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La casa rosa - racconto di Antonio Appeddu

La casa rosa - racconto di Antonio Appeddu
La casa rosa - racconto di Antonio Appeddu
Patrizia Anziani

Pubblicato il 09 June 2018 alle 17:51

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La casa rosa

- Giuse', come fai ad avere una forcella di olivastro piegata così bene?

- Arma', è un segreto. Ti posso solo dire che non è merito mio ma di un amico d'infanzia di mio padre. E' un professore di liceo, insegna fisica e non è di Olbia. Mi ha fatto promettere di non dire a nessuno come si fa a curvarla senza romperla. Forse un giorno te lo dirò.

Erano famose le forcelle del tiralastico di Giuseppe e non passava giorno senza che un amico gli chiedesse di svelargli un segreto. Di spiegargli, cioè, come riusciva ad arcuare i due monconi di olivastro a cui legava due elastici di caucciù lunghi 25 o 30 centimetri che, in coda, venivano accoppiati tramite un brandello di pelle che serviva per contenere il proiettile da scagliare, rappresentato, di norma da un piccolo sasso. A volte, questo proiettile, era una biglia di acciaio estratta da qualche cuscinetto a sfera andato male. In questo caso, il tiralastico diventava un'arma pericolosissima. E questo i ragazzini non lo capivano!

Può sembrare strano, ma quel tipo di abilità, in quella comunità di ragazzini, era un segno distintivo che consentiva di guadagnarsi la stima ed il rispetto dei coetanei. Eh sì, perché il tiralastico era uno strumento posseduto da tutti e che tutti, all'occorrenza, usavano.

Erano i tempi in cui il confine fra il paese e la campagna non era nitido e, come un po' di agro sconfinava nella città, accadeva che propaggini del popolato andassero a radicarsi in aperta campagna.

Giuseppe, al pari dei coetanei, quando era libero da impegni di studio o sportivi, aveva una sola missione: girare per i campi alla ricerca di qualcosa che, in partenza, manco conosceva. Sapeva solo che doveva andare in giro fra sughere e lentischi non tanto per cacciare, quanto per vedere e controllare. Così faceva lui e così facevano tutti e non c'era giorno che non accadesse.

Conosceva benissimo tutte le piste dell'agro, le pozze d'acqua, il passaggio dei piccoli rii, le rocce e, ovviamente, i fabbricati sparsi per la campagna. Quelli abitati e quelli diroccati.

Fra questi ultimi, uno dei più frequentati era la "casa rosa". Non aveva le fattezze di una casa, ma quelle di un fabbricato adibito a deposito; era priva di tetto, crollato chissà quando, e, soprattutto, non era tinteggiata di rosa ma di una tonalità di rosso che tendeva al mattone. A quei tempi, però, non si badava troppo alle sfumature e così, una volta classificata come "rosa", il colore quello era rimasto. E rosa, quella "casa", era per tutti.

Era collocata su una piccola altura che dominava gli estesi pianori sottostanti che, ogni anno, venivano seminati a cereali che, in primavera, assumevano il classico colore giallastro. In mezzo alla distesa di colore giallo, per via del caratteristico colore, svettava l'edificio in rovina. Una particolarità dello spazio antistante era costituita da un grosso buco nel terreno originato, si diceva, dall'esplosione di una bomba in tempo di guerra ed utilizzato dai giovani muniti di bicicletta o motorino per fare un po' di cross.

Tutti i ragazzi sapevano, per esserne stati testimoni o per via di racconti confidenziali sentiti da altri, che la casa rosa aveva tenuto a battesimo tanti amori giovanili, alcuni dei quali si erano pure strutturati per arrivare al matrimonio. Per cui al rudere veniva, tra gli altri, attribuito il ruolo di incubatore di nuove famiglie.

La costruzione era vista con grande rispetto dai ragazzi del quartiere Ospedale, alcuni dei quali, quasi per via di una certa deferenza, non entravano dentro il fabbricato ma stazionavano al suo esterno, seduti su pesanti lastre di granito appoggiate ai muri dell'edificio con la funzione di sedili.

