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Giovanni Deiana e il suo indimenticabile Caffè Italia raccontati dalla figlia Marisa

Giovanni Deiana e il suo indimenticabile Caffè Italia raccontati dalla figlia Marisa
Giovanni Deiana e il suo indimenticabile Caffè Italia raccontati dalla figlia Marisa
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 16 August 2020 alle 18:44

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Olbia, 16 agosto 2020- Di quel viso allungato e curatissimo, mi colpiva ogni volta la mai tradita, impassibile, innata espressione aristocratica. Quando in me si concretizzò la capacità di fissare nella memoria il mare magnum delle osservazioni e delle curiosità infantili, Stefano, cameriere simbolo del Caffè Italia, aveva un quarto di secolo in più rispetto alla foto (Fig. 1). Eppure i suoi capelli nerissimi stavano ancora lì tutti, immobilizzati dalla brillantina Linetti in un'eleganza d’altri tempi.

Fig. 1 Stefano, lo storico cameriere del Caffè Italia, in una foto del 1944 (particolare della foto successiva)

Tuttavia nessun’altra immagine simboleggerà meglio l’indimenticabile, glorioso Caffè Italia di Corso Umberto 48, della cartolina viaggiata acquistata per pochi euro su E-bay e che per l'occasione si offre ai nostri lettori di OLBIAchefu (Fig. 2). Corre l'anno 1944. Roma sta per essere liberata dall’occupazione tedesca e Mussolini è ormai solo un avvilito fantoccio di Hitler, messo a capo della crepuscolare Repubblica di Salò, dove odio fratricida e sangue scorrono a fiumi. Qui in Sardegna, avvantaggiati dal privilegio del distacco geografico, l'avevamo capito più facilmente, ed eravamo stati pure più fortunati - diciamo così - fame a parte. Cannoni e bombardieri tacevano dall’armistizio dell’8 settembre 1943, ed il lungimirante ed intraprendente Giovanni Deiana, colui che il Caffè Italia lo aveva fatto nascere e coccolato, guardava ottimisticamente al futuro. Complici i danni collaterali delle bombe alleate cadute a pochi metri sull’Albergo Italia, farà mutare pelle al suo locale con un radicale restyling disegnato da un architetto fiorentino. Il locale non sarà cambiato di molto quando io lo vedrò per la prima volta, negli anni Sessanta. Il banco con dietro i perennemente affaccendati Stefano e Carlo (l'altro cameriere storico del Caffè Italia), sembrava a me un'altissima inesplorabile barriera, inaccessibile senza la mediazione di un adulto.

Fig. 2 Interno del Caffè Italia in una foto scattata subito dopo la ristrutturazione del 1944 (particolare)


Serrande abbassate, luci accese, posa lunga con cavalletto. Stefano il cameriere e Giovanni Deiana il titolare (avevano il medesimo cognome non essendo parenti) posano immobili ai loro posti di combattimento in attesa dello scatto a lunga esposizione. Il primo sta dietro la macchina da caffè - la foto precedente è un ritaglio ingrandito - e l'altro siede alla cassa sistemata strategicamente nell’angolo fra i due ingressi su Corso Umberto (a destra di chi guarda) e Via Porto Romano, l’incrocio più importante della Olbia del tempo. Diciamo che la sedia e la cassa a manovella di Giovanni Deiana del Caffè Italia, quella che faceva “tin” quando si apriva il cassettino a fuoriuscita automatica, corrispondevano al centro fisiologico del centro storico, a sua volta cuore residenziale e commerciale della cittadina di Olbia, per errore d’abitudine ancora chiamata da molti Terranova (poleonimo abbandonato, come tutti sanno, nel 1939). Non era una cassa come le altre, ma pareva semmai un pulpito ligneo ad altezza d’uomo, ad altezza di Giovanni Deiana che altissimo non era, e che di quel centro storico e della città divenne un personaggio più che istituzionale. Qualche maligno, con arguzia tipicamente olbiese, gli appose il soