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Pratiche superstiziose, divinazioni, riti e comparaggio nella festa di San Giovanni della Olbia che fu

Pratiche superstiziose, divinazioni, riti e comparaggio nella festa di San Giovanni della Olbia che fu
Pratiche superstiziose, divinazioni, riti e comparaggio nella festa di San Giovanni della Olbia che fu
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 21 June 2015 alle 10:13

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In generale la festa di San Giovanni Battista (24 giugno), il più grande profeta del cristianesimo, è forse quella nella quale, e attraverso la quale, maggiormente riaffiorano elementi e pratiche di origine pagana, pratiche superstiziose in buona sostanza riconducibili agli ancestrali riti di purificazione legati ai culti del sole, del fuoco e dell’acqua. La spiegazione di ciò viene anzitutto dal coincidere quasi perfetto della ricorrenza con il momento calendariale del solstizio d’estate, oggetto di feste importantissime nel mondo precristiano, essendo pertanto immaginabili le conseguenti implicazioni in un società conservativamente ancorata all’economia agricola, e con la conclusione del ciclo di crescita del frumento e quindi della mietitura.

Anche nella Olbia che fu, la festa religiosa di Santu Gjuanne e le sue annesse pratiche di divinazione e superstizione erano vivamente partecipate e praticate, ancorché nella misura in cui l’economia era prevalentemente basata sull’agricoltura, e cioè almeno fino agli anni Venti circa del secolo scorso. Dopo una lunga interruzione durata dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Ottanta, i festeggiamenti in onore di San Giovanni sono stati ripristinati da un comitato di fedeli, finendo accorpati alla festa della Madonna del Mare, ma si sono perse in buonissima parte le pratiche superstiziose che andremo ora a ricordare.

Fonte principale per conoscere i tanti rituali ed usanze praticati in questi giorni è il solito maestro Francesco De Rosa, che sullo scorcio dell’Ottocento descriverà con commossa partecipazione pure l’ “ansia indicibile” con la quale bambine e “fanciulle da marito” attendevano la festa (1).

A rileggere l’esposizione puntuale di Mastru Ziccu si rimane ancora suggestionati e divertiti insieme, connesse come erano le pratiche ad un rapporto empaticamente “magico” con la natura, ritenuta pregna di messaggi in codice la cui interpretazione dipendeva da un connottu, ossia da una conoscenza orale, anzi direi una sorta di “cultura divinatoria” relativamente complessa, gelosamente custodita e tramandata in primis dalle donne.

Una delle forme di divinazione più in voga era collegata al fiore del cardo selvatico, sa pupuja, che le giovani ragazze da marito andavano ognuna a scegliersi e contrassegnare subito dopo i vespri della vigilia, attraversando festosamente in gruppi le campagne prossime all’abitato, fra canti ed arguti motti di spirito. Tornate così sul posto alle primissime ore del mattino, un insetto posatosi sul fiore di cardo prescelto garantiva un marito entro l’anno, e il tipo di insetto annunciava il tipo di marito, anche nelle caratteristiche fisiche e nella condizione economico-sociale: la formica un serio e laborioso agricoltore; l’ape un possidente; la farfalla un uomo volubile e superficiale; la forfecchia un capraio; la “vacca di Dio”, ossia la coccinella, un vaccaio o un proprietario di vacche. Se nessun insetto si era posato, ahimè, ancora niente marito oppure, nel miglior caso un…povero in canna (2).

Pronostici sulla consistenza economica del futuro marito si traevano anche attraverso le fave ed il piombo fuso. Nel primo caso venivano scelte tre fave di uguale dimensione, di cui la prima veniva lasciata intatta, la seconda sbucciata a metà e la terza completamente. Avvolte poi le fave in pezzi di carta, in modo da renderne del tutto simili gli incartamenti, esse venivano infilate sotto il guanciale del letto prima di dormire. Appena sveglia, la ragazza estraeva uno dei tre involtini a caso ed apertolo ne traeva l’auspicio: a fava integra corrispondeva uomo benestante, a fava mezza sbucciata marito in discrete condizioni economiche ed a quella totalmente sbucciata un uomo povero (3).

