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Quei quattro alberi di Piazzale Amucano

Quei quattro alberi di Piazzale Amucano
Quei quattro alberi di Piazzale Amucano
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 17 June 2018 alle 15:40

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La recente decisione degli amministratori di trasformare Piazzale Marco Agostino Amucano da parcheggio di auto in area verde (leggi qui e qui) suscita la mia ovvia, personale approvazione, per la nuova e più nobile destinazione d’uso conferita allo spazio urbano dedicato all’omonimo nonno. Non entrerò pienamente nel merito delle polemiche in atto sull’annoso problema dei parcheggi per residenti e commercianti di quest’area del centro storico, grave carenza che la nuova scelta sembrerebbe prossimamente acuire, almeno sulla carta. A meno che, in contemporanea e quantunque ancora non annunciata, vi sia l’intenzione di recuperare l’adiacente e molto più ampia area del dismesso scalo merci ferroviario, già utilizzata in anni recenti come parcheggio a pagamento e non invece gratuito, come diversamente è per piazzale Amucano.

[caption id="attachment_101352" align="aligncenter" width="684"] Mio nonno quando era sindaco di Olbia nel 1948[/caption]

Nessuno si spaventi: lungi da me fare polemiche, o altre considerazioni che malevolmente potrebbero essere interpretate come tali. Argomento di questi miei appunti di ricordi non sarà nemmeno l’urbanistica storica, pur consono alla formula di questa rubrica, ma solo una collaterale implicazione di carattere botanico, senza nulla togliere all’amico agronomo dott. Antonio Appeddu, anche lui –come sapete - collaboratore di Olbiachefu. Rimarrà ancora deluso chi invece mi chiede di scrivere un ricordo più dettagliato di nonno, come parrebbe più logico. Quantunque siano passati non pochi anni dal suo decesso avvenuto nel 1963, noto con legittimo orgoglio come egli resti sempre nel cuore degli olbiesi (e non solo di questi) quale indimenticato medico e sindaco, per quanto, prima di vedersi intitolare quest'area, ora pubblica, retrostante alla casa dove egli visse ed operò, la buonanima abbia dovuto pazientemente attendere l’esaurirsi dei nomi di tutti i venti (monsonici asiatici inclusi); di tutte le essenze di macchia mediterranea (anche le più sconosciute al profano); degli strumenti da pesca (fra cui anche il rampino per le arselle), di tutti i vulcani italiani (seppure in terra non sismica come la Sardegna, e penso qui a Piazza Etna), nonché - fra gli altri - di una non indifferente parte dei tesserati defunti di un partito passato anch'esso a migliore o peggiore vita a seconda del punto di vista. Ciò è avvenuto -parlo dell'intitolazione del piazzale- nemmeno un anno fa e grazie all’amministrazione Nizzi, a cui devo una mai scontata riconoscenza, viste le suesposte singolari, spesso bizzarre e clientelari modalità di attribuzioni tonomastiche di vie e piazze che soprattutto nei passati decenni hanno contraddistinto la nostra Olbia.

Non parlerò dunque di nonno, ripeto, ma entrerò in argomento citandone un aforisma (chi lo conobbe sa delle sue fulminanti battute in sardo), aforisma che sembra calzare ad hoccol destino prossimo venturo dello spazio urbano assegnatogli nel nome: “Il sardo non sa rispettare gli alberi. Incontrandone uno, al primo giorno ci gira intorno e lo guarda. Al secondo giorno poltrisce sfruttandone l’ombra nella controra. Al terzo giorno ci gira nuovamente intorno e lo osserva. Individuato infine un buon punto del tronco, vi poggia la sega, e comincia a tagliare...”. Detta in sardo logudorese originale sarebbe più efficace, quest’amara riflessione resa in forma di breve favola a carattere didascalico-antropologico, secondo il gusto fine-ottocentesco di chi la formulò. Io che ho osservato con le lacrime agli occhi ciò che è recentemente accaduto in quattro e quattr’otto agli eucalipti di Via Galvani, autentici monumenti storici viventi, sostanzialmente custodisco la medesima opinione di chi gli eucalipti li vide piantumare durante le grandi bonifiche dei primi del Novecento. Avrei anche qualcosina da dire sugli alberi di oltre mezzo secolo e qualche lustro di Piazza Regina Margherita, segati un bel giorno in un men che non si dica, laddove i giovanissimi sostituti non hanno impedito alla “piazza” per antonomasia degli olbiesi di trasformarsi nei molti anni a venire in elegante stazione elioterapica per ogni stagione, soprattutto estiva.

