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Peppino ovvero la luce - racconto di Antonio Appeddu

Peppino ovvero la luce - racconto di Antonio Appeddu
Peppino ovvero la luce - racconto di Antonio Appeddu
Patrizia Anziani

Pubblicato il 26 May 2018 alle 22:06

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Peppino ovvero la luce

I soci del circolo erano tutti assorti: parlava il presidente. Il Maestro, grazie all'interessamento di un amico di Roma, aveva deciso di accettare l'invito. Il circolo avrebbe avuto l'onore di averlo ospite ad Olbia, dove avrebbe dipinto una trentina di acquerelli tutti dedicati alla città e avrebbe partecipato alla mostra delle sue produzioni pittoriche. Mostra "non a vendere", sia ben chiaro!

Seguì un lungo applauso e i soci, una volta in piedi, si misero quasi in fila per complimentarsi personalmente con Giovanni, il presidente pro-tempore, che era riuscito nell'impresa di coinvolgere nel progetto culturale del circolo quello che, da più parti, veniva considerato come il più grande acquerellista italiano (e non solo italiano) vivente.

Michele, socio esperto e di raffinate maniere, aveva avuto, all'unanimità, l'incarico di accogliere il Maestro ad Olbia e di garantirgli idonea sistemazione. Senza indugio, l'aveva chiamato al telefono per conoscere le sue specifiche esigenze.

- Gradirei non andare in albergo, Michele caro - disse il Maestro - Preferirei una sistemazione discreta, quasi anonima, in una casetta del centro della città, dalla quale potermi muovere per studiarne i vicoli più caratteristici, le case più graziose. Sa, i centri storici delle città, se li si guarda con occhi riposati e con mente sgombra da altri pensieri, sono capaci di raccontare, senza parlare, storie interessantissime.

- Mi metterò subito alla ricerca - rispose Michele - Troveremo una sistemazione adatta ai suoi desideri.

Rientrò a casa, Michele, e andò a sedersi nella vecchia poltrona del suo studio per trovare la soluzione. Era una poltrona che aveva ereditato dal padre che, nelle ore pomeridiane, era solito sedersi su di essa per leggere il giornale e per passare un quarto d'ora in relax. Lui, Michele, la utilizzava quando doveva riflettere per risolvere un problema e, così, iniziò a fare una ricognizione dei conoscenti che avevano abitazioni di proprietà nel centro storico. Si ricordò di suo cugino Francesco, quello che viveva fra Olbia e Nizza. Lui aveva un piccolo appartamento in una palazzina di via Cavour dove, da bambini, andavano a giocare a "luna monta". Era il posto ideale per quel gioco, perché la palazzina, al suo interno aveva (anzi, ha!) un bel cortile libero dove era possibile correre e saltare senza problemi. Fu anche l'occasione per ripensare a quel parente ed ai tanti olbiesi che, a malincuore, avevano preso la via della Francia. Diversi si erano sistemati a Nizza e dintorni.

Francesco, in quei giorni, era ad Olbia e non fu difficile, per Michele, rintracciarlo: ore 18, in piazza Regina Margherita, al bar di Cosimino. Comme d'habitude!

L'appartamento era libero e pulito. Poteva ospitare tutti gli amici che voleva e per quanto tempo serviva loro. Tanto lui, da tempo, quando era ad Olbia viveva a casa della sua compagna, a Muriscinu.

Il Maestro arrivò in aeroporto ai primi di luglio. Era stato diverse volte in Sardegna, ma mai ad Olbia. Sbarcò una mattina assolata e calda. Data l'età avanzata, in aereo era riuscito a farsi assegnare da una hostess un posto libero della prima fila e al momento dell'apertura del portellone si trovò a scendere per primo nella rampa che portava al bus navetta. Appena fuori dall'aereo si sentì avvolto dai profumi della macchia mediterranea: un miscuglio di lentisco, elicriso e mirto che lo stordì, come d'altronde accadeva ogni volta che metteva piede in terra sarda. "La Sardegna sarebbe riconoscibile anche da un cieco. Se pure non la vedi, la senti" fu il suo primo pensiero.

Michele lo accolse all'uscita dei passeggeri. Prese il bagaglio e, insieme, salirono sul taxi che li avrebbe accompagnati al piccolo appartamento di via Cavour.