I ragazzi più sfacciati, invece, specie quelli che non avevano sorelle, entravano all'interno del rudere per eseguire una sorta di ispezione mirata a verificare se quel vano avesse di recente ricevuto visite di giovani coppie.

La "casa" era anche priva di porte e finestre, per cui da fuori si vedeva al suo interno e da dentro si poteva mirare il panorama a trecentosessanta gradi.

La casa era stata anche immobile spettatrice di vere e proprie battaglie fra gruppi antagonisti di ragazzini che, in virtù di chissà quale innato istinto, non trovavano di meglio che scontrarsi per darsele di santa ragione ma senza ragione alcuna.

Un giorno, uno dei tanti, Giuseppe ed Armando bighellonavano per i campi attorno alla casa rosa. Camminavano lentamente, affiancati a tre metri uno dall'altro perché avevano deciso di raccogliere "siru"(1), un'erba commestibile. Per raccogliere siru è necessaria una camminata lenta perché a passo veloce aumenta la probabilità di non vedere l'erba preziosa che, si sussurrava, avesse la capacità di ridurre il tasso di zucchero nel sangue e favorire la difesa dal diabete.

Mentre procedevano "pede presso"(2) a poche decine di metri dalla casa rosa e con lo sguardo rivolto verso il terreno, i due sentirono il rumore di un motore. Era quello di un'automobile che si allontanava nervosamente dalla casa rosa. Riconobbero il modello: era una FIAT Ottocentocinquanta; una delle auto più diffuse al tempo. Il colore era nocciola.

Si chiesero chi poteva esserci dentro quella macchina, ma convenirono che non fosse un'informazione così rilevante: poteva anche essere qualcuno che aveva perso la strada e si era trovato, per mero errore, nei pressi della storica "casa".

Inoltre, la questione passò subito in secondo piano perché in quel momento trovarono un esteso "piantalzu"(3) di siru e la loro attenzione fu, ovviamente, catturata dal consistente bottino vegetale.

Passò una settimana e i due tornarono, vagabondando, in zona. Senza meta precisa e sotto il sole di "lampadas"(4), rividero la vettura. Era quella, senza dubbio. E se era quella, vuol dire che la volta precedente non si era persa e, quindi, alla casa rosa c'era finita volutamente.

Si avvicinarono al veicolo con circospezione, passando in mezzo all'orzo che, a breve, avrebbe ricevuto la visita della mietitrebbia e che, data l'altezza dei culmi, li nascondeva alla vista di chicchessia. A pochi metri di distanza dal mezzo scorsero due teste che si agitavano dentro l'abitacolo e poterono percepire dei suoni che non riuscirono classificare (erano lamenti o mugugni?). Rimasero fermi qualche secondo nel silenzio totale: la loro presenza, infatti, aveva fatto ammutolire grilli, cavallette e cicale. Si guardarono in faccia e, con un cenno del capo, Armando invitò l'amico a fare un altro passo in avanti. Non ebbero però il tempo di agire: il motore si accese e la vettura si avviò allontanandosi dai due ragazzi mentre, caracollando sulla stradina sterrata, sollevava nuvole di polvere nell'aria.

Anche questa volta la curiosità dei due esploratori era andata delusa.

La storia si ripeté innumerevoli volte, con la macchina che scappava ogni volta che i due pettegoli le si avvicinavano a misura inferiore di quella di sicurezza.

Chissà quando, e semmai, avrebbero saputo che si trovava dentro quell'utilitaria!

Nel periodo delle piogge, la casa rosa era messa a guardia del rio San Nicola, quello che tutti ad Olbia hanno da sempre, o almeno dai primi del 1900, chiamato "canale". C'era il canale San Nicola e l'altro che, pur dedicato a Santa Lucia, era a tutti noto come "Zozzò" per via dei numerosi scarichi fognari delle case prospicienti il rio che, comodamente e irriguardosamente, sversavano in esso le loro acque luride domestiche.

