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L' àlea - racconto di Antonio Appeddu

L' àlea - racconto di Antonio Appeddu
L' àlea - racconto di Antonio Appeddu
Patrizia Anziani

Pubblicato il 13 May 2018 alle 00:32

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"Àlea": rischio. Così dice il vocabolario della lingua italiana. Ma la parola non è di origine italiana e se si va a compulsare un vocabolario di latino si scopre che, oltre al significato di "dado - gioco dei dadi", ha anche quello di pericolo. E in italiano rischio e pericolo non sembrano, intuitivamente, avere la stessa portata di azzardo; a molti apparendo uno, il rischio, più facilmente governabile dall'uomo rispetto all'altro, il pericolo.

Leonardo Frais, quella parola, l'aveva sentita anche da bambino. La pronunciavano i grandi, ma solo alcuni. Non si era mai occupato di sapere quale fosse il suo significato, un po' come fanno i bambini con le parole: le memorizzano e le usano senza dare troppa importanza ad esse ed alle sfumature che ogni termine porta con sé e che lo rende uno e molteplice in funzione della collocazione nel discorso e del tema dello stesso. Forse è anche per questo che i bambini imparano meglio e prima a parlare una lingua straniera.

Quando era studente alle medie, la sua attenzione era stata catturata da quel "alea iacta est" che rimandava alle gesta epiche del grande condottiero romano ma, passata la stagione della storia di Roma, il termine era tornato nel dimenticatoio e lì era rimasto per tanto tempo, per molti anni; fino a quando Leonardo non aveva deciso, ormai munito del diploma di geometra e di una certa esperienza nel mondo delle costruzioni edilizie, di tentare l'avventura con la creazione di una piccola impresa edile. In quel tempo, riteneva più grave l'esposizione al pericolo che non al rischio. Non sapeva che la vita gli avrebbe dimostrato il contrario!

Aveva costituito una società e allestito un minuscolo ufficio in uno dei vicoli della Olbia più recente e, grazie alle buone parole di un amico, era partito lancia in resta per ristrutturare un piccolo appartamento, ubicato nel centro storico della città, di proprietà di certo Daniele Sanna e della di lui moglie Francesca Ruiu.

Sessanta metri quadrati da recuperare e restituire all'utilizzo domestico, da rendere fruibili in sei mesi, articolati in cucina, soggiorno, andito, due camerette ed un piccolo bagno. Trentacinquemila euro il prezzo pattuito dei lavori e un acconto di settemila euro: tutto messo nero su bianco, con indicazioni di scadenze, penali e obblighi vari a carico delle parti.

Si era fatto bene i conti, Leonardo: con una spesa massima di trentamila euro avrebbe eseguito i lavori e gli sarebbero rimasti netti cinquemila euro con i quali sperava di acquistare qualche attrezzo per l'impresa e un guardaroba per la sua camera da letto.

Provvide ad assumere una coppia di operai: Giovanni Spano, un muratore di sua conoscenza, ed un giovane manovale che quest'ultimo gli aveva raccomandato. "Non est terranoesu - gli aveva detto - benit da-e Romania. Ma est unu bravu piseddu e ischit trabagliare. Si narat Florian"(1). Leonardo non era stato a pensarci molto: tramite un consulente del lavoro aveva proceduto alle assunzioni e, dopo l'incontro col geometra Filiberto Salini (il direttore dei lavori), era stato avviato il cantiere.

I primi giorni erano passati in fretta, conditi dalla frenesia tipica di chi vuole fare velocemente le cose e intende padroneggiare ogni operazione. Concentrato solo sull'attività edilizia, Leonardo vedeva il fabbricato mutare aspetto sotto i colpi di mazza di Florian e l'opera del muratore. Avevano iniziato con le demolizioni dell'intonaco e del pavimento. Nel frattempo, erano stati ordinati davanzali e soglie, in sostituzione di quelli originali che erano rovinati e non recuperabili. Anche il falegname aveva visitato il cantiere per prendere le misure delle aperture per la fabbricazione delle nuove porte e delle nuove finestre.

