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Calure d’inferno e zanzare fatali. L'incubo del luglio terranovese in una poesia di Francesco De Rosa

Calure d’inferno e zanzare fatali. L'incubo del luglio terranovese in una poesia di Francesco De Rosa
Calure d’inferno e zanzare fatali. L'incubo del luglio terranovese in una poesia di Francesco De Rosa
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 10 July 2016 alle 10:19

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OLBIA, 10 luglio 2016 Quelli dedicati ai dodici mesi dell’anno sono forse tra i più conosciuti ed apprezzati componimenti in gallurese della vasta produzione poetica di Francesco De Rosa (Terranova Pausania, 15 novembre 1854 – 5 gennaio 1938), uno degli uomini di cultura più eclettici e brillanti che la nostra città ebbe tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX (1). Le poesie comparvero nella raccolta Aure fresche di Limbara. Poesie in dialetto gallurese, pubblicata a Terranova Pausania dal tipografo-editore G. Santucci nell’anno 1928. Il volumetto raccoglie cinquanta composizioni molto varie per soggetto e forma, che oltre alla sensibilità e alla profonda cultura classica dell’autore rivelano la grande padronanza dei vari generi di composizione poetica, della versificazione e dell’uso sapiente delle varie figure retoriche. Qualità e competenze non comuni, queste, che Francesco De Rosa non sfoggiò unicamente nella parlata gallurese, ma -in altre sedi- anche nella lingua italiana (che, come maestro elementare, insegnò per tutta la vita, rimanendo ancora nella memoria di molti col soprannome di Mastru Ziccu) e nelle poesie in dialetto sardo-logudorese usato in Terranova, molte delle quali firmò sotto lo pseudonimo di Franco Saredo.

[caption id="attachment_62070" align="aligncenter" width="350"]De Rosa ritratto001 - Copia Una delle ultime immagini di Francesco De Rosa[/caption]

A partire dal corrente mese di luglio, noi di Olbiachefu abbiamo deciso di ripresentare le poesie dedicate ai dodici mesi dell’anno, e lo faremo com’è ovvio al ritmo di una al mese. L’operazione non è assolutamente nuova: una ventina di anni fa -forse anche qualcuno in più, se male non ricordo- fu pubblicato un calendario a tiratura limitata dove le poesie sui mesi dell’anno vennero riproposte, riscontrando un notevole successo locale. Noi vogliamo riproporle ancora, nondimeno corredandole di traduzione per coloro i quali, pur vivendo ad Olbia, il dialetto gallurese non lo praticano per vari motivi, anzitutto di provenienza alloctona. Abbiamo altresì scelto di elaborare un commento solo in minima parte letterario, preferendo utilizzare il testo come documento storico e antropologico di un mondo che le giovanissime generazioni nemmeno sanno immaginare. I versi del De Rosa sono infatti anche per noi ricchissimi di informazioni su usanze e costumi locali scomparsi, nonché riflesso di un’epoca che ci appare lontana, ma non troppo, e come è ben lecito aspettarsi dall’autore del notissimo Tradizioni popolari di Gallura (2).

Agljola (3)

Cun calori d’infarru ʼen’agljola

a tulmintà li poari multali.

Frebbi ci polta cun maggjori mali;

foltunatu po’ dissi ca’ si scola.

La gjenti ricca pò scampani sola

la punta di li zinzuli fatali

in balconi punendi o in pulticali

teli di farru, o altu undi no cola.

E lu massaju intantu si cunsola

triulendi i’ li roti; ma chi vali

si di lu ch’accoddhi la padda tricali

li resta solu, e l’altu si ni bola?

Currini a l’agabbata di la scola

a natà li sculani tutti gali;

no pal cilcà curassi di li mali,

ma pal gudì la libaltai sola.