Ma il canale della casa rosa era il San Nicola. Ed essa, nel periodo freddo, era quasi la badante e la custode del rio. Quest'ultimo aveva il vizietto, in occasione di certe piogge di fine inverno, di esondare consentendo agli abitanti del neonato quartiere Ospedale di fare festa. Sì: festa, perché in quel tempo, gli straripamenti del canale non solo erano tranquillamente sopportati dalla comunità ma, addirittura, erano attesi, perché portavano una grande regalo: le anguille. Queste venivano pescate nel rio stesso e, una volta che le acque si erano ritirate dall'alveo e si erano formate numerose pozzanghere nei suoi pressi, venivano in queste ultime catturate a mano anche dai bambini.

La casa guardava ammirata questa forma di collaborazione della natura con l'uomo e, pur nella sua immobilità, sembrava compiacersi di ciò che accadeva nelle vicinanze dei suoi muri.

- Arma', dopo la terza media, dove ti iscrivi?

- Sto pensando di andare ai ragionieri. E tu?

- Allo scientifico!

Gli anni passavano e la casa rosa riusciva ancora a resistere alla crescita della città

Gisella aveva sedici anni, era bella e simpatica. I ragazzi del palazzo sognavano tutti di poterla accarezzare e baciare. Molti l'avrebbero anche sposata. Tutti la immaginavano sistematicamente impegnata a studiarli, uno per uno, per capire, tra loro, chi sarebbe stato il fortunato prescelto.

Lei, invece, non solo non aveva mai pensato di legarsi (o "mettersi", come si usava dire al tempo) con qualcuno di loro ma, quando le si affacciava in testa l'argomento, lo ricacciava via in un attimo perché si considerava piena di difetti e, quindi, poco appetibile dal genere maschile.

Il suo desiderio più grande era quello di fare la cameriera al nuovo bar del quartiere, quello con gli specchi grandi e la sala da biliardo. Ma la strada era sbarrata dal padre:

- tzeltu! Como non deves fagher atteru de ti ponner in mustra in su bar. Non est trabagliu pro una pisedda. Istadi in domo e non mi fates attidiare!(5)

Così, la ragazza, aveva ripiegato sulla frequentazione del laboratorio di una parrucchiera vicina di casa, che era stata per dieci anni in una città del Nord da dove era rientrata con l'accento subalpino e con in tasca un attestato di qualificazione professionale che garantiva che la signora era "esperta nel taglio di capelli e nelle acconciature femminili".

Ogni mattina, alle 6,30, Gisella era presente davanti all'ingresso del minuscolo appartamento che la parrucchiera, come da apposito biglietto da visita, pomposamente definiva "Atelier".

Il lavoro non era poi così male e la ragazza aveva quella dose di manualità che le consentiva di eseguire velocemente le diverse operazioni sulle chiome più o meno folte delle clienti, con soddisfazione delle stesse e della titolare. Ciò che non era particolarmente gratificante, per la giovane, era il trattamento economico che la titolare le riservava. In relazione a quanto lavorava ed a quanto fruttava il suo lavoro alla titolare, Gisella non incassava più di ventimila lire al mese che, per i tempi, erano veramente poca cosa.

Ma una mattina di maggio, qualche giorno prima della festa patronale della città, conobbe la signora Rachele, proprietaria di un piccolo albergo dove, oltre a dare da dormire e offrire la colazione, agli ospiti di sesso maschile si potevano riservare consolazioni e trastulli per soli adulti. Un colloquio riservato presso lo studiolo dell'albergatrice bastò per convincere Gisella a passare dalla cura delle capigliature femminili a quella degli aneliti maschili.

In un primo tempo, quello del necessario rodaggio, le quotazioni di Gisella non registrarono significativi apprezzamenti, ma, finita la stagione dell'apprendimento, le stesse subirono una sensibile impennata; tanto da indurre la signora Rachele a riconoscere a sé stessa un notevole talento nel selezionare il personale, dato il grado di apprezzamento da parte della clientela.

Tutto filò liscio per circa due anni, durante i quali la ragazza, oltre ad aver affinato le tecniche più squisitamente professionali, aveva messo da parte una consistente dotazione finanziaria.

La svolta si registrò alla chiusura estiva delle lezioni scolastiche, quando in albergo prese alloggio il professor Brentacci, che avrebbe dovuto trattenersi in città per il solo periodo degli esami di terza media.

