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Ora, come allora, seppelliremo le nostre macerie

Ora, come allora, seppelliremo le nostre macerie
Ora, come allora, seppelliremo le nostre macerie
Dionigi Pala

Pubblicato il 14 June 2020 alle 16:26

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Olbia, 14 giugno 2020 - Si dice che stiamo affrontando una guerra contro un invisibile nemico il quale ci ha costretti a chiuderci fra le pareti domestiche. Le case sì, proprio le nostre case sono diventate i nostri rifugi, quasi volessimo affrontare il pericolo occultandoci e rendendoci pure noi invisibili. Avremo a che fare comunque, alla fine del combattimento, con nuove macerie che sapremo cancellare, come avvenne in passato, con una rinnovata forza di volontà. Ora, come allora, seppelliremo le nostre macerie … e che le ferite subite dal paese a causa dei ripetuti bombardamenti non fossero ancora del tutto rimarginate erano lì, lungo molte strade e viuzze, ancora sanguinanti di ammassi di muri abbattuti e cocci di graniti deformi. “Sos macerias”, così le chiamavamo noi, ragazzi d’allora, poiché in molti casi era più facile, mancando riferimenti più precisi, indicare l’abitazione o l’attività di qualcuno cui ci si voleva riferire. Delle altre ferite, di quelle subite dalle molte famiglie che in un attimo avevano visto i propri cari venire strappati violentemente alla vita e ai loro affetti, di quelle, io, non posso essere sicuro che non ci fossero più, tracce dolorose. Nei primi anni Cinquanta, comunque, il desiderio di tornare a condurre una vita all’insegna di almeno un po’ di spensieratezza o normalità si notava soprattutto fra i giovani, reduci dalla triste esperienza della guerra, i quali gradualmente avevano ripreso a frequentarsi e a frequentare le numerose sagre primaverili che sbocciavano qua e là nelle campagne attorno all’abitato che ancora si guardava dal risvegliarsi dal suo torpore. Iniziava, anche per me, allora impegnato a districarmi fra i primi anni della crescita, il paziente e, a tratti inconsapevole, lavoro di costruzione dell’archivio dei ricordi che oggi, ad opera già avanzata (e prossima alla conclusione), stento a disseppellire dal polveroso strato di detriti e frammenti deposti dall’inesorabile trascorrere del tempo. Cosa era; come era Olbia in quegli anni!? Il crepuscolo dei miei ricordi, comunque, lascia ancora intravvedere, seppure un po’ sfocati, i contorni del centro abitato non più esteso di così. Svettano fra le case che si levano non oltre il piano terra, alcune (poche per la verità quelle risparmiate dalle impietose tonnellate di bombe piovute dal cielo durante quel triste maggio di un passato decennio) che vantano una crescita di qualche metro in più in altezza. Su tutte, però, primeggia il campanile della Primaziale di S. Paolo al quale fa da riscontro la solitaria granitica chiesa di S. Simplicio che, ancora isolata, attende pazientemente le periodiche visite di devoti fedeli. Le sparute abitazioni della periferia paiono disposte quasi a voler abbracciare, proteggere e sostenere il piccolo centro abitato all’interno del quale regna un silenzio a tratti interrotto, se tendi l’orecchio, dal secco rumore dei carri trainati dai buoi. Scorrono interminabili le piovose e, spesso, ventose giornate invernali. Scrosci improvvisi e violenti di pioggia regalano strade di fango pronte a brillare se il sole riesce, per poco, a forare le nubi. E poi, giù di nuovo secchiate d’acqua dal cielo… Ecco laggiù una figura di donna che si chiude una porta alle spalle e, attraversata la strada con piccoli inutili salti, scompare veloce in quella di fronte. Il freddo pungente dà vita a scoppiettanti camini; si