- Ma com'è che in questa città tutte le vie e le piazze del centro sono dedicate a personaggi della casa Savoia? Possibile che non ci siano altri personaggi, olbiesi o sardi, a cui dedicare questi spazi pubblici? - chiese il Maestro mentre sorseggiava una camomilla al caffè Matteotti insieme a Michele e Giovanni.

- In effetti, rispose Giovanni, si è esagerato un po'. Pensi che ad un personaggio veramente importante per Olbia, uno che chiamavano "onorevole Terranova" per le battaglie che aveva fatto in parlamento a favore del porto di Olbia, il comune ha dedicato una delle strade più anonime della città. E' un tratto caratteristico di certa politica locale, spesso brava a magnificare chi viene da fuori ed a sottovalutare le personalità di casa. Come si diceva un tempo, nemo propheta in patria.

- Dovreste approfondire meglio la storia della Sardegna. Anzi, dovrebbe essere obbligatorio, farla studiare nelle scuole sarde. Vi sarebbe più chiaro cosa hanno fatto i Savoia alla Sardegna e, allora, avreste meno piazze e vie dedicate a costoro. Dalle mie parti, solo ora si sta prendendo coscienza di come si sia arrivati all'unità d'Italia e quanto sangue innocente è stato versato in tutto il meridione.

- Mi dica, Giovanni - principiò con tono serio il Maestro - che impronta devo dare a questi trenta acquerelli sulla città?

- Io credo - rispose Giovanni - che la sua produzione artistica dovrebbe esaltare le forme significative della parte storica di Olbia e recuperare quei dettagli di pregio che sono riscontrabili in ciò che l'uomo, nel tempo, ha prodotto. Inoltre, ed è forse l'obbiettivo più importante, noi del circolo crediamo che debba essere rappresentata quella caratteristica della città che risulterà più significativa proprio ai suoi occhi, agli occhi di una grande artista come lei.

Il Maestro fissò lo sguardo di Giovanni e rimase in silenzio per un po' mentre le cicale frinivano sugli alberi della vicina piazza e il solito motorino fracassone passava al corso davanti agli sguardi distratti di due vigili urbani intenti verificare la superficie di un marciapiede occupata dai tavolini di un altro bar. Adesso aveva gli occhi spalancati e lucidi, sembrava quasi commosso.

- Ho molti anni di carriera alle spalle e sono in tanti ad avermi commissionato quadri. Ne ho dipinto moltissimi, non li saprei manco contare; ma nessuno, commissionandomi dei quadri, mi aveva fatto una richiesta così elegante e così delicata, riconoscendo a me il diritto di scegliere il tema da esaltare.

Lo studio era stato allestito nella cameretta che dava sul cortile interno dell'appartamento. Il cavalletto, ricevuto in prestito da un socio del circolo che l'aveva ereditato dalla mamma appassionata di pittura, era stato posizionato in modo tale da far arrivare di lato la luce sulla carta. I pennelli, portati da casa, erano sparsi su un tavolo insieme ai colori.

Lo aveva girato in lungo e in largo quel piccolo centro storico e aveva scattato centinaia di fotografie con la sua macchina fotografica, una Nikon F acquistata nei primi anni '60 a Parigi. Adesso lì, in quell'improvvisata officina del disegno, le esaminava con attenzione dopo averle catalogate per via e per tema. Quasi si fosse dato un'ineluttabile missione, cercava quel "carattere particolare" che voleva trovare a tutti costi per sottoporlo al giudizio del presidente e dei soci del circolo, a dimostrazione della sua capacità di interpretare i significati più intimi di facciate, finestre, grondaie, portoni e gradini. Prendeva le foto e le esaminava con l'ausilio di una lente d'ingrandimento: non voleva trascurare alcun dettaglio che avrebbe potuto avere un significato per la sua opera. Ancora, però, questo elemento nascosto, l'oggetto della sua personale ricerca, non si era appalesato e rimaneva in ombra. "Lo troverò - pensava - a costo di guardare mille volte queste foto".