Daniele Sanna aveva cinquant'anni, di piccola statura. Lavorava come contabile in una ditta di trasporti. Appassionato di enigmistica, amava bere, la sera a casa, un vino rosato portoghese di qualità scadente ma col nome esotico di Mateus, molto di moda in città negli anni ottanta quando lui, ancora ragazzotto, covava la speranza di poter crescere di qualche centimetro. Aveva conservato la capigliatura giovanile ed anche la pettinatura dei capelli neri era rimasta la stessa: scriminatura a sinistra e consistente frangia sulla fronte. A chi, qualche volta, faceva battute sulla sua statura, era solito rispondere che ciò che il buon Dio gli aveva tolto in altezza glielo aveva restituito in intelligenza e, soprattutto, in chioma. E proprio in virtù di questa chioma era solito prendere in giro un collega di lavoro che i capelli li aveva persi quasi tutti. Costui, un giorno, davanti a tutti i dipendenti dell'azienda e suscitando una collegiale risata, gli aveva ricordato, sorridendo, che quelli che non perdevano i capelli sono solo "sos ainos e sos cozones"(2).

Si era convinto, il Sanna, di avere un carattere buono e, in considerazione di ciò, alla messa domenicale, a cui partecipava tassativamente con Francesca, faceva regolarmente cadere un gruzzolo di monete nel cestino delle offerte. Provava un profondo senso di piacere, quasi un vero e proprio godimento, nel sentire le monetine cadere sul fondo del piccolo contenitore e nel suo intimo si sentiva un benefattore della società. Chissà, pensava, quanto gradiva quei gesti Nostro Signore! Ma tanto era pronto, ogni domenica, a versare l'obolo alla parrocchia, quanto era attento ai conti di casa nel resto della settimana. La stessa consorte rinunciava a fare la spesa con lui tanto era esagerato il suo attaccamento al risparmio negli acquisti domestici. Dopo le prime esperienze fatte insieme al marito, la donna aveva deciso di non occuparsi più del rifornimento della dispensa, tante erano state le figuracce che aveva dovuto sopportare a causa del marito. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso cadde, un giorno in cui, dopo aver chiesto alla commessa di affettargli un etto di pancetta, di cui era ghiottissimo, l'uomo aveva preteso che dal costo venisse detratto quello relativo al peso della carta. Alle rimostranze della ragazza, che non poteva modificare le impostazioni del registratore di cassa, con tutta la clientela assiepata in fila dietro di lui, aveva alzato la voce gridando "non lavoro dieci ore al giorno per essere turlupinato al supermarket. Scriverò al sindaco". E gli aveva scritto, facendo ridere tutti i dipendenti comunali che, in copia, avevano ricevuto l'epistola dal pasquino che a volte alberga negli uffici pubblici. Dopo quella vicenda, diventata naturalmente di pubblico dominio, la moglie si era rifiutata di entrare al market con lui.

Con cadenza quasi giornaliera, Daniele si recava nel cantiere della sua futura dimora. Faceva una visita veloce, come quelle che Fanfani faceva alle mostre dei quadri, salutava con un cenno del capo gli operai e chiedeva di Salini. Quando c'era, si fermava a parlare col direttore dei lavori che, detto per inciso, era stato suo testimone di nozze e che aveva incaricato non tanto per stima professionale quanto perché, dato il rapporto familiare, sperava di non dover pagare la prestazione professionale.

Fu nel corso di una di queste visite che, insieme al compare, notò una piccola macchia di umidità nel pavimento. Venti centimetri di diametro, posta sul bordo del muro del piccolo andito, si notava solo quando il sole entrava nella minuscola finestra che dava luce al vano. In quel momento, i lavori in contratto erano quasi terminati e, per la consegna della casa riattata, mancavano solo alcune opere di finitura: una settimana di lavori e la casa sarebbe stata bella e pronta.

La vista di quella macchia fu, per lui, una specie di pugnalata al cuore. Un pavimento nuovo, così bello, compromesso da quell'orribile alone di umidità. Era una visione che mai si sarebbe aspettato di dover sopportare! La moglie cercava di calmarlo, gli diceva che c'era sicuramente un modo per risolvere il problema, che l'impresario avrebbe trovato il sistema per eliminare quel pregiudizio; ma lui sembrava in preda ad un attacco di panico: sudava e si sentiva soffocare. Forse ci voleva il medico. Sì, sì, bisognava che lo accompagnasse dal medico. E dal medico, la moglie, lo portò: misurazione della pressione, poche gocce di benzodiazepina e il Sanna era tornato nuovo.