Più difficile da interpretare, ma più preciso nei risultati era l’atto divinatorio col piombo fuso, che dalle bizzarre forme assunte solidificandosi nell’acqua indicava l’attività lavorativa e le condizioni patrimoniali del futuro sposo, (proprietario di case, di estesi campi o di greggi ecc.) (4). Naturalmente a ciò molto concorreva la fantasia interpretativa, alimentata non poco dalle speranze e dai sogni della fanciulla.

Vi era anche la credenza che il futuro marito avrebbe avuto il nome della prima persona scorta appena affacciatasi alla porta o alla finestra il mattino della festa, o nella quale si sarebbero imbattute appena varcato l’uscio domestico (5).

Residui di antichissimi riti lustrali precristiani, eseguiti a scopo purificatorio, erano i bagni in mare o nel fiume, i quali, oltre a liberare dalle negatività, si pensava avrebbero preventivamente resi immuni da malattie. E’ così che i Terranovesi, ancor prima del sorgere dell’astro diurno, si buttavano allegramente in mare. Una pratica che già nel quarto secolo d. C. veniva condannata da S. Agostino (“il giorno di San Giovanni, con superstiziosa solennità pagana, i cristiani andavano a battezzarsi al mare”) (6), svolta anche dai nostri avi olbiesi nella convinzione che l’immersione avrebbe reso i corpi belli e perfetti, salvandoli per tutto l’anno dai dolori addominali e dall’infertilità.

Altri, nel contempo, stavano lì pro idere su sole ballende, ossia per assistere alla danza del sole. Si attendeva l’emozionante istante inginocchiati sulla riva, in religioso silenzio, e da come i primi riflessi del sole si rifrangevano sulla superficie dell’acqua si traevano i vaticini sull’annata agraria e, per le ragazze, sulla possibilità di trovare il compagno della vita intera (7).

Altra importantissima usanza del periodo era il comparatico, o comparaggio di San Giovanni, autentica istituzione che creava un legame notevolmente stretto fra due persone. Il “compare di San Giovanni” assumeva di fatto la stessa valenza di un compare o una comare di matrimonio o di battesimo, con i conseguenti impegni ed obblighi, anche sociali (8). Parte fondamentale, ma non esclusiva, della stipula del legame di comparaggio (stretto nel periodo tra il 24 ed il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo) era il salto del fuoco. Coloro che avevano deciso di farsi compari si scambiavano un nastro qualche giorno prima e si ritrovavano davanti ad uno dei grandi falò che venivano accesi nell’abitato subito dopo i vespri della vigilia.

Sempre Francesco De Rosa ci informa delle tre modalità per stringere su comparìu: col fazzoletto, con la corona e col fuoco. Ne riportiamo integralmente il passo (9):

“Si fanno compari di fazzoletto prendendo una pezzuolabianca (simbolo della purità dei sentimenti e del casto legame che si vuole stringere), della quale ciascuno annoda unadelle cocche, scambiandola con colui che gli sta di fronte: lecocche vengono annodate, ricambiate e snodate per tre volte consecutive e per tre volte ognuno annoda e snoda quellache gli è rimasta in mano, complimentandosi poi, secondo ladiversa condizione dei compari, a vicenda colle parole: A molti anni: Dio vi conceda un buono sposo, o una buona sposa. Oppure: A molti anni: Dio vi dia pace e salute. Si fanno compari di corona, stringendosi a vicenda la destra mano, tenendo fra esse una corona, pronunziando. mentre se le stringono, i versi seguenti: Comare e compare/sa fide mi poltades/ sa fide mi poltei/ Santu Gjuanne e Dei/ Dei e Santu Gjuanne /comare e compare/ sa fide non m’ingannes (traduz. Comare e compare/ la fede mi portate/ la fede mi porterete/ San Giovanni e Dio /Dio e San Giovanni/ O comare, o compare/ la fede non tradire).

Si fanno compari di fuoco accendendo dei falò o mucchi di stoppie, carolando o saltandovi sopra, cantando:

Cumpari, lu focu di santu Gjanni/ Cumpari, lu focu di San Petru/ Cumpari, lu focu du Sant’Antoni/ Cumpari, lu focu di Sant’Accesu.