Il professore era un giovane chimico che, non trovando occupazione nell'industria ed essendo poco portato per la libera professione, aveva deciso di darsi all'insegnamento ed aveva trovato cattedra presso una scuola media di un comune dell'Agro Pontino, dal quale scappava ogni volta che gliene veniva data occasione.

Alto ed atletico, era un tipo di uomo che piaceva alle donne e di ciò era ben cosciente. Così, quando vide Gisella seduta su un divano in portineria, credendola un'ospite dell'albergo, si avvicinò e le offrì una sigaretta:

- gradisce?

- Grazie. Non fumo.

- Spero di non averla importunata.

- No, non mi ha importunata - rispose con grazia e naturalezza la ragazza - ma non fumo, non ho mai fumato e penso che mai fumerò per tutta la mia vita.

- Brentacci fu colpito dal garbo e dalla decisione della donna e, fortemente attratto dalla sua personalità, rintuzzò:

- mi suggerirebbe cortesemente qualcosa da fare in questa città?

Quell'avverbio la colpì molto. Il giovane le aveva chiesto un consiglio ma aveva anticipato che avrebbe considerato la risposta come un gesto di cortesia. E lei non era abituata a sentirsi porre domande ed a ritenere che le risposte sarebbero state lette, da parte di chi chiedeva, come un gesto di cortesia. Quel bel giovane incominciava ad intrigarla.

- Se ha una canna da pesca, può andare all'Isola Bianca a pescare i ghiozzi, che qua chiamiamo "maccioni".

- Comprerò una canna e andrò a pescare maccioni. Se le facesse piacere, potrebbe farmi compagnia - disse il giovane con una mimica facciale che faceva capire alla ragazza che il tipo stava entrando in forno per uscirne cotto a puntino.

Per alcuni giorni, Gisella si mise in congedo:

- ho le mie cose, signora Rachele. Ci vedremo fra qualche giorno.

Il giorno dopo, di pomeriggio, Gisella e Brentacci erano sulle scogliere frangiflutti del viale dell'Isola Bianca, con la nuova canna da pesca che faceva magie tirando fuori dall'acqua, in rapida successione, un numero enorme di maccioni di tutte le taglie.

- E ora, di tutto questo pesce cosa ne facciamo? - disse il professore alla giovane.

- Vieni con me. Andiamo a regalarlo a chi ne ha più bisogno di noi.

Si recarono allora a bussare alla porta dell'asilo infantile. Aprì una giovane suora che, vedendo la cesta con i ghiozzi, capì. Andò a prendere una bacinella, sversò lì il pesce della cesta e restituì quest'ultima al proprietario. Ringraziò per la beneficenza e, senza troppi complimenti, salutò i due giovani e richiuse il portone.

Brentacci, ammirato dalla generosità di Gisella, nel suo intimo iniziava a provare qualcosa che aveva difficoltà a classificare ma che, a esami finiti e poco prima della sua partenza da Olbia, lo spinse a chiedere alla ragazza se poteva sperare di costruire con lei qualcosa in comune.

Iniziò così il fidanzamento che, un anno dopo, si concluse col matrimonio, celebrato a Olbia nella chiesetta della Salette la mattina di una luminosa domenica estiva.

Il celebrante, grande pastore d'anime e uomo di immensa carità, dopo aver esaltato le doti di entrambi gli sposi, non dimenticò, nella sua omelia, di ricordare che fra gli obblighi che ha l'uomo verso i propri simili, e a maggior ragione, quindi, che un coniuge ha verso l'altro, c'è quello della comprensione che, quasi automaticamente, spinge verso il perdono; e ricordò, non si sa se inconsapevolmente o meno, che Nostro Signore era arrivato a perdonare anche l'adultera, nonostante la legge ne acclarasse la colpevolezza, sul presupposto che a tutti debba essere data una possibilità di redenzione e che, in fondo in fondo, solo uno stolto o un bugiardo può dirsi senza peccato.

Dopo il rito religioso, gli sposi accolsero parenti ed amici al ristorante del "Lido della luna", dove gli invitati presero posto in tre lunghe bancate apparecchiate di tutto punto per il banchetto nuziale.

