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Il forno pubblico

Il forno pubblico
Il forno pubblico
Settimo Momo Mugano

Pubblicato il 22 September 2018 alle 20:01

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Il forno pubblico

L’articolo firmato da Andrea Cuomo per la pag. 16 de “Il Giornale” di giovedì 30 agosto, mi ha spalancato la porta del passato e riportato alla mente ricordi che hanno dormito a lungo in fondo alla mia coscienza. L’articolo al quale mi riferisco è intitolato: “Forno collettivo. Così rinasce una liturgia collettiva” ed è stato scritto in riferimento al fatto che è stata inaugurato a Milano, in zona Venezia, per l’iniziativa di Davide Martelli e Alessandro Longhi, “Un forno collettivo a disposizione di chi vuole cuocere il proprio pane fatto in casa”.

Andrea Cuomo ricorda che il “Forno collettivo”, idea originale per Milano, è nato in altre città d’Italia: da Reggio Emilia alla Garbatella di Roma; alla cittadella di Saint Denis della Valle d’Aosta; a Sestri Levante in Liguria e Colle Val d’Elsa in Toscana. Tutte iniziative recenti che nulla hanno a che fare con l’antico Forno a Legna della famiglia della signora Elsa Sechi di Olbia, nato intorno al 1945/’46, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

In quella panetteria, con forno adiacente, io ricordo di aver fatto lunghe file durante il periodo bellico, con la tessera annonaria in mano, per l’acquisto dei pochi etti di pane giornaliero imposti dalle ristrettezze alimentari di quei tristi giorni.

Cancellata la tessera annonaria e aperto il libero mercato (anche quello del Mercato Nero) che consentiva l’acquisto dei preziosi e quasi dimenticati generi alimentari, venne anche risolto il problema del “Pane quotidiano”, con l’acquisto di grano da trasformare in farina e con la necessità di cuocere il pane fatto in casa.

Ecco allora entrare in scena il forno del pastificio del negozio di Signora Elsa, al Corso, ubicato subito dopo il negozio di gioielli e orologi della famiglia Ghelfi e il salone del barbiere di Osvaldo Gandini.

A Olbia quasi nessuna famiglia poteva disporre di un proprio forno, così chi voleva cuocere il pane, o preparare i dolci anche durante la vigilia delle grandi feste annuali, dove si preparavano quelli tradizionali, doveva per forza rivolgersi al forno del più importante panificio di Olbia che, superato il periodo bellico, cominciò a diventare una frequentatissima pasticceria.

C’era, in verità, in città un altro panificio, a metà di via Roma, gestito dal padre di un mio compagno delle Elementari, di cui ho dimenticato il nome, ma era un forno piccolo e non così attrezzato da poter gestire una vasta clientela come quello ubicato in Corso Umberto. La famiglia Sechi (questo cognome lo sto usando con qualche dubbio quasi sicuro di non sbagliare, ma pronto a correggermi) capì subito che aprendo il suo forno alle esigenze di una parte della città, avrebbe moltiplicato il proprio bilancio annuale. E quello fu, secondo me, tra i primi “Forni Aperti” da me conosciuti in Sardegna, e forse in Italia, insieme a quello che visitai un paio di volte a Nuoro, dove stavo frequentando la Prima Media ospite di mia zia Anna Maria, sorella di mia madre Giuseppina Ranò e nonna del popolare giornalista politico italiano Giovanni Floris.

Quel forno di Nuoro era, per così dire, specializzato alla cottura del "Pane Carasau" o del "Pane Lentu", il pane che serviva per le lunghe assenze dei pastori della Barbagia che trascorrevano lunghi mesi con le loro greggi lontano da casa. Trascorsi due o tre notti in quel forno a godermi lo spettacolo della panificazione e della cottura di quel pane speciale che trovo ancora sulla bacheca del supermercato del quartiere di Vigna Clara dove attualmente vivo.

Aiutavo mia zia, con i miei cugini Bachisio e Titino Floris, a portare a casa le ceste del pane appena uscito dal forno inebriato della loro fragranza. Quell’intenso profumo del pane appena cotto lo riscoprii qualche anno dopo proprio nel forno della signora Elsa quando andavo con Claudio Solinas o Giovannino Derosas a ritirare la grande teglia dell’agnello destinato al nostro cenone, oppure quando, in attesa di acquistare qualche pasta, arrivavano nella pasticceria-panificio le ceste del pane appena sfornato.

Nel forno di Nuoro la mia meraviglia fu accesa dal fatto che le donne, sedute sui banchetti, impastavano pane semolato rimacinato con grano duro, acqua, olio d’oliva, lievito di birra e sale realizzando una specie di grande e tonda pizza bianca che, nel forno alimentato a legna, si gonfiava lentamente. Quando avevano raggiunto la dimensione voluta, quelle specie di pizze venivano sfornate e divise in due. Le due parti ricavate venivano rimesse al forno fino alla loro completa cottura diventando il pane Carasau sardo, famoso ormai in quasi tutto il mondo.

