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Pedalate a luci rosse nella Olbia che fu

Pedalate a luci rosse nella Olbia che fu
Pedalate a luci rosse nella Olbia che fu
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 25 April 2021 alle 17:00

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Olbia, 27 agosto 2017 -Chi sostiene che le pedalate sotto le stelle siano una novità per Olbia, non conosce la storia di Olbia. Noi invece sappiamo per certo che dopo il tramonto le robuste biciclette comprate alla rivendita di Leggieri sfrecciavano numerose lungo il tratto dell’Orientale sarda, poi diventato Via Roma. Non appena oltrepassato il maleodorante rio S'Eligheddu, i cerchioni muniti di spessi copertoni Regina acceleravano sullo sterrato e le dinamo in ferro cromato, che alimentavano con più energia la fioca luce dei fanalini, ronzavano discrete simili alle falene nella bella stagione, che si inoltrano nel buio spavalde, spinte da un richiamo misterioso.

Ifurtivi ciclisti incassavano la testa fra le spalle, sperando di non essere riconosciuti dagli scugnizzi delle case popolari, che all’imbrunire, al segnale convenuto dell’unico lampione accesosi in puntuale ritardo, si rannicchiavano trattenendo il respiro presso i piloni del Ponte di Ferro, facendo la posta come ai cinghiali.

Causa e meta di quell’insolito vai e vieni fuori orario nel cupo della notte era “S’Isula ‘e Leppereddu”, tradotto letteralmente “L’Isola del leprotto”, da sempre e quasi sempre “Isola Lepre” sulle carte ufficiali. Forse in tempi remoti ci saranno state pure le lepri, o i conigli selvatici, nell’isoletta malinconica antistante al cimitero di Via Roma. Sennò quel nome i vecchi e pragmatici terranovesi non glielo avrebbero mica appioppato. È certo però che, già nel primo dopoguerra, di leporidi all’Isola Lepre non c’era rimasta più neanche l’idea.

Eppure, quando un odoroso giorno di maggio, mezz'ora dopo che il sole si era accomiatato infilandosi dietro Monte Pino, Luìsu il bracciante, soprannominato Calèschidu, lo scapolone che prima di scendere ad Olbia per trovare uno straccio di lavoro aveva lasciato gli incisivi superiori in una scazzottata nella piazzetta di Torpé, colui che andava a smaltire le sbronze nell’unica camera affittata senza nemmeno la corrente elettrica, quando Calèschidu –si diceva- inforcò la bici, avviandosi nella solita direzione per dilapidare la paga settimanale, Marieddu, il fido compagno di bevute, che stava in piedi a puntellare con la spalla destra lo stipite d’ingresso alla bettola, gli urlò sguaiato ed ammiccante: “O Caleschidu, e inùe ses andende de pressa a cust’ora? (trad. “O Gongolante, e dove stai andando di fretta a quest’ora?”), Luisu, non voltandosi e senza smettere di pedalare, fingendo anzi di riavvitare il campanello della bici, replicò grave, accigliandosi in una solennità non sua: “A lepperare so’ andende.” (trad. “A cacciare lepri sto andando”). Dalla bettola intera, stipata come un barile di sardine nel sabato di vigilia della festa patronale, esplose repentino un boato scomposto e complice di risate, facendo sobbalzare un gruppetto compatto di quattro malcapitate pie donne del comitato festeggiamenti, che a passo svelto svelto rientravano dalla chiesa, finalmente completati gli addobbi per la messa solenne. Nel parlare in codice degli avventori etilisti del localaccio, il dichiarare infatti di aprire la caccia alla lepre senza portare con sè la doppietta a tracolla, significava solo andare nella riserva la quale, seppure portava il toponimo del velocissimo roditore, per contro offriva ben altro genere di selvaggina. Forse, a questo punto, il lettore nemmeno troppo perspicace avrà facilmente inteso a quale genere di attività venatoria ci stiamo riferendo.

L'Isola Lepre nella foto area IGM degli anni 1954/55[/caption]

Intorno alla metà dello scorso secolo era successo qualcosa di inedito ed importante per la storia insediativa dell’Isola Lepre, circondata oggi dalla peschiera ed il cui silenzio, fin dalla creazione del mondo, era stato rotto solo dal monotono canto della folaga e dallo starnazzare dei fenicotteri rosa. Strappata la concessione al demanio, una piccola comunità femminile cominciò ad insediarvisi in forma stabile e non abusiva. Presto tutti seppero e non seppero, nella Olbia che fu dei primi anni Cinquanta, ma per i più opposti motivi nessuno restò indifferente. Nelle buone famiglie l’argomento era un tabù a tavola; ma come accade sempre nel momento in cui si affaccia all’orizzonte un nemico femminile esterno, la quotidiana rivalità di genere si convertì repentinamente in ferrea solidarietà, ad affinare la capillare rete informativa - in sé già efficacissima pur senza smartphone ed internet – e ad incentivare la vigilanza sociale ed i controlli incrociati su familiari, affini, amici e vicini, e chi più ne ha più ne metta.

