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Storia di Reno il cane che visse tre volte

Storia di Reno il cane che visse tre volte
Storia di Reno il cane che visse tre volte
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 13 March 2016 alle 11:43

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Antonio era un aitante trentenne, quando decise di aggiungere la caccia alle tante passioni che già coltivava. Non poteva essere da meno di quegli zii ed amici che la praticavano da sempre, e che lo convinsero ad abbracciare il cruento sport di Diana, lusingandone i talenti naturali di mira e pronto riflesso. Da buon scapolone benestante, tediato dalla stagnante vita provinciale della Olbia anni Cinquanta, in lui non si sommavano ancora -per età e stato- ansie e preoccupazioni, se non quelle di una fresca professione di medico e delle diagnosi dei suoi pazienti. Dedicò dunque più di un pomeriggio per informarsi su una prestigiosa doppietta calibro 12, sui migliori scarponi disponibili con suola Vibram e su una capiente, pratica cartucciera in cuoio italiano. Fornitosi di tutta l’attrezzatura indispensabile, mancava ora l’irrinunciabile complemento del cacciatore: il cane. Con cortese fermezza rigettò le non poche offerte, qua e là prospettategli, di pur ottimi segugi e bracchi, ma secondo il suo stile caratteriale volle agire da solo. Aveva infatti l’idea precisa di un cane che avrebbe dovuto unire la bellezza all’oggettiva abilità. Anche in questo caso, cercò il meglio. Consultando e consultandosi non poco, ne concluse che la razza del setter inglese era proprio quella che faceva per lui. [caption id="attachment_52679" align="aligncenter" width="435"]1953 La nave traghetto "Sicilia" in una foto di Joe Nieddu del 1953, pubblicata per la prima volta nel gruppo Facebook "Olbìa polis"[/caption] In un’umida serata di bonaccia piatta -erano gli ultimi giorni di febbraio- si imbarcò con l’auto sul traghetto per Civitavecchia, poi direzione Bologna, adorata città dei suoi studi universitari. Il canile si trovava a Casalecchio di Reno, diventato ora quartiere dormitorio del capoluogo emiliano. Entratovi, fu condotto senza molti preamboli nel recinto di “qualcuno” che da sempre aveva sentito il suo arrivo. Non restò deluso: a scodinzolargli di fronte stava uno stupendo esemplare di setter inglese, bianco, allegro ed esuberante quanto aristocratico. Con gli sguardi che si incrociavano per la prima volta, Antonio ebbe una sensazione infrequente nella vita di un uomo. Quasi fosse intervenuto in modo imponderabile un misterioso scambio di ruoli, gli parve –fu un attimo- che Reno lo avesse riconosciuto pur non conoscendolo ancora, rubandogli così il privilegio esclusivo della scelta, ma donandogliene in cambio un altro ben più prezioso: la certezza di un amore non casuale. E a prima vista. Reno, sì, questo era il nome con cui quel setter stupendo era stato battezzato quando ancora poppava dalla mamma dall’impeccabile pedigree, vanto del canile, campionessa pluridecorata, dalla quale aveva ereditato la buffa caratteristica della lingua che preferiva andarsene a penzolare sul lato destro della bocca. Un nome rigorosamente bisillabo, come ben si addice ad un cane da caccia che deve sentire al volo il richiamo del padrone. Un nome niente affatto originale per chi era nato nelle immediate prossimità di quel fiume Reno che si udiva scorrere allegramente, a poche decine di metri, calco di un antico toponimo usato dai Galli prima che le legioni romane di Publio Cornelio Scipione Nasica li cacciassero da quelle fertili piane. “Acqua che scorre” era il significato di quell’affascinante nome, come la vita e la storia, ed il loro inesorabile fluire nel tempo. Per Antonio c’era della poesia nel nome Reno, c’era la sottile nostalgia della prima gioventù, e poi sarebbe stato come portarsi nella sua Sardegna un pezzo vivente della sua Bologna. Fu così che il nome di Reno, “acqua che scorre”, rimase, perché era il medesimo che avrebbe voluto, quasi lo avesse scelto ancor prima di salire sul traghetto. E come un torrente in piena invernale Reno entrò nella sua nuova casa olbiese, irruento, allegro, invadente, in quel suo essere sempre un po’ fuori dalle righe che solo chi ha posseduto un setter può capire. Si era nei freddi e limpidi giorni del carnevale sardo. Durante la prima uscita nel Corso invaso da maschere schiamazzanti, Reno si imbatté scodinzolando in un gruppetto di tipacci urlanti, che sotto il nero domino celavano i volti, ma non il puzzo del troppo vino rosso del zilleri. Uno fra questi, il meno alto, sghignazzando gli affibbiò un calcio vigliacco, al torace. Reno mai scordò dolore e affronto, e da quel giorno il suo unico, grande odio, cieco e senza distinzioni, oltre che per il domino, fu per ogni nera gonna di vedova o per la tonaca nera di Monsignor Cimino, rispettato parroco di San Paolo. A dispetto dell’incidente, parve subito nato ed addestrato per stare in Sardegna, il setter Reno, che dalle marcite della Bassa Padana passò a dimostrare le sue abilità fra passaggi di roccia e l’inestricabile macchia. I profumi della vegetazione selvaggia lo inebriavano moltiplicandogli le energie già esuberanti. Instancabile, obbediente, veloce, prudente. Il suo “lavoro” di cane da caccia Reno lo faceva con senso del dovere e solerzia stupefacenti. Quelle spese per lui nel canile erano state lire spese bene, perché Reno era una macchina perfetta. Una