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Cronaca

Olbia e il primo paziente: cosa non ha funzionato, perché non si condividono dati sensibili

Olbia e il primo paziente: cosa non ha funzionato, perché non si condividono dati sensibili
Olbia e il primo paziente: cosa non ha funzionato, perché non si condividono dati sensibili
Angela Galiberti

Pubblicato il 09 March 2020 alle 18:36

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Olbia, 08 marzo 2020 - In condizioni normali, quello successo il 7 marzo al Giovanni Paolo II avrebbe potuto essere descritto come un ordinario caso di soccorso all'interno di un presidio sanitario, invece è diventato il primo caso di Coronavirus Covis-19 a Olbia.

Un caso che ha messo in luce tutte le difficoltà che i sanitari, prima linea sul campo contro la malattia, vivono tutti i giorni da quando nel paese di Codogno è stato individuato il paziente 1 d'Italia.

Ciò che trapela in queste ore è difficile anche da raccontare. Perché dietro gesti e racconti ci sono persone, famiglie, paure e la consapevolezza che basta poco a mettere in difficoltà il nostro sistema.

7 marzo, una giornata come tante al Giovanni Paolo II: la gente, fuori dalla tenda triage del Pronto Soccorso, aspetta ben distanziata l'una dall'altra.

Qualcuno è seduto sulle aiuole, altri mettono le mascherine ai bambini, qualcuno aspetta notizie del proprio caro che si trova all'interno.

La ricostruzione di ciò che sarebbe successo parte da qui: da una mattinata come tante da quando c'è il Coronavirus.

In un orario non definito di questa giornata, un paziente viene soccorso: gli operatori intervengono in seguito a una chiamata e prelevano una persona che non sta bene: ha una patologia pregressa e in base a quella entra in Pronto Soccorso.

Qui, i sanitari compiono una serie di esami e lo portano velocemente in radiologia per una tac: osservando le immagini del torace si accorgono che qualcosa non va e che non dovrebbe avere a che fare con quella patologia pregressa per la quale era stato soccorso: scatta l'accertamento Covid-19.

A tarda sera, ecco il responso dal laboratorio di Sassari: positivo. Parte così il protocollo anti coronavirus.

Il paziente viene trasferito nella tenda esterna al Pronto Soccorso che può ospitare dei pazienti e offrire cure, ma nel frattempo c'è tutto il resto da fermare e sanificare.

Vengono chiusi due reparti: Pronto Soccorso e Radiologia. Lo scopo è sanificare tutto, eliminare ogni potenziale traccia del Covid-19. Poi, quarantena: dottori, infermieri, tecnici, ogni figura professionale che è entrata in contatto con il paziente.

Ieri sera il consigliere Giovanni Satta, parlando della questione tamponi, aveva raccontato a Olbia.it cosa era successo quella mattina: “Nel caso olbiese c’è stato un errore, perché lo stato in cui è stato trovato il paziente è stato addebitato, dalle informazioni raccolte durante l’intervento del 118, alla sua patologia pregressa, invece erano le conseguenze del Coronavirus. Per cui è entrato in ospedale come un paziente normale”, ha detto il consigliere regionale.

Il paziente è totalmente incolpevole di tutto ciò che è successo: è una persona che in questo momento lotta contro una malattia e da parte nostra, di tutta la città, dovrebbe ricevere solo incoraggiamento.

Eppure non è così: per tutta la giornata di ieri, il tam-tam su Whatsapp sulle sue condizioni, sul suo nome e sulla sua professione è stato a dir poco sconvolgente - per non dire altro.

Nel giro di poco tempo, mezza città conosceva tutti i particolari della vita di questa persona. Il nome è rimbalzato di telefonino in telefonino fino ad approdare persino su Facebook: in barba alla privacy, in barba al buon senso, in barba al rispetto che si deve a un malato e alla sua famiglia che vive ore di angoscia.

Come Redazione di Olbia.it teniamo a esprimere tutta la nostra vicinanza e solidarietà al paziente e alla sua famiglia. Non importa chi sei, non ci interessa il tuo nome né il tuo lavoro: noi siamo vicini a te e ai tuoi cari con il cuore.