A proposito della comprensibile interdizione a parlare dell’argomento, non senza nostra sorpresa un’anziana e proba signora di antica famiglia olbiese ha prontamente liquidato l’intervista telefonica con un monito secco: “Scrivi sull’argomento e ti troverai contro mezza Olbia!”. In effetti –così ci pare di capire- se in quel periodo metà degli olbiesi andava all’Isola Lepre (ed è a questi che l’ottuagenaria signora senz’altro si riferiva), l’altra metà cercava morbosamente di scoprire chi ci andava. E siccome anche la curiosità è peccato, meglio per molti metterci una pietra sopra definitivamente, e cancellare un imbarazzante dettaglio della recente storia sociale. Ma per noi è diverso: anche questa è storia, nel bene o nel male, e va ricostruita. Ora però entriamo nell’argomento in modo un po’ meno implicito.

Il piccolo e sordido lupanare di due stanze, che durante il Ventennio sorgeva nella zona oggi corrispondente all’officina del gommista Gottardi, in via Redipuglia, nel primo dopoguerra divenne eccessivamente attiguo a un abitato che cresceva inesorabilmente come la clientela. Onde garantire maggiore riserbo, favorendone i guadagni, nei primissimi anni Cinquanta il titolare della concessione (il suo nome è top secret) dovette trasferire l’attività in un luogo più appartato, quantunque raggiungibile senza particolari disagi. Fu così che l’Isola Lepre, di proprietà demaniale, posta nell’ancora selvaggio Poltu Cuadue fino ad allora raggiungibile esclusivamente in chiattino, offrì le condizioni ideali.

La sala d'attesa di una casa di tolleranza degli anni Cinquanta (località non precisabile)[/caption]

Era il tempo delle “case chiuse”, dove il “mestiere più antico del mondo” era regolato dallo stato (che ne aveva i suoi introiti) con una normativa risalente, pur con successivi ritocchi, addirittura ai tempi di Camillo Benso conte di Cavour. Per vari motivi, per scrivere queste brevi note non abbiamo ancora svolto ricerche di archivio sulle due case di tolleranza ufficiali a noi note per Terranova-Olbia. Ciò però non ci preoccupa più di tanto: si sa infatti che un così delicato aspetto della storia sociale può sì partire, ma non basarsi sulle scarne notizie statistiche eventualmente reperibili negli archivi storici delle prefetture. Al momento ci occuperemo pertanto solo della memoria storica locale ricavabile dalle interviste, che in questa torrida estate abbiamo iniziato a raccogliere preliminarmente per Olbiachefu. Lavoro non facile, giacché omertà e cesure, o meglio censure, cadono ancora come mannaie sullo scabroso argomento. Scattano, in altre parole, meccanismi di selezione nella memoria collettiva, con dinamiche complesse, attinenti ai dispositivi automatici di sorveglianza sociale del recente passato della comunità. Le cause di tutto ciò sono ovviamente arguibili, ma solo in parte. In altri casi l’interpretazione di tutto ciò potrebbe essere meglio data dal sociologo o dall’antropologo, o da un bravo e preparato sacerdote.

Per conoscere la fisionomia dell’insediamento dell’Isola Lepre dovremo adesso partire dai pochi documenti fotografici in nostro possesso. Il primo è una cartolina coeva agli anni in cui il lupanare dell’Isola Lepre era nel pieno dell'attività. Si tratta di una cartolina in bianco e nero delle edizioni Carlo Rasenti, viaggiata al 23 maggio 1956. L’inquadratura, presa da sud, non avrebbe in sé nulla di straordinario, nondimeno diventa indispensabile allo scopo, poiché immortala il recesso più intimo della laguna olbiese, con il molo Brin e il lungo molo per lo scalo dell’Isola Bianca che restano in secondo piano. Fra il disordine sparso di isolotti e scogli affioranti inframezzati dal lungo muro artificiale della peschiera, ecco l’Isola Lepre, posta al centro dell'inquadratura con la sua forma allungata e bassa, dove spicca la presenza di un piccolo complesso di costruzioni (cerchiato in giallo). L'ingrandimento del dettaglio ad alta risoluzione, che presentiamo nell'immagine successiva, rappresenta ancora la migliore documentazione fotografica disponibile sulla casa di tolleranza.