Per uno strano gioco del destino, riconosco come autentico miracolo di grazia il fatto che nello sgombero di macerie di vecchi edifici abbandonati frammisti a rottami di camion eseguito alcuni anni orsono per creare Piazzale Amucano, dal polveroso caos di demolizioni, crolli e copertoni vecchi si siano salvati dalle benne alcuni indifesi alberelli. Stanno ancora lì, in quell’angolo, che rendono fresco anche nella canicola di luglio e dove si apre la porta che collega lo spiazzo con via Giacomo Pala. Come per tutti gli alberi che hanno una storia, questa va conosciuta, perché se la storia non la si conosce e non la si ama, non riconosceremo e conseguentemente non rispetteremo i segni, i pochi segni che essa ci ha lasciato. Questi alberi racchiudono e riportano ad una storia umana di nobili sentimenti, ad una gentildonna di altri tempi dalle nobilissime virtù, alla sua vita discretamente appartata che nessuno ha mai raccontato.

Quando andavo a suonare il suo campanello mi soffermavo ogni volta a gustare quel nome scritto con caratteri eleganti, che per il bimbo quale ero, convinto ancora che Cagliari sorgesse in corrispondenza della succitata Piazza Regina Margherita, esprimeva una sorta d’assonanza misteriosa, un non so che di straniero o di esoticamente continentale: Ester Lai, vedova Bacchi. Ancora oggi, sulla scorta dell’immaginazione fervida che caratterizzò la vita interiore della mia prima fanciullezza, tendo così a ricordare erroneamente con una ypsilon finale quel cognome da nubile, pure sardissimo. Signora Ester, “Signorester” nel lessico famigliare di famiglia Amucano, era figlia di sottufficiale, se non erro carabiniere, soprannominato “monsieur Lai”, che trasferito che fu dalle zone interne conobbe e sposò sullo scorcio dell’Ottocento la terranovese Caterina Maciocco, nota Caterinetta. Ester era ancora una minuta, graziosa e sorridente rampolla della Terranova dei primi del Novecento quando, poco più che adolescente, si innamorò perdutamente di Giorgio Bacchi, giovane elegante e dai modi gentili. Fu amore grande, amore a prima vista, amore reciproco, di quelli che non riesci a descrivere e comprendere se non sei anche tu un iniziato, un Fedele d’Amore come Dante Alighieri o Guido Cavalcanti. Ester e Giorgio convolarono prestissimo a nozze, ma la malattia di lui era già in stato avanzato. Lei nondimeno amò anche la sua tubercolosi. Anzi proprio per questo lo amò ancor più profondamente, come una cosa bella di cui cerchi di godere intensamente ogni attimo ed ogni profumo, perché sai che presto la perderai. Un po’ come nella "Canzone di Marinella" di Fabrizio De André, che nello struggente verso finale recitava: ”E come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose”. Così Ester pensò quando chiuse gli occhi di Giorgio per l’ultima volta, dopo pochi mesi di matrimonio.

[caption id="attachment_101345" align="aligncenter" width="2715"] Ester Lai in una rara immagine scattata negli anni Settanta (archivio dell'autore)[/caption]

Quantunque vedova giovanissima e bella, Ester decise di non risposarsi più. Io non credo che fosse a causa della tipica mentalità sarda del tempo, per cui dopo un lutto del genere una donna ancorché giovane doveva per forza di cose consacrarsi in eterno a nera Vestale del Culto della Memoria del Marito Defunto. Al contrario, sono sempre stato convinto che quel cognome “Bacchi” fosse rimasto indelebilmente e luminosamente inscritto molto più nel suo cuore, alimentato sempre da amore infinito per lo sfortunato Giorgio, che nel suo campanello d’ingresso, la cui scritta ogni volta mi riportava in mente l’imperitura storia d’amore sentita narrare in famiglia. Il rispettoso silenzio che ogni volta seguiva a tavola, dopo che per l’ennesima volta veniva rammentata quella triste vicenda lontana ormai nel tempo, ma vicina a noi non solo perché dirimpettai, me ne costituisce oggi implicita prova a posteriori.