portano fuori dell’uscio di casa e si attizzano i bracieri col diavolo. Il diavolo, sì: un nero, grande e vuoto barattolo privo del fondo, annerito dal fumo di chissà quanti inverni che favorisce una più rapida accensione del carbone. Trascorsa la sera, ecco piombare la notte. Quell’ultima straziante scarica elettrica e il suo cupo tuono hanno spento la luce di casa; e inizia l’inutile attesa che torni. Si accendono, quindi, di flebili fiammelle, le candele sempre pronte a rischiarare di poco quel buio improvviso, destinato ad avere la meglio su tutto solamente quando si andrà finalmente a dormire su un letto un po’ inteporito da un quasi rovente mattone deposto per tempo e per bene sul fuoco. Silenzio… Pioverà pure domani? Chissà! Trascorso l’inverno ecco le prime giornate riscaldate da un tiepido sole. Le strade profumano di umida campagna e la brezza leggera dà loro respiro. Il meriggio è un invito per molte giovani donne a sostare presso l’uscio di casa. Le vedo, nel chiaro ricordo, sedute, chine sul vecchio tamburello a imbastire ricami con abili dita recanti, sul medio, il ditale di mamma e di nonna. Il leggero brusio e i cenni di capo accompagnano i loro pensieri. Una, in silenzio, ascolta intenta al delicato lavoro; un’altra, socchiusa la bocca, accenna un sorriso; una terza, invece, tenendo le mani a mezz’aria invita un filo sottile alla cruna d’un ago. Nel campo Fausto Noce, a giorni precisi, avviene un fiorire di colori: sono lenzuola, tovaglie variopinte e panni distesi ad asciugare su macchie di mirto e lentisco dopo aver subìto un energico lavaggio nell’acqua corrente del vicino torrente. E a sera assisti al lento ritorno di donne recanti sul capo fardelli di fresco bucato. Ormai è tempo d’estate, di mare… Punt’Istaula e s’Arrasolu sono la meta preferita da molti giovani olbiesi per trascorrervi lunghe ore a crogiolarsi al sole e abbandonarsi a esibizioni natatorie. Altri preferiscono il littorale di Mogadiscio posto dal lato opposto del golfo interno. Altri ancora finiscono in bicicletta alle Saline o a Pittulongu. Pittulongu? E inue est? A Punt’Istaula, in particolare, non mancano coloro che, ignari degli accorati appelli alla prudenza dei più grandi, si avventurano nel tentativo di raggiungere con lunghe e faticose bracciate la sponda opposta dove sorgevano, fino a ieri, gli impianti di un promettente idroscalo. La tragedia della guerra, dopo aver provocato lutti e dolore fra la nostra popolazione si è accanita anche laggiù riducendo il tutto ad un informe groviglio di ferraglia. Trascorse le ore più roventi e calata la sera, ecco apparire da Portoromano numerose carovane di famiglie che raggiungono il breve arenile portandosi appresso la cena che verrà consumata fra poco sotto un cielo ammiccante di stelle. Cala la notte per tempo annunciata del breve rintocco del campanile di S. Paolo. Puoi sentirlo in ogni remoto angolo del piccolo centro abitato e, puntuale come sempre, ecco in lontananza il ritmico tamburellare dei pescatori i quali servendosi di due pezzi di legno battono sulla sponda della barca al fine di convogliare i pesci verso le reti. All’Isola bianca indugia, ancora per poco, la nave di linea finché, lenta, maestosa come sempre, si stacca dal molo e, in breve, voltate le spalle e splendente di luci, s’immerge nel buio lasciando che alcuni gabbiani, con voli radenti e guardinghi, cerchino tra qualche rifiuto un tozzo di pane inzuppato nel mare d’inchiostro. Qualcuno accenna a un saluto, l’ultimo, forse! Ora il silenzio cala su tutto e, ancora per qualche decennio la farà da padrone accarezzando il sonno di quelle calde notti olbiesi. … e delle macerie rimarrà solo un nebbioso ricordo! ©Nigi Pala