Dettaglio ingrandito dell'immagine precedente, dove si apprezza con sufficiente chiarezza il complesso di edifici della "casa chiusa" dell'Isola Lepre.[/caption]

Riconoscibili quattro costruzioni di varia dimensione, disposte a semicerchio intorno al piazzale che si apre al termine della stradina sterrata di accesso. Agli edifici di varia tipologia, uno dei quali ricorda uno stazzo gallurese, si aggiunge poi una casupola più isolata con tetto a una falda, forse adibita a ripostiglio per gli attrezzi o a pollaio, o per ambedue gli scopi.

Non rientra nell’inquadratura della cartolina Rasenti la strada-istmo artificiale creata appositamente per raggiungere l’isola, oggi data per scontata, ma ancora inesistente nella cartografia degli anni precedenti, come ad esempio in quella dell’Istituto geografico militare dell’anno 1931, di cui riportiamo lo stralcio particolare qui sotto.

Stralcio della tavoletta IGM in scala 1:25000 del 1931. Si nota l'isola Lepre ancora priva della strada di accesso.[/caption]

Se la ristretta comunità che alloggiò nello sciatto aggruppamento di edifici non arrivò mai alla piena autonomia dell’autoconsumo, tuttavia non mancavano galline e uova fresche -così ci raccontano- e nemmeno qualche maiale all’ingrasso i cui stalli in muratura restano ancora nella costa nord dell’isoletta. Doveva esserci anche qualche capra per il latte, sicuramente un piccolo orto per la verdura fresca ed un improvvisato attracco nel versante meridionale dell’isolotto, come dimostra il chiattino ormeggiato nel dettaglio ingrandito della cartolina. Testimonianze orali di anziani ci riferiscono che questo era un altro modo alternativo, ritenuto più discreto, per sbarcare nell’isola del peccato, lontano da occhi curiosi.

Si ha memoria che un certo zio Girolamo –già avanti negli anni- fosse l’unico uomo della comunità nel primissimo periodo, ingaggiato per l’incorruttibile riservatezza, per le indubbie qualità di fidato guardiano del luogo e primo controllore degli accessi con specifici compiti (quale ad esempio respingere gli adolescenti più sviluppati fisicamente che se la tentavano), di esperto factotum e all’occorrenza, roncola alla mano, di buttafuori per qualche ubriacone spiantato ed arrogante. Alto ed un po’ allampanato, discretamente garbato con tutti, lo si incontrava frequentemente allorché andava a comprare il necessario qua e là nelle botteghe di piazza, sempre col manico del cestello in vimini ciondolante dal gomito piegato e con l’immancabile bonètte di velluto calcato in testa a nascondere la tardiva calvizie. Dopo le maestralate di novembre zio Girolamo, che in gioventù aveva fatto il vignaiolo a cottimo nella Gallura più profonda, sfregava con studiata liturgia la maestosa ramazza di saggina sul piazzale. Ogni giorno tirava su l’acqua salmastra della cisterna che ancora si vede subito a destra, oltrepassati i pilastri del cancello d’ingresso in ferro battuto, presto trafugato da malandrini non appena la casa di tolleranza cessò le attività, e che a tarda notte zio Girolamo chiudeva fragorosamente con doppia mandata. Era questo il segnale che tutti se ne dovevano andare a nanna, chi dentro e chi fuori, e non ce n’era per nessuno.

Cartolina della fine anni Sessanta dove si osserva bene l'insediamento dell'Isola Lepre, al tempo già abbandonato.[/caption]

