto da migliorare: è importantissimo ricordare cosa è stato al fine che ciò non accada mai più, tuttavia questo sistema ha un grosso problema, ovvero la ripetitività.

Ormai il protocollo di storia sull'argomento si basa, molto semplicemente, sulla ripetizione costante di 3/4 concetti, che, a forza di essere esposti, sempre nello stesso identico modo, finiscono per essere tatuati sulla fronte degli studenti.

In questo modo è vero che ogni individuo sarà sempre cosciente del fatto che "Non Bisogna Dimenticare", ma, allo stesso tempo, diventerà profondamente apatico all'argomento.

Il problema più grande e irrisolvibile è il passare del tempo. È ormai evidente come più si è lontani da quegli anni, per un fattore di età, più si tende a vedere tale periodo profondamente distante e, a tratti, quasi inesistente, come se non fosse mai avvenuto.

A causa di ciò, al giorno d’oggi, si tende a considerare il periodo della Shoa quasi come un brutto film. O una serie tv che puoi tranquillamente guardare su Netflix, un cult che conoscono tutti insomma, e che, a lungo andare, perde tutto il sentimento che ha provocato quando è uscito.

Fosse davvero un film, si potrebbe dire che: ”è invecchiato male”.

Il brutto che si cela nella consapevolezza è che non stiamo parlando di finzione, ma della realtà.

Forse l’unico modo per combattere questa apatia è vedere con i propri occhi i luoghi dove quel massacro è avvenuto.

Vedere quei campi è stato strano. Abbiamo tutti un’idea di quanto siano grandi, desolanti e deprimenti. Eppure non sei in grado di capirlo veramente finché non li vedi coi tuoi occhi.

Visitando Mauthausen mi sono scontrata con delle sensazioni davvero contrastanti. Quando ti chiedono: ”Come era?!” il primo istinto è dire: “bellissimo”. Tremendamente contraddittorio come pensiero ma profondamente vero.

Campo che in apparenza doveva sembrare atto alla rieducazione dei detenuti, in realtà, Mauthausen fu uno dei pochi campi di classe 3, ovvero destinato alla punizione e l’annientamento dei suoi internati, non solo ebrei ma anche testimoni di Geova, oppositori politici, rom, omosessuali e disabili.

Proprio perché doveva sembrare un luogo “pacifico”, fin dall'entrata rimani colpito dalla distesa di verde e alberi che ti si presenta di fronte agli occhi.

Vicino al portone dove si trova il cortile dell’appello trovi una piscina, usata a suo tempo dalle famiglie delle SS nei giorni liberi.

Di fronte al campo, a pochi metri da uno spiazzo dove un tempo si trovava l’infermeria, un immensa distesa di verde, con poche rocce disposte in fila, formando quasi metà di quello che un tempo è stato un campo da calcio, dove, per diverso tempo, squadre di SS si dilettavano a giocare tornei regionali con tanto di spettatori del paese vicino.

Giornate di spensieratezza vissute a pochi metri da un luogo, dove, mentre il pubblico applaudiva ai goal delle SS, stavano morendo migliaia di persone.

Oltre a un campo di sterminio, è stato un campo atto anche dedicato al “commercio”: i suoi detenuti dovevano, tutti i giorni, lavorare a una cava vicina (Wiener-Graben), per usare quello stesso materiale per costruire il campo e per eventuali progetti architettonici di Hitler.

L’unico passaggio per arrivare alla cava era una scala. 186 gradini tutti diversi, da salire e scendere in pigiama, con scarpe di legno, a qualsiasi temperatura, portando più di 30Kg di pietra, per non si sa quante volte al giorno.

Una scala aperta ancora al pubblico, dove chiunque procede con estrema lentezza e passo incerto alla discesa, e spesso con fiato corto e fatica alla risalita.

Io non sono un amante del silenzio, anzi, si può dire che lo odio. Quando sono arrivata a quella cava, camminando su quel prato verde circondato da montagne altissime e innaturalmente lisce, arrivata quasi al centro mi sono fermata ad ascoltare.

C’era il rumore dei visitatori per la festa della liberazione, un vociare allegro di ragazzini delle medie perché sentivano dei rospi … e poi silenzio.

Non so spiegare perché, ma in quel luogo c’è un silenzio particolare, entra nelle viscere lasciandoti al contempo inquieto e svuotato da qualcosa.

Un posto di morte con un magnifico paesaggio e uno strano silenzio che sembra quasi di pace.

Sono visite dove le persone provano sentimenti diversi, adulti che sentono un profondo senso di inquietudine perché sentono ancora molto vicini a loro quegli avvenimenti, ragazzi e ragazze che si alternano tra l’apatico e l’irrequieto, perché non sempre colpisce al primo sguardo e non sempre scaturisce una sensazione negativa.

Poi, ecco lo sguardo di un sopravvissuto, quel passo che lo fa sembrare per alcuni istanti quasi un fantasma, e una sensazione che ti fa accapponare la pelle. E poi il suo racconto, di come è scampato alla morte, con gli occhi rivolti al pubblico, ma lo sguardo visibilmente perso in un ricordo vivido come se tutto fosse avvenuto ieri.

Parlo del signor Trivellin, uno dei pochi sopravvissuti rimasti, che ci ha fatto l’immenso onore e piacere di passare buona parte del viaggio in sua compagnia.

Nei suoi racconti traspare che persino a pochi giorni dalla liberazione c’era una sorta di apatia nei confronto di ciò che è successo.

Più di una volta ha detto di non aver parlato di quello che ha vissuto per oltre 50 anni, perché, sin da i primi giorni di libertà, si sentiva preso per pazzo.

Poi, una notte si è svegliato di colpo con il desiderio convulso di tornare in quei campi, come per rispettare chissà quale misteriosa promessa. Come se lo dovesse a qualcuno.

Da quel momento, il signor Trivellin accompagna moltissime persone alla visita di quei campi, racconta nelle scuole la sua storia, cerca di imprimere in chi non l’ha vissuta un ricordo di ciò che è stato, dandogli la prova che quel periodo non è un brutto sogno, ma la pura e semplice verità.

(Se volete sapere qualcosa in più su di lui, questo articolo, pubblicato sul sito dell'associazione da lui fondata, riporta una sua intervista.)

Quindi, il mio spassionato consiglio è di visitare questi posti, specie chi, come me, è lontano sentimentalmente da quello che è stato il periodo nazista.

Vederlo coi tuoi occhi ti ricorda che è avvenuto sul serio, che c’è un motivo se la frase “non dobbiamo dimenticare” viene ripetuta come una cantilena convulsa, oltre al proporti qualche nozione o aneddoto diverso rispetto a quello che insegnano a scuola.

Soprattutto, visitate quei luoghi con calma, non correte, non fate corse contro il tempo, rischiate che da quella visita vi resti poco oltre al fastidio per la fretta.

Io non sono tra quelle persone che è stata commossa profondamente, non sono tra quelli che dirà, davanti a un buon caffè, di aver sentito i fantasmi di tutte quelle ingiuste morti passargli accanto e non posso nemmeno dire di aver pianto.

Ciononostante quel luogo a suo modo mi ha colpito, perché per quanto possa sembrare una bruttissima cinica, posso cercare quanto voglio, ma quello stesso silenzio non lo troverò mai da nessun'altra parte.