Traduzione (4): Luglio

Viene luglio con calura d’inferno / a tormentare i poveri mortali. / Ci porta la febbre con maggiori mali; / può dirsi fortunato chi ne esce illeso. / Solo la gente ricca può evitare / il pungiglione delle zanzare fatali / disponendo nella finestra o nel loggiato reti metalliche, o altro attraverso cui (la zanzara) non passa. / E intanto il contadino si consola / trebbiando nelle aie; / ma a che serve se di ciò che raggranella non resta che la paglia del grano, e il resto se ne vola via? / Nell’ultimo giorno di scuola corrono / a nuotare tutti insieme gli scolari; / non per cercare di curarsi dalle malattie, / ma soltanto per godere la libertà.

Per la poesia l’autore predeterminò quattrostrofe, composta ognuna di altrettanti versi endecasillabi (cioè di undici sillabe poetiche), con rime A-B-B-A per strofa (ossia: –ola -ali –ali -ola). Luglio è temuto come portatore di caldo infernale e malattie, prime fra tutte le febbri malariche, da cui non era facile difendersi, soprattutto per la povera gente, spesso priva delle possibilità economiche di acquistare i costosi farmaci composti a base di chinino. Che la malaria, causata dal plasmodio veicolato dalla zanzara Anopheles, fosse all’epoca la più diffusa patologia della Sardegna è provato dai censimenti sanitari, riportati in una pregevole e fondamentale monografia di Eugenia Tognotti, da cui traiamo le informazioni che seguono (5). Per fermarci al solo 1928, anno della pubblicazione di Aure fresche di Limbara, i casi di malaria denunciati complessivamente per tutta l’isola furono 104.628, il più elevato fra le regioni italiane, di cui 17.008 per la sola provincia di Sassari.

[caption id="attachment_62080" align="alignright" width="2208"]bonifiche terranova da tognotti 001 Tavola tratta da E. TOGNOTTI, cit,, p. 164[/caption]

Poco aveva beneficiato Terranova Pausania -ironicamente ribattezzata Terranova Pagu Sana (poco sana) dai suoi abitanti- delle bonifiche delle paludi di Colcò (38,8 ettari) e Salineddas (presso l’attuale campo Fausto Noce, 2,4 ettari) e dello scavo dei relativicanali di smaltimento idraulico. Infatti la scarsa manutenzione di questi e dei fiumi naturali oggi, come ben sappiamo, inglobati dallo sviluppo dell’abitato, portava alla progressiva crescita della vegetazione, che a sua volta favoriva la creazione di pozze di acqua stagnante nei mesi estivi, stabilendo le condizioni ideali per il deleterio ciclo proliferativo della Anopheles. Al di là del fatto che la cittadina di Terranova continuava comunque ad essere contornata da paludi (in una di queste, presso l’attuale Piazza Crispi, mio padre raccontava che al tempo di De Rosa si cacciavano le anatre) il caso di Terranova veniva portato come esempio da igienisti e osservatori nazionali, i quali denunciavano infatti l’inefficacia dei lavori di bonifica idraulica attuati in età giolittiana ai fini del risanamento igienico-sanitario. Si capisce ora perché De Rosa abbia dedicato metà della poesia proprio al problema delle febbri malariche e delle “zinzuli fatali”.

sardegna-nuoro-costumi-sardi-la-trebbiatura-nel-nuorese-2_thumb[2]

La terza strofa è dedicata alla trebbiatura tradizionale del grano nell’aia, in gallurese “agliòla”, attività che non a caso equivale alla denominazione gallurese del mese a cui la poesia è dedicata. Anticamente, dopo la mietitura, scegliendo possibilmente una giornata ventosa, le biche di grano o di avena (li fascàgghj) venivano ammassate con ordine per la trebbiatura (trìula) nell’aia tradizionale o, se passiamo agli stazzi, in appositi spazi circolari (li roti) rusticamente lastricati e perimetrati con un basso muro di contenimento. In genere, meglio che della faticosa battitura manuale con appositi strumenti, coppie di buoi, asini o cavalli trascinanti un grosso masso venivano fatti passare più volte sopra il grano accumulato, e pestavano così le spighe per liberare i chicchi. Nella fase successiva la separazione definitiva dei chicchi dalla paglia avveniva sollevando in aria la pula con delle pale o dei forconi (vintulà, palià lu tricu): il vento allontanava così la paglia, più leggera, mentre i chicchi, più pesanti, ricadevano nuovamente all’interno de li roti per essere raccolti ed insaccati (vedi immagine successiva). Questa pratica di trebbiatura tradizionale, arcaica e fisicamente impegnativa, durò fino agli anni Cinquanta, dopo i quali si affermo l’uso della macchina trebbiatrice (6). A sottolineare con l’ironia sua tipica la fatica enorme, sproporzionata rispetto al prodotto finale, De Rosa usa un paradosso: a volare via sono i chicchi del grano e non resta che la paglia.