Il piccolo insediamento fu tirato su di fretta e nella massima economia, conferendo all’insieme una sensazione di squallore generale che viene unanimemente avvalorata dai testimoni diretti. Un attempato signore che da ragazzo varcò il cancello proibito ci ha descritto infatti il posto con un laconico “due catapecchie”. Il solo edificio che offriva un minimo di decenza era forse quello dove risiedettero le duetenutarie succedutesi in quel periodo. Tralascio per ovvie ragioni di riferirne nomi e cognomi, pur rientrando l’incarico nel ruolo di pubblico ufficiale: ènoto che i postriboli godevano di regolare concessione dello stato, pagando allo stesso regolari tasse per ottenerla e per l’esercizio dell’attività. Oggi la casetta separata della tenutaria -terza da sinistra nell’ingrandimento-, seppure rimaneggiata in seguito, è l’unica in parte conservata. Tutte le altre abitazioni, che vediamo chiaramente in un'altra cartolina a colori di fine anni Sessanta, usata per la copertina del nostro articolo, vennero abitate da tre famiglie a partire dal 1965 fino agli anni 1972/73, poi sgomberate per essere abbattute in quanto pericolanti. Negli anni Novanta un pastore vi faceva pascolare qualche smunta pecora, finché nei primi anni Duemila l'isola vide sorgere sui pochi ruderi rimasti una baraccopoli abusiva dove, in condizioni igieniche raggelanti si rifugiarono una ventina di rumeni, tollerati finché per causa loro non si sviluppò un incendio. Così, nel novembre 2006, dovettero entrare in azione le ruspe comunali, che spianarono la bidonville liberando l'area. Fu questo il primo inizio di una lunga procedura di recupero dell'Isola Lepre che finalmente sta arrivando al traguardo finale con il riscatto della proprietà demaniale regionale da parte del Comune, per il simbolico prezzo di un euro. Per chi visita oggi il luogo, una sorta di biblica damnatio memoriae sembra però ancora incombere, grave, sul luogo.

I pochi resti della dimora della tenutaria della casa di tolleranza dell'Isola Lepre (foto M. A. Amucano)

Là, nella casa della tenutaria, doveva esserci la camera d'attesa dove, con prassi resaci abbondantemente nota da letteratura e film, avveniva l’incontro dei clienti con le “signorine” e la successiva scelta, prima di appartarsi nelle rispettive stanze. Il costo base, da pagare anticipatamente alla tenutaria-cassiera, che rilasciava come ricevuta il tagliandino o “marchetta”, si aggirava intorno alle trecento lire o poco di più, a seconda del tempo e del tipo di prestazioni richiesti. Il numero delle prostitute professioniste regolarmente schedate era di tre, massimo quattro unità nei momenti migliori.

Ogni azienda, si sa, piccola o grande che sia, ha il suo marketing, e giacché è dogma del commercio esibire la mercanzia ai potenziali clienti, onde scatenarne il desiderio dell’acquisto, ecco che si organizzavano periodicamente dei “giri promozionali” in carrozza aperta per le vie più affollate di Olbia. Agghindate in modo inconfondibilmente provocante, vistosamente truccate, col cappellino in testa, impellicciate d’inverno ed aspirando la sigaretta attraverso lunghi bocchini (a chi fa notare che questo accessorio non era più di moda negli anni Cinquanta, suggeriamo di riguardarsi Audrey Hepburn nel film “Colazione da Tiffany”), gli indimenticati, felliniani giri in carrozza ottenevano in genere –dopo i triviali apprezzamenti nelel strade- risultati immediati, incrementando gli avventori dalla sera stessa.Si ricorda anche di un’avvenente “signorina” che, appena sbarcata con tutti i bagagli all’Isola Bianca, venne caricata nella solita carrozza che, prima di scendere per Via Regina Elena, sostò strategicamente in Piazza Regina Margherita, cuore pulsante della vita commerciale, sociale e del pettegolezzo. Quale modo migliore per rendere noto all’attenzione di tutti l’arrivo di una nuova entrée continentale all’Isola Lepre?

L'Isola Lepre oggi nella foto satellitare di Google Earth. Si riconoscono le poche tracce residue dell'insediamento[/caption]

Ma vi erano anche le “signorine” nostrane, autoctone intendiamo, che per tristi quanto immaginabili ragioni di povertà e degrado sociale finivano per esercitare nella casa chiusa dell’Isola Lepre. Una bella ragazza olbiese, cui cambieremo il nome in Gavina, divenne presto la più ricercata, estendendosi il passaparola su di lei fino ai più remoti ovili delle Barbagie. All’inizio nessuno seppe in città, o meglio, generalmente chi aveva saputo taceva, essendo più prudente e comodo tacere, per non dovere poi giustificare il fatto di sapere. Si sa anche però che in Sardegna il miglior modo per diffondere un segreto dal Capo di Sopra fino al Capo di Sotto è di confidare un segreto facendosi giurare di mantenerlo, il segreto. Fu così che Gavina venne cacciata di casa paterna come una cagna rognosa, rinnegata come figlia e sorella e costretta dal giorno a risiedere stabilmente all’Isola della Lepre fino alla famigerata legge Merlin del 1958, che come tutti sanno chiuse definitivamente le case di tolleranza e lo scandalo –secondo i latori della legge- di uno stato che sulla prostituzione ci lucrava. Gavina emigrò allora a Genova, dove per qualche tempo ancora esercitò il mestiere in privato, fino a redimersi sposandosi felicemente col ricco rappresentante di una grossa impresa. Così accadde successivamente anche per altre delle ragazze schedate all’Isola Lepre, che seppure non sposando uomini altolocati, come capitò alla fortunata Gavina, riscattarono una vita di estremo squallore che avrebbero volentieri fatto a meno di scegliere.