Rientrato a casa, al telefono, chiese ragioni del danno al compare direttore dei lavori. Questi, in un primo momento, tentò di minimizzare il fatto dicendo che poteva trattarsi di un po' di umidità rimasta dopo l'esecuzione del pavimento. Sarebbe andata via una volta che gli ambienti si fossero asciugati bene. Ma lui non si convinse e rispose che bisognava andare a fondo per capire la causa di quella macchia di umido. Mica poteva andare ad abitare in una casa malsana! D'altronde, lui, i soldi all'impresa glieli dava buoni e buono doveva essere il prodotto dell'impresa. Per cui niente tentennamenti: l'impresa doveva smantellare il pavimento e eliminare la causa dell'umidità. D'altra parte, il contratto che aveva firmato prevedeva una clausola secondo la quale l'impresa si impegnava a eliminare, a proprie spese, ogni e qualunque pregiudizio all'immobile manifestatosi nel corso dei lavori.

Fu così che, a pochi giorni dalla prevista chiusura del cantiere, Leonardo ricevette un'insolita raccomandata il cui mittente risultava il geom. Filiberto Salini. "Che bisogno aveva di scrivermi - pensò - mi vede ogni giorno. Se aveva qualcosa da dirmi lo poteva fare guardandomi in faccia". Ma, ormai, quella lettera era lì, davanti a lui e, per sapere cosa contenesse il messaggio, bisognava aprire la busta. Strappò il bordo della busta, estrasse il foglio e lesse: "...pertanto, si intima all'impresa in indirizzo di fermare immediatamente i lavori e di procedere, a sue spese, alle operazioni necessarie per eliminare la causa di detta umidità!".

- Mi scusi geom Salini, disse Leonardo, io, in base al computo metrico-estimativo che lei mi ha fornito, ho provveduto a smantellare il pavimento originario ed a sostituirlo con quello nuovo scelto dal suo cliente. Se adesso mi chiede di rimuovere il pavimento mi pare anche giusto che questo lavoro mi venga compensato.

- Veda Leonardo, il suo ragionamento ha certo una sua logica, ma il contratto prevede che la lavorazione sia a suo carico.

- Quindi le sembra giusto che io debba spendere i miei soldi per eseguire un lavoro non previsto dal contratto e la cui causa poteva essere individuata in precedenza se solo lei avesse eseguito le necessarie indagini prima che mi fosse consegnato il cantiere?

- Io posso solo applicare la clausola contrattuale. Il rag. Sanna, sotto questo punto di vista, è inflessibile.

Leonardo, quando al pomeriggio chiudeva il cantiere, non aveva l'abitudine di ripensare al lavoro. Rientrava a casa e si recava in una piccola stanza dove aveva allestito una scrivania per la pratica della sua passione principale: la collezione di farfalle, che aveva iniziato ad allestire quando, ai tempi delle scuole medie, un'illuminata insegnante di scienze lo aveva portato in campagna insieme ai compagni di classe e, con l'ausilio di un coppino, aveva catturato alcune farfalle per spiegare ai ragazzini il meraviglioso mondo dei lepidotteri. Finita la lezione, Leonardo era stato l'unico a voler prendere la scatola con le farfalle che, col permesso della professoressa, aveva portato a casa. Da quel giorno, aveva avviato la sua carriera di collezionista di barabattulas (3) che lo aveva portato in giro per tutta la Sardegna alla ricerca di specie rare o a lui simpatiche. Dopo le prime catture, però, aveva capito che non era giusto costituire la collezione con gli scheletri degli insetti catturati e, così, aveva sostituito il corpo della farfalla con la sua fotografia. La collezione, così, era diventata una grande album fotografico di farfalle. Ce n'erano di tutti i colori e di tutte le forme, ritratte da diverse angolazioni e collocate nei luoghi più disparati: muri, rami di alberi, fiori, tetti di case. Un carosello di forme e colori che spiegava bene, a lui costruttore di case, quanto la natura sia più brava dell'uomo nel costruire il bello.

Quel giorno, però, l'amarezza era talmente tanta che, rientrato a casa, trascurò le farfalle e si sdraiò sul divano della sala dove rimuginò tutta la sera sulla vicenda. Grazie a questo cretino di Sanna e a quell'incapace direttore dei lavori avrebbe dovuto smantellare il pavimento e trovare la causa della risalita di umidità dal terreno. Ma come faceva questo Salini a non sapere che Olbia è tutta poggiata su innumerevoli falde idriche e che, nel centro storico, dovunque buchi trovi acqua? Si chiese cosa avrebbe potuto fare lui una volta smantellato il pavimento con annessi e connessi, bucato il terreno e trovato l'acqua. Gli avrebbe dovuto fare un pozzo. Costoro, evidentemente, erano all'oscuro di cosa ci volesse per avere l'autorizzazione ad eseguire un pozzo ad Olbia e per costruirlo.