Il palazzetto di “Signorester”, come ancora oggi lo chiamiamo noi dirimpettai che l’abbiamo conosciuta e frequentata, è quello di tre piani che fa angolo tra Via Giacomo Pala e l’altra piazzetta di recente dedicata alla compianta Rita Denza. Lei occupava l’ultimo piano, rimasto sempre più vuoto dopo che le era mancata anche la sorella Maria, che mai conobbi. Avrei tanto da raccontare di signora Ester Lai vedova Bacchi, persona deliziosa, vera “nobildonna” senza stemmi sul portone se non il cognome del marito, che pure nobile non era. Racconteremmo a lungo dei suoi deliziosi cappellini con la veletta, delle sue periodiche visite di cortesia, quelle ufficiali intendo, con gli scambi di piccoli doni ed i cioccolatini, i petit four e le caramelle Rossana nei contenitori d’argento sul tavolino. Ambite e proibite leccornie che, previo paziente appostamento, andavo a saccheggiare repentinamente dopo avere visto tutte le donne di casa uscire dal salotto buono per spostarsi nel corridoio d’ingresso, dove avveniva l’ultimo congedo fatto di ringraziamenti, ancora complimenti e la solita promessa di ricambiare la visita, che puntualmente avveniva, sempre almeno mensilmente. Amabili usanze quelle visite che sapevano di periodo Savoia, con cioccolatini, pasticcini e regali che mi incuriosivano ben oltre il peccato di gola. E poi c’era il giardino, il “giardino di Signorester”. Rose, meravigliose rose cresciute misteriosamente belle e a dismisura come nemmeno le vedi in una serra della Riviera di Ponente. Erano le insuperate protagoniste di un piccolo spazio adiacente al palazzetto dove lei si muoveva sempre più lenta e rimpicciolita dagli anni, e segretamente io la spiavo dall’alto della casa paterna mentre trafficava qua e là con cesoie alla mano. Come tutte le più belle cose che duravano solo un giorno, le sue rose erano ambitissime e il soggiorno di casa nostra a maggio si lasciava inondare da quel profumo paradisiaco.

Nel piccolo Eden stava anche una grande voliera, con numerose colombe di razze e colori vari, dove ogni tanto la vedevo entrare, con i suoi capelli argentati dal riflesso azzurrino. Oltre la gabbia, che suscitava in me sentimenti di pena per le povere bestiole condannate ad inconsapevole ergastolo fin dalla nascita, c’era qualche nespolo e degli aranci dal frutto amarissimo. Sono gli unici sopravvissuti del giardino di Ester, dopo che la relativa area venne acquisita dal comune per ricavarci quest’angolo di Piazzale Amucano. Quegli alberelli, quelle rose e i tanti altri fiori, quei piccioni bianchi che ora sono solo ricordi volati via, erano il mondo segreto e incantato di Ester Lai vedova Bacchi. Mi chiesi più di una volta se lei, rimasta perenne sposina senza più marito, non riconoscesse simbolicamente in quel meraviglioso, ma pungente fiore, il suo Giorgio, effimero quanto eterno amore della sua vita. Io ne sono convinto, voglio esserne convinto.

Chi ora trasformerà quel piazzale in un bel giardino pubblico, non trascuri mai, anche nel futuro più remoto, di dare il più grande valore a quei pochi alberelli superstiti apparentemente anonimi. Ogni albero ha una sua storia -dicevo- delicata, silenziosa, quasi sempre inesprimibile, e questa che ho voluto raccontare è una storia piccola, ma bellissima e profumata di autentica Bellezza. So che gli alberelli verranno salvati, ma lo dico a coloro che apparterranno ad un futuro più remoto: fate sì che non si avveri mai l’aforisma di mio nonno, aforisma che suonava e suona ancora come una sinistra ed amara profezia. Dimostrategli, almeno una volta, a nonno Agostino, quello col pizzetto austero e col bastone da passeggio sempre in mano, che almeno per quanto riguarda il piazzale che i posteri gli hanno intitolato, non ci aveva azzeccato a definire i sardi irrispettosi degli alberi.

©Marco Agostino Amucano

17 giugno 2018