A questo punto il lettore si chiederà: “E i clienti?”. Si risponderà senza poter dire troppo, e sicuramente senza fare nomi, il lettore comprensivo capirà. A parte qualche eccezione, in genere la clientela dell’Isola Lepre era -come immaginabile- di livello sociale alquanto basso, seppure eterogeneo per geografia e classi di età. A differenza dei pedalatori (non solo, ma anche dei camminatori, vespisti, lambrettisti, ecc.) notturni, chi varcava il cancello proibito dell’Isola Lepre alla luce del sole non si poneva troppi problemi di riservatezza. Anzi.

Dai canti a squarciagola degli euforici marinai di leva in libera uscita, che all’andata si sporgevano dalla carrozza agitando in aria i berretti d’ordinanza, e che dopo un paio d’ore se ne tornavano mogi mogi in capitaneria, si passava agli allevatori ruspanti calati dagli altipiani o divenuti nel frattempo stanziali nell’agro olbiano, che si presentavano all’isola Lepre con la tradizionale forma di pecorino stagionato sotto braccio, sempre molto apprezzata. E poi clienti di ogni età, anche giovanissimi studenti andati là per il tradizionale, quanto goliardico “rito d’iniziazione”, accompagnati spesso da un fidato ed esperto parente o amico. Si racconta al riguardo che alcuni studenti dell’appena costituito istituto tecnico per geometri furono riconosciuti nientemeno che dall’austera preside, che avendo appena acquistato una casa antistante all’ingresso all’isola, quel pomeriggio spiava stando alla finestra della cucina con un potentissimo cannocchiale del marito, vigilando–come spesso suo solito- sui retti costumi degli alunni dell’ultimo anno (e non solo). La famiglia di uno fra questi ne venne prontamente informata e dal giorno, ogni giorno, al rientro a casa dopo lo struscio al corso, il ragazzo un po’ esuberante veniva puntualmente annusato negli abiti dalla mamma o dalle sorelle che ne facevano le veci, per individuarne le sospette tracce di eau de toilette femminile, e senza che il giovanotto riuscisse subito a collegare i motivi della novità di quei severissimi check-in d’ingresso.

Isola Lepre. Resti della cisterna dell'acqua (foto M. A. Amucano)[/caption]

Fra tanti aneddoti registrati è degno di essere raccontato quello di uno degli scugnizzi delle case popolari, sì, proprio uno di coloro che facevano la posta sotto il Ponte di Ferro, il quale, spinto dal dubbio cui conseguì un’irresistibile curiosità, aveva osato recarsi a notte fonda fino all'accesso all’Isola Lepre, per acquattarsi celato dietro un grosso lentischio, in attesa che uscisse una persona che aveva visto recarsi nella direzione un'ora prima. Tradito da uno starnuto –laggiù cala una certa umidità dopo il tramonto– e riconosciutisi reciprocamente maestro ed alunno, a rimetterci fu naturalmente il discepolo ficcanaso, su cui l’uomo scaricò tutta la sua rabbia per essere stato scoperto con un’interminabile, quanto sonora passata di calci nel didietro. La questione finì là, col solenne giuramento di non dire nulla a nessuno di quanto visto: primo, per non buscarsi un’altra dose ancora più massiccia di calci nel medesimo luogo; secondo, per non correre il rischio di portarsi a casa una bella “zucca” a fine anno scolastico. La minaccia ebbe il suo esito positivo. E il bambino detective è stato bravissimo a mantenerlo, quel giuramento fatto tra le lacrime, se ci sono voluti ben oltre sessant’anni per infrangerlo.

©Marco Agostino Amucano

Ringraziamenti particolari vanno a Mario Spanu Babay e Maurizio Casula per la dovizia di notizie raccolte. Ringrazio tutti i testimoni diretti o indiretti del tempo che con i loro racconti hanno consentito la prima ricostruzione di questo aspetto della memoria storica di Olbia: per loro esplicita richiesta e/o per discrezione, i loro nomi non verrano pubblicati.