E ai dipendenti, ci avevano pensato Sanna e Salini? Adesso, col blocco sine die del cantiere, li avrebbe dovuti licenziare e non sarebbe stato facile per loro, vista la crisi dell'edilizia, trovare lavoro il giorno dopo: anche questi avevano famiglia da mandare avanti e affitto di casa da pagare. Ma non solo, non avevano preso in considerazione il fatto che, non chiudendo i lavori, l'immobile non poteva avere l'attestazione di agibilità e, quindi, non poteva essere abitato e, ancora, il Sanna non avrebbe potuto lasciare l'attuale dimora (in affitto) per trasferirsi nella nuova. Ma che razza di testa aveva quest'uomo?

Rimase sveglio tutta la notte, pensando agli operai, a pozzi, falde idriche e pratiche amministrative. Si sentiva amareggiato e raggirato per quella clausola che non aveva ben valutato al momento della firma del contratto. Era, in sostanza, obbligato a pagare con i suoi soldi dei lavori che, per contro, avrebbe dovuto pagare il proprietario della casa. Inoltre, Sanna non aveva ancora saldato il conto del lavoro fin lì eseguito e lui, Leonardo, non avrebbe potuto pagare per tempo i fornitori!

Al mattino chiamò l'avvocato Carta per chiedergli un appuntamento ed esporgli il caso. L'aveva conosciuto, l'avvocato Carta, durante una cena a casa di amici e manteneva con lui un rapporto cordiale ancorché non fossero mai diventati amici. Sessant'anni ben portati, l'avvocato era il classico professionista atterrato ad Olbia negli anni settanta, in pieno boom economico, sempre nostalgico del proprio paese di provenienza del quale tesseva le lodi in ogni circostanza comparando le disfunzioni di Olbia con l'efficienza, a suo dire, asburgica dei servizi del centro natìo. Salvo, poi, come tanti accudidos(4), elogiare Olbia e la sua gente, quando faceva rientro al paese d'origine, fra i familiari e gli amici.

Il giorno dopo, allestito un bel fascicolo con tutti i documenti dell'appalto e la lettera di Salini, si recò nello studio dell'avvocato e gli illustrò nel dettaglio tutta la vicenda.

L'avvocato lo ascoltò in silenzio, lo guardò negli occhi e con voce sicura e suadente disse: lei, se ha ragione sul piano morale, ha torto su quello legale. La clausola che ha sottoscritto è netta. Deve adempiere!

Leonardo rispose che doveva pur esserci una strada per tutelare il suo sacrosanto diritto a non pagare a causa di un'acqua che risaliva dal terreno e che lo faceva per ragioni di cui non poteva farsi carico l'impresa.

Lui, disse ancora l'avvocato, poteva anche tentare una causa e vincerla anche. Ma, si sa, in Italia le cause civili sono talmente lunghe che risultano dannose anche per chi le vince.

- Purtroppo, caro Leonardo, c'è un fattore contro il quale né io, né lei, né la legge possiamo fare alcunché. È un fattore che aleggia sempre sopra le nostre teste, specie quelle di chi ogni giorno deve mettersi in gioco contro le leggi della natura e dell'uomo e, soprattutto, contro la cattiveria e la furbizia di alcuni.

- Ah si? - disse l'impresario - E cosa sarebbe questo fattore così rilevante, questo mostro tanto violento e pericoloso, così nocivo da distruggere la vita delle persone?

- È una cosa da cui nessuna impresa è immune: si chiama àlea. Il rischio!

"L'àlea", ripetè quasi inebetito Leonardo, capendo che, in questa società, dal pericolo ci si può difendere, dal rischio no!

©Antonio Appeddu

Le vicende e i personaggi del racconto sono esclusivamente frutto della fantasia dell'autore e ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.

Note:

(1) "Non è di Olbia, viene dalla Romania. Ma è un bravo ragazzo e sa lavorare. Si chiama Florian"

(2) Gli asini ed i testicoli

(3) Abitanti non nativi

Si ringrazia Maurizio Casula per la foto.

Per leggere il racconto Pinta la legnacliccarequi