Talvolta invece di girare attorno il fuoco prendono dalmedesimo i rami accesi e li portano presso le case delle ragazze, dove messili in terra, fansi con esse a compari, afferrandosi le mani al dissopra, ripetendo il solito ritornello,mentre incrociano le mani ora a destra, ora a sinistra. Quindigirano attorno al fuoco, prima a destra, poi a sinistra e infinesi complimentano stringendosi di nuovo le mani.

(…) Quando si legavano in comparatico per via del fuoco, usavano i fanciulli pure saltarlo replicatamente, e le fanciullesedersi attorno, sollevando spesse volte le vesti, perché ilcalore riscaldasse direttamente il ventre: lo che le salverebbedai dolori addominali e da sconcerti nella matrice, secondoun'antica tradizione, per tutto l'anno.

Anche nei riti del fazzoletto e della corona era previsto il salto del fuoco, prima da soli e poi per tre volte in compagnia, tenendosi uniti con i suddetti oggetti. La prof.ssa Pietrina Moretti ci informa di un’altra formula che veniva recitata nella precisa circostanza: Comare e compare/ sa fide mi poltade/ sa fide mi poltedi/ Santu Juanne e Deu/ sa fide non m’ingannede/ fin’a ora ‘e sa molte” (traduz. Comare e compare/ siatemi fedele/ (in nome di) San Giovanni di Dio: la fede non tradite/ sino al momento della morte). Alla fine di tutto seguiva una stretta di mano ed un casto bacio fraterno, che per la vita avrebbe suggellato un rapporto fatto di stima, amicizia e fedeltà nella buona e nella cattiva sorte (10).

Davanti ai fuochi, fra salti, canti, danze e bevute, poteva capitare di vedere giovani fanciulle sedute che con gesto veloce e ripetuto spesse volte si sollevavano le vesti, affinché il calore riscaldasse direttamente il ventre, preservandole in futuro dai dolori addominali e mestruali (11).

Verbasco sardo

La notte di San Giovanni era anche comune preoccupazione di andare a rifornire la farmacia domestica con le erbe, che solo in quelle ore acquistavano particolari proprietà medicamentose, secondo un uso certamente riscontrabile altrove, non solo ad Olbia e in Sardegna. Per restare in Gallura, De Rosa (12) ci dice che ad Aggius i ramoscelli di ruta, a loro volta fissati sulla cima di alti steli di verbasco, una volta baciati dai raggi del sole nascente, acquisivano la virtù di guarire i dolori addominali ed i mal di testa, e addirittura anche quella di scacciare il diavolo e le anime dei morti. A Calangianus, la sera del vespro le donne raccoglievano il capelvenere per i dolori mestruali, la centaurea minore per combattere le febbri, la steccade per le coliche dei cavalli e il verbasco per combattere i gorgoglioni, insetti molto dannosi per le spighe del grano.

© Marco Agostino Amucano giugno 2015

1) F. DE ROSA, Tradizioni popolari di Gallura. Usi e costumi, Tempio-La Maddalena 1899 (ristampa Edizioni Ilisso, Nuoro 2003 (A. Mulas cur.), pp. 127-130; .134s. Sulla figura del maestro Francesco De Rosa, sulla sua vita ed opere ci permettiamo di rimandare al nostro recente volume M. A. AMUCANO, Francesco De Rosa. Frammenti di un’opera inedita: il Quaderno X e le lettere ad Angelo De Gubernatis, La Maddalena 2012 (Paolo Sorba editore).

2) F. DE ROSA, cit., p. 134. P. MORETTI, Olbia. Testimonianze di vita, Sassari 1992, p. 92s.

3) P. MORETTI, cit. p. 92.

4) P. MORETTI, Ibidem.

5) F. DE ROSA, cit., p. 134.

6)D. BRANCA, La festa di San Giovanni ad Olbia, 2015 http://uab.academia.edu/DomenicoBranca/Posts/353078/La_festa_di_San_Giovanni_ad_Olbia

7)F. DE ROSA, cit., p. 134.

8)F. DE ROSA, cit., p. 28; P. MORETTI, cit., p. 93; D. BRANCA, cit. p. 2.

9) F. DE ROSA, cit., pp. 127-129.

10) P. MORETTI, cit., p. 93.

11) F. DE ROSA, cit., p. 129.

12) F. DE ROSA, cit., p. 134s.