Il Maestro non era più un ragazzino. Aveva superato da alcuni anni la soglia dei settant'anni e alcuni piccoli problemi fisici glielo ricordavano spesso. In particolare, da alcuni anni si era dovuto abituare a vivere con un fastidioso, a volte doloroso, mal di schiena. Michele, accortosi del problema, l'aveva anche convinto a farsi controllare da uno specialista, un giovane osteopata olbiese che da qualche mese aveva iniziato ad operare in città. Aveva fatto alcune sedute e ne aveva da subito tratto giovamento. Quel giovane educato e professionale, una volta saputo che era un grande pittore, aveva dimostrato un certo interesse per l'opera del paziente e, tra una manipolazione e l'altra, era riuscito a farsi illustrare lo scenario dell'arte pittorica moderna in Italia e in Europa. Per la prima volta, sentì i nomi di De Nittis e De Albertis e dei loro capolavori e, dalle parole del Maestro, capì che, come per tutte le arti umane, il successo non arriva subito ma è frutto di abilità personale, di grandi sacrifici e di costante applicazione. Addirittura, gli confidò il Maestro, "può essere il prodotto di tante delusioni".

Una mattina, mentre dipingeva, a causa di un forte attacco di sciatalgia, perse l'equilibrio e cadde per terra trascinando con sé una cassetta contenente alcuni attrezzi del mestiere. Rimase per terra alcuni secondi, con lo sguardo puntato sul lampadario, fino a quando non sentì un leggero rumore di passi. Girò lo sguardo verso la porta e vide un bambino che lo guardava con aria preoccupata. Gli fece subito un sorriso per tranquillizzarlo e gli chiese di avvicinargli una sedia perché potesse usarla come appoggio per rialzarsi.

Il piccolo obbedì e avvicinò la sedia al Maestro che, con fare lento e dolorante, riuscì a tirarsi su ed a rimettersi in posizione eretta.

- Come mai sei entrato?

- Ho sentito un rumore mentre passavo davanti al suo ingresso...

- Come ti chiami?

- Peppino

- E perché sei qui?

- Io abito sopra di lei.

Iniziò così la conoscenza con Peppino, figlio di Laura e di Achille, una coppia di dipendenti del comune che abitavano al piano superiore. Entrambi di uno stesso paese dell'oristanese, si erano trasferiti in tempi diversi ad Olbia. Achille, geometra all'ufficio tecnico, aveva superato un concorso ed era stato assunto in comune nel 1989 e, giocoforza, aveva dovuto cercare casa in città. Due anni dopo, Laura, già dipendente della provincia di Oristano, era riuscita ad arrivare in mobilità al comune olbiese. Tutta la famiglia, Peppino compreso, si era così stabilmente impiantata nella cittadina gallurese. Conducevano una vita serena e, col tempo, si erano integrati nella comunità olbiese. I primi tempi, Laura pretendeva (anzi, decideva!) che tutta la famiglia rientrasse "in paese" ogni fine settimana e alle feste comandate, ma, dopo alcuni mesi, questi rientri si erano diradati e i due giovani, ormai, nel fine settimana erano impegnati con un gruppo di ballo sardo appena costituitosi per iniziativa di un cultore di tradizioni popolari che, durante la settimana, faceva il bancario in città.

Peppino aveva dieci anni era stato promosso in quinta elementare. Amava il calcio ed era tifoso della Fiorentina e del suo campione Gabriel Batistuta e, se poteva, indossava una maglietta della squadra gigliata anche per andare a giocare con gli amici. Quando il maestro gli chiese perché tifasse Fiorentina, rispose "perché mio nonno, che ha fatto il militare a Firenze, tifava Fiorentina".

Peppino guardava il Maestro che dipingeva. Vedeva, dopo il passaggio del pennello sulla carta, le case prendere forma, i muri riempirsi di colore e, piano piano, associava il disegno a ciò che già conosceva, che stava a pochi metri da dove lui, adesso, ammirava la nascita di un quadro. Si era abituato, in quei giorni di vacanza, a seguire il lavoro del Maestro e questi considerava quasi naturale la presenza del bambino al suo fianco. Anzi, quando iniziava a dipingere in solitudine, rallentava la velocità del lavoro per evitare di far perdere a Peppino il minor numero possibile di pennellate.

- Come ti sembra questo portone, Peppì?

- Mi sembra uguale a quello vero, anche se questo del quadro sembra meno brillante.

Chissà cosa voleva dire il bambino, si chiese il Maestro. Aveva analizzato nel dettaglio la forma e, soprattutto, il colore dell'infisso ed era convinto di aver azzeccato. Lui, perfezionista quasi esagerato, aveva addirittura calcolato la distanza fra il filo del portone e quello del muro esterno per adattare l'ombra a questa misura. Che avesse utilizzato un colore non idoneo? Ma no, erano sempre buoni i colori che usava. D'altra parte, era pur sempre il giudizio di un bambino e, si sa, i bambini non vengono chiamati nelle giurie nei concorsi di pittura.