Fra gli invitati c'erano anche Armando e Giuseppe che, ormai adulti, si presentarono entrambi con relativa consorte e prole.

Accanto a loro aveva preso posto "tziu Berenaldu"(6), uno zio della sposa che, dall'opinione comune, era ritenuto un imperterrito dongiovanni. Scapolo, vicino ai cinquant'anni, diceva sempre di non volersi sposare perché incapace di mantenere un rapporto fisso e le due sorelle, entrambe zitelle, quando parlavano di lui con le amiche, erano solite ribadire che "una ne prendeva e una ne lasciava". Il buon Berenaldu si era dunque fatto una fama di sciupafemmine anche se nessuno, in città, ricordava di averlo mai visto in compagnia di una donna. Mai, manco per sbaglio.

Come accade in queste circostanze, fra commensali vogliosi di chiacchierare, si iniziò parlando dell'abito della sposa per continuare con il commento alla predica del sacerdote. Questo per un quarto d'ora, passato il quale la discussione atterrò sui più disparati argomenti dell'attualità o del passato.

In quella circostanza, fu il turno della politica e dello sviluppo edilizio di Olbia. Tutti a dire la loro, a spiegare cosa fare per migliorare la città, a contestare il passaggio a livello e via dicendo.

- Certo si stava meglio ai tempi della casa rosa, Arma' - disse Giuseppe.

- Non c'era tutta la confusione di oggi - rispose l'amico.

- Eh quante giornate passate a cercare erbe e a "vischiare"(7). Non avevamo certo i problemi odierni.

- Sai se è ancora in piedi la casa rosa?

Fu a quel punto che tziu Berenaldu, che aveva già allibrato cinque o sei bicchieri di cannonau, sbottò:

- fosse stato per me, l'avrei demolita più di venti anni fa, quella casa. Se non ci fosse stata, oggi sarei anch'io sposato e con figli!

- Perché, zio Berena'? - Chiesero all'unisono i due amici.

- Perché stavo iniziando a filare con una ragazza che mi piaceva tanto ma con cui non ho potuto concludere nulla. Andavamo insieme alla casa rosa, dove io cercavo sempre di baciarla, ma sul più bello succedeva qualcosa che me lo impediva. Alla fine, quella, disse che ero troppo sfortunato e che non ne voleva sapere più di me. E non mi volle più vedere.

- Come mai non siete riuscito a baciarla?

- Non ci crederete, ma sul più bello arrivavano sempre due cretini a spiarci alla casa rosa. Io li vedevo quei due mocciosi: camminavano lentamente fra le spighe, a testa bassa. Quante volte mi è venuta voglia di scendere dalla macchina per prenderli a "puntaculos"(8). Ma non potevo. E così mettevo in moto e me ne andavo.

- E che macchina avevate a quel tempo?

- Una bella FIAT Ottocentocinquanta!

©Antonio Appeddu

Questo racconto, con eccezione dei luoghi, è frutto dell'esclusiva fantasia dell'autore e, pertanto, ogni eventuale riferimento a fatti o persone è assolutamente casuale.

Note:

1) Hypochoeris radicata, fa. Asteraceae;

2) Lentamente;

3) letteralmente "piantagione", qui col significato di "distesa";

4) nome sardo del mese di giugno;

5) E certo! Adesso non devi fare altro che metterti in mostra al bar. Non è lavoro per una ragazza. Stai a casa e non farmi arrabbiare.

6) zio Bernardo;

7) cattura di piccoli uccelli con l'ausilio di una resina collosa chiamata"vischio", che veniva spalmata sullo scapo (stelo) secco della pianta di asfodelo, collocato, quest'ultimo, a pochi centimetri dall'acqua. Gli uccelli, per bere, si posano sullo scapo rivestito di vischio e, al momento di riprendere il volo (al primo battito d'ali) restano "invischiati" al contatto dell'ala col vischio;

8) pedate nel sedere.

Si ringrazia Maurizio Casula per aver messo a disposizione la foto dove viene inquadrata la casa rosa. [caption id="attachment_101036" align="alignnone" width="1470"] In primo piano il piccolo Alessio Casula. Sullo sfondo la casa rosa. Foto archivio Maurizio Casula[/caption]