pacchia per lui la nuova vita che sempre aveva sognato: libera, senza recinzioni e gelide cucce di legno umido, impotenti contro i rigori e le nebbie dell’inverno emilano. Il suo padrone d’altronde ben sapeva che un cane ha la massima gioia nei piccoli privilegi domestici concessigli per abitudine, come l’esclusivo stare ad udire lo sfogliare lento del quotidiano o l’ascoltare alla sera il battere veloce dei tasti della Lettera 35 sul foglio dei referti, fingendo di sonnecchiare sotto la scrivania. [caption id="attachment_52680" align="aligncenter" width="692"]rENO_PAPA_OMERO_APRILE 1955_Olbiachefujpg Reno ed il suo padrone a passeggio per il Corso di Olbia, 1955[/caption] Amò subito anche il mare, Reno. E si godeva il sole, il vento e l’inatteso odore di salato, nelle brevi gite sul piccolo gozzo artigianale, facendo garrire allegre al vento le lunghe orecchie e la lingua rigorosamente ciondolante a destra. Lui, Antonio, sorrideva divertito, vedendolo abbaiare festoso a quel traghetto che entrava così lento in porto, e che aveva segnato l’inizio della seconda vita del suo Reno. Lo portava anche al frutteto, l’amata “vigna”, per farlo giocare con gli altri cani del mezzadro, o a lanciargli gli acini dell’uva matura appena staccata dal pergolato, per acchiapparli al volo. Scorsero lenti come il corso estivo del fiume Reno quegli anni di felice vita sarda, ma un giorno accadde il più imprevedibile degli imprevisti. Durante una battuta di caccia a Punta Finosa, uno sprovveduto leprotto cadde colpito senza nemmeno la fortuna della morte immediata. La fucilata gli aveva paralizzato le zampe posteriori ed il malcapitato continuava a trascinarsi lentamente, dolorosamente, mentre la rugiada fra i trifogli diluiva la scia rossa del sangue. Il suo ultimo, straziante grido di dolore prima del necessario colpo di grazia ricordò ad Antonio il disperato vagito di un neonato. Per la prima volta Reno non trovò negli occhi di Antonio la soddisfazione della preda catturata. Né fu ripagato dal consueto “bravo” per il lavoro pure svolto con tanta solerzia. Un presentimento scorse sulla schiena bianca di Reno. Due settimane dopo ebbe miglior sorte –se così può dirsi- l’allodola che precipitò, morta sul colpo, non lontano dal rudere della chiesa di Santu Liseu. Reno si affrettò a raggiungerla seguito da Antonio, ma alte grida attirarono la loro attenzione. Una seconda allodola, il maschio della coppia, si innalzava repentinamente in aria, rimaneva fermo a diverse decine di metri dal suolo, e si gettava poi in picchiata verso i distruttori di metà della sua vita e dell’intera sua felicità. Atterrato a qualche metro di distanza dalla compagna esanime, si avvicinava quindi di pedina, emettendo un verso simile ad un pio-pio: doloroso lamento funebre ed estremo saluto per la fedele compagna madre dei suoi piccoli. Non sfuggirono a Reno il rinnovato silenzio del padrone e quello stringersi mesto dei suoi occhi cerulei, che non avevano segreti per lui. Aveva notato solo pochissime volte quell’espressione malinconica mentre lui studiava i casi di alcuni pazienti. Colse distintamente un sospiro inaudibile per chiunque altro. Prima ancora che, rientrando in auto, Antonio prendesse la solenne decisione, Reno già aveva capito che quello sarebbe stato il suo ultimo riporto. Il fucile fu regalato, la cartucciera in cuoio italiano riposta definitivamente in un angolo della cantina, dove fu trovata molti anni dopo mangiata dai topi. Così Reno, ancora giovane, entrò nella sua pensione anticipata quanto dorata, fatta di anni felici, passati sempre più ad ascoltare sonnacchioso il suono dei tasti della Lettera 35 da cui uscivano referti sempre più numerosi, fatta di passeggiate domenicali ad inseguire i gabbiani del porto, di gite sul gozzo con orecchie sbandieranti allo scirocco salmastro. E di rabbiosi inseguimenti a monsignor Cimino ed alla sua tonaca nera. Reno001 La terza vita di Reno fu la più bella che un cane possa immaginare, ma non durò molto. Un male incurabile lo colpì prima che potesse intristirsi nel declino della vecchiaia, come solo capita agli eroi delle saghe nordiche. Si avviò con austera dignità alla morte, avendo tutte le cure e le premure possibili che un padrone medico sa porgere a chi ama. Come luogo di sepoltura Antonio aveva da tempo scelto l’angolo più bello del podere, un luogo appartato e sereno, prossimo al fiume che scorreva veloce, sotto un ombroso eucalipto, davanti al piccolo mandorlo già in fiore. Scavò lui stesso la fossa, in solitudine e fra le lacrime, come si addice al definitivo congedo fra due amici esclusivi. Una pietra elegantemente levigata dall’acqua e dal tempo, estratta dal greto, sorse come unico segnacolo della tomba. Qualche anno dopo la forza della solita piena trascinò chissà dove quell’improvvisata lapide senza scritta, ma ciò non ebbe molta importanza. Reno aveva ben capito, già prima di morire, che l’epitaffio vero, più duraturo e profondo, sarebbe rimasto invisibile, segretamente inciso nel cuore del padrone. Ancora mezzo secolo dopo, con la forte dolcezza del ricordo che solo i vecchi possiedono, egli più volte tornava commosso a ricordare la bellezza, l’eleganza, l’intelligenza, l’affettuosità di Reno. E, da ultimo, ma proprio da ultimo, le mirabili gesta di cane da caccia. Quell’uomo, Antonio, era mio padre, e per me il ricordo del suo cane Reno è tra le più belle eredità lasciatemi.

© Marco Agostino Amucano