Tramite Peppino, conobbe i genitori che una sera pretesero cenasse a casa loro. Nell'occasione, la padrona di casa aveva servito a tavola una pasta particolare, di sua produzione, il cui nome gli era riuscito difficile da capire tanto che se l'era fatto scrivere su un pezzo di carta che, purtroppo, aveva perso. Laura gli aveva spiegato che si trattava di una pasta di semola di grano duro. Le donne di casa, dopo aver fatto la sfoglia, la avvolgevano attorno ad un ferro da calza e la mettevano ad essiccare. Quella che aveva mangiato in casa di Peppino era stata cotta nel brodo di pecora e condita con ragù di agnello. Il formaggio era pecorino. D'altronde, a casa loro si consumava solo pecorino.

- Si tratterrà molto ad Olbia? - chiese Achille durante la cena.

- Starò qui ancora una settimana, il tempo di finire il lavoro che mi hanno commissionato. Sto finendo di dipingere trenta quadri di altrettanti scorci del centro storico di Olbia. Sto per terminare gli ultimi due. Il giorno prima della partenza parteciperò all'inaugurazione della mostra e l'indomani dovrò rientrare nella mia città.

Il Maestro era originario di una bella città della Puglia e, come tutti i pugliesi era un buongustaio, amante del cibo e del vino buono. La discussione, così, si articolò sulle comunanze fra la cucina sarda e quella pugliese e, con sorpresa di entrambi, scoprirono che quella che credevano una reciproca singolarità regionale accomunava entrambe le regioni. Il formaggio marcio o, come si chiama in sardo "casu marzu o frazigu". E, cosa risultata gradita ad Achille, anche il Maestro era un estimatore e consumatore di casu frazigu.

Fu così che Achille si rivolse al Maestro:

- non prenda impegni per dopodomani! Andremo a pranzo in uno stazzo col gruppo di ballo per cantare, ballare e mangiare. Troverà anche "su casu frazigu". Inviti anche i suoi amici del circolo. Faremo una bella festa con tutte le nostre famiglie.

Giovanni conosceva bene lo stazzo verso il quale si dirigeva, insieme a Michele ed al Maestro. In diverse occasioni era stato ospite del proprietario: Pinuccio Cucciari, il presidente del gruppo di ballo sardo di cui facevano parte Laura ed Achille. Pinuccio era noto ad Olbia e in tutta la Sardegna perché, dal niente, aveva costituito uno dei gruppi di ballo sardo più importanti e attivi di tutta la Sardegna.

In mezzo a tante persone, il Maestro ammirò il gruppo che ballava "su ballu tundu" e "lu scottis" e apprezzò le doti canore del padrone di casa e di un giovane emigrato che, avendo vissuto molti anni in paesi anglofoni, si era esibito cantando "My way" di Frank Sinatra. Dopo pranzo, volle passeggiare nella macchia mediterranea, per respirare fra lecci, olivastri, sughere, filliree, lentischi e mirti. Salì con Peppino su una collinetta e, con sua grande sorpresa, vide la città affacciata sul suo golfo. Ammirò quel paesaggio così frastagliato e affascinante, con le spiagge che fronteggiano il mare e che contengono, alle loro spalle, le lagune. Immaginò cosa avrebbe potuto provare un viaggiatore che, nei secoli passati, a dorso di mulo o di cavallo, potesse arrivare lì dopo un lungo viaggio e scorgere, d'improvviso, un paesaggio come quello. Lo capiva bene, perché adesso lo provava lui e venne in desiderio di descriverlo, quel paesaggio, con i suoi colori e con i suoi tratti di pennello. Lo doveva fare, anzi, glielo doveva a quella natura così elegante e generosa che riusciva a disegnare le cose meglio degli uomini e che aveva diritto al premio dell'esaltazione pittorica anche a difesa della memoria dei luoghi nel tempo. Sentì quasi di essere investito di una missione salvifica: fissare sulla carta, con i suoi acquerelli, quella meravigliosa opera della natura e del suo Creatore. Ma capì anche che lo avrebbe fatto per quelle persone così dirette e così cordiali con lui, in mezzo alle quali gli pareva di essere sempre stato. Le invidiò perché capaci di mantenere ancora vivo il rapporto umano profondo, quello che fa sentire gli uomini fratelli e che li spinge a fare cose belle insieme e non cose cattive uno contro l'altro. Il suo sguardo si voltò verso il bambino che, senza guardarlo, gli disse:

- Maestro, vede quanta luce c'è attorno ad Olbia? Sembra che la luce nasca qui.