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La scena finale, gioiosa e serena, dell’ultima strofa, è quella a cui Mastru Ziccu dovette assistere molte volte nella sua lunga carriera di maestro elementare. Suonata la campanella dell’ultimo giorno di scuola, gli alunni escono in massa dal Caseggiato scolastico di Corso Umberto, e correndo e urlando per la gioia vanno a festeggiare buttandosi nel mare del vicino “porto vecchio”, distante solo poche centinaia di metri; non per curarsi dai mali, come suggeriva la medicina del tempo, ma solo come festeggiamento gioioso di libertà, o meglio di liberazione. Un uso degli studenti del tempo necessariamente scomparso? Non si sa. Comunque questo era il mese di luglio ai tempi della Terranova Pausania di Francesco De Rosa, circa un secolo fa: niente tintarelle, niente esibizioni sulle spiagge, niente turisti, tante paludi, tante zanzare anofele e tanta malaria. E un popolo che sentiva ancora molto vicina, se non preferita, la cultura contadina finita abbandonata e dimenticata nel secondo dopoguerra, come lo è oggi anche la stessa malaria.

[caption id="attachment_62073" align="aligncenter" width="806"]Olbia porto Il porto di Terranova Pausania in una foto degli anni Venti. Sullo sfondo il Caseggiato scolastico, costruito nel 1911.[/caption]

1 Per la biografia e le opere di Francesco De Rosa ci permettiamo di rimandare a M. A. AMUCANO, Francesco De Rosa. Frammenti di un’opera inedita. Il Quaderno X e le lettere ad Angelo De Gubernatis, Paolo Sorba editore, La Maddalena 2012, pp. 27-70.

2 F. DE ROSA, Tradizioni popolari di Gallura. Usi e costumi, Tempio-Maddalena 1899, riedizione a cura di A. Mulas pubblicata dalla Ilisso edizioni, Nuoro 2003.

3 F. DE ROSA, Aure fresche di Limbara. Poesie in dialetto gallurese, G. Santucci tipografo-editore, Terranova Pausania 1928, p. 95. Il testo originale presenta alcuni vistosi refusi tipografici, che abbiamo provveduto ad emendare.

4 Per la traduzione ci siamo avvalsi del dizionario online Gallurese-Italiano di Tonino Mario Rubattu, http://www.antoninurubattu.it/rubattu/gallurese/Gallurese. Preziosi suggerimenti per la traduzioni di alcuni termini ci sono stati dati da Andrea Columbano, dalla dottoressa Letizia Fraschini e particolarmente dal prof. don Paolo Filigheddu, noto filologo. Chi scrive si assume ogni piena responsabilità per eventuali errori o imperfezioni della traduzione qui pubblicata. Ogni nuovo suggerimento in tal senso sarà graditamente accolto, purché opportuno, competente e strettamente pertinente.

5 E. TOGNOTTI, La malaria in Sardegna. Per una storia del paludismo nel Mezzogiorno (1880-1950, Milano 1996.

6 La descrizione della trebbiatura tradizionale fatta negli stazzi e la relativa terminologia in dialetto gallurese sono state tratte da S. BRANDANU, La civiltà degli stazzi in Gallura, Contributi alla storia dell’habitat disperso, Icimar, San Teodoro (OT), 2007, p. 193s.

©Marco Agostino Amucano