Il forno della signora Elsa di Olbia per noi ragazzi olbiesi, che stavamo diventando giovanotti, fu una vera manna perché ci permise l’organizzazione di festosi cenoni nel magazzino di pellami della famiglia del mio indimenticato e sfortunato amico Claudio Solinas, in occasione di Pasqua e di Natale le più attese e grandi festività annuali. Ma noi non portavamo al "Forno Aperto" pane da cuocere, ma sempre un intero agnello steso su una grande teglia arricchita con una generosa corona di patate. Il costo dell’operazione, naturalmente diviso tra i partecipanti al cenone, non era eccessivo e il divertimento era assicurato anche perché c’era sempre qualcuno che abusava di qualche bicchiere di vino in più e, a fine cena, nascevano scene comicissime.

In una di quelle riunioni si sfiorò, per colpa mia, perfino una tragedia. Claudio, che era i custode e gestore del magazzino della famiglia, ci mostrò a fine cena la rivoltella che aveva in dotazione per difendersi dal tentativo di furto dei pellami come qualche volta era accaduto. Io, per fare uno scherzo a Giovannino Derosas, un altro dei miei compagni di gioventù prematuramente scomparso, presi quella rivoltella e, credendola scarica, la puntai contro Giovannino minacciandolo di sparargli se non mi avesse restituito il fiasco d’acqua che io, astemio, portavo di nascosto a quei cenoni. Claudio si accorse per fortuna della scena e mi gridò in tempo: “Fermati, la rivoltella è carica”.

In quegli anni io e i miei compagni avevamo due importanti impegni da assolvere, il primo era la scuola con i compiti da fare a casa, che venivano spesso messi da parte per via delle necessità alimentari delle nostre famiglie. Il secondo impegno era quello di fare le commissioni per la casa. Spesso infatti ci mandavano per i vari negozi della città a fare lunghe file quando arrivava la notizia che in questo o quel negozio era arrivata la pasta o l’olio, la carne, il formaggio oppure il latte e la ricotta. A me, data l’età, toccava sempre vivere quelle snervanti file visto che ero stato così coraggioso e prezioso nel partecipare "all’assalto" nel porto Benedetto Brin dei vagoni ferroviari forniti di ogni ben di Dio destinato però ai paesi dell’interno.

Di quelle file serali, per l’acquisto del latte e della ricotta, mi è rimasto in mente un ritornello al quale ho fatto riferimento nel mio libro “ In esilio con Olbia nel cuore” che voglio riproporre in queste pagine per coloro che (spero ardentemente pochi) quel libro non l’hanno ancora letto.

Il negozio, dove ogni sera era in vendita il latte e la ricotta, era quello di Signora Cesira, in Corso Umberto scendendo verso i cancelli ferroviari di San Simplicio. In quella fila io ero sempre presente, mentre mi recavo sul posto canticchiavo la parodia che un olbiese spiritoso aveva fatto sulle note del comunista “Avanti o popolo alla riscossa”, ricordo che la cantavo mentre da via Regina Elena salivo per andare al negozio. La parodia olbiese diceva: “Avanti o popolo alla ricotta va da Cesira se te ne tocca”.

Tornando al problema legato al “pane quotidiano” in quel periodo ricordo con piacere che durante lo sfollamento di Padru, io non ebbi più l’incarico di andare a comprarlo con la tessera annonaria perché me lo procuravo gratuitamente in uno dei forni della cittadina, requisito dal comando di una compagnia militare di stanza nelle vicinanze del paese.

Avevo fatto amicizia con i fornai militari e questi mi avevano insegnato a incidere con una lametta il pane destinato ad essere infornato. Molte volte ero io che contavo i filoni di pane che venivano prelevati per il rancio giornaliero della truppa. A fine “lavoro” venivo autorizzato a portare a casa, in conto pane, la mia giornaliera collaborazione alla panificazione del pane destinato all’esercito italiano, gratis e senza consumare i bollini della tessera annonaria.

L’argomento pane, ogni volta che vado a fare la spesa al supermercato mi procura fastidio e tristi ricordi. Faccio spesso la fila, prendendo il numero davanti al bancone del pane e sono testimone di richieste che, ancora oggi, mi fanno un pochino innervosire. C’è chi vuole il pane poco cotto, chi lo vuole ben cotto, chi vuole il pane di Terni o le pagnotte de La Tolfa, lo speciale pane di Altamura, di Matera o di Genzano. E c’è chi, in un supermercato di Roma, chiede il pane ferrarese o quello e valdostano, oppure, addirittura, il pane azzimo.

Io, in quei giorni lontani, quando arrivavo al bancone del pane, chiedevo semplicemente alla commessa “Un chilo di pane”. Pane per me era solo quello che veniva fatto nel forno della signora Elsa e venduto nel suo negozio al Corso.

Quello era il mio benedetto “pane quotidiano”.

E lo è ancora.

©Settimo Momo Mugano Roma, 23 settembre 2018