Come un lampo, si affacciò nella mente dell'uomo il ricordo di quel giudizio che il bambino aveva formulato sul quadro. La luce, ecco che cos'era che non aveva capito. La luminosità non era del portone, ma della città! Ed ora era lì che, grazie agli occhi di Peppino, capiva che se c'era una cosa speciale in quella città era proprio la luce.

Giovanni e Michele scrutavano con interesse e soddisfazione i quadri che il maestro aveva preparato. La mostra si sarebbe aperta il giorno dopo nei locali della Galleria "Il pennello dorato" in un complesso di nuova costruzione in via Panedda ed i trenta quadri erano già pronti per l'esposizione. Erano riuniti in sei gruppi di cinque quadri ciascuno, messi vicino alla porta in attesa che arrivasse l'addetto al loro trasferimento alla galleria. Questi arrivò all'orario stabilito e chiese dove fossero i quadri da trasportare. Giovanni indicò all'uomo i quadri ma, quando stavano per lasciare l'appartamento, il Maestro chiese a Michele di prendere quel quadro incartato che giaceva quasi inosservato nei pressi del portone principale.

- Michele, faccia la cortesia, lo prenda e lo metta nella sua macchina. Non mi chieda di cosa si tratta: mi usi solo la gentilezza di portarlo alla mostra. Sappia che si tratta di un regalo che devo fare ad una persona speciale.

Michele, pur curioso di capire cosa si celava nell'incartamento, prese il quadro e lo mise nel portabagagli.

La galleria era stracolma di persone. Si notavano i soci del circolo con le signore elegantemente vestite che, ripartite in piccoli gruppi, chiacchieravano amabilmente. Vicino alla piccola scrivania, stazionava una rappresentanza dell'amministrazione comunale che aveva voluto patrocinare la mostra. Fra gli ospiti, c'erano anche Laura e Achille con Peppino che, ormai, si era affezionato al Maestro. Gli acquerelli, appesi alle pareti della galleria, attestavano quanto la pittura possa rendere chiare le caratteristiche delle cose che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi ma di cui non capiamo il pregio fino a quando una mano esterna non ce lo spiega andando ad esaltare il dettaglio delle forme e del colore. Uno, in particolare, veniva osservato con grande attenzione da tutti gli ospiti. Era un panorama di Olbia, ritratto da una delle colline che cingono la piana olbiana, che brillava tanto di luce propria che sembrava illuminato artificialmente.

Dopo la presentazione di Giovanni e il saluto del sindaco, la parola passò al Maestro che, nel silenzio assoluto degli astanti, esordì ringraziando il circolo per l'onore che gli aveva fatto nell'invitarlo a produrre quei quadri in omaggio ad una città che non conosceva ma che, da quel momento, sarebbe per sempre rimasta nel suo cuore e nella sua mente.

- Il presidente mi ha chiesto di individuare, oltre ai segni più evidenti, quale sia, almeno per me, il tratto più significativo di questa città. Mi sono sforzato, per giorni, di capirlo da solo. Ragionavo sui dettagli, su alcune forme e su specifici colori. Ma la risposta non arrivava. Eppure mi era già stata data. E, come spesso accade, a fornirmela non è stato un adulto, un professionista o un artista. Niente di tutto questo. E' stato un bambino che, anziché incaponirsi, come ho fatto io, a cercare ciò che si trova nelle minuzie, è andato al sodo ed ha notato quello a cui gli adulti si sono evidentemente abituati senza farci più caso: la luce. Ed è a lui che voglio regalare quel quadro, perché si ricordi di questo vecchio amico e capisca che anche i vecchi hanno da imparare dalla vita.

E dicendo ciò, si staccò dal microfono, prese il quadro e, dopo aver abbracciato il bambino, gli mise il dipinto nelle mani.

©Antonio Appeddu

Si ringrazia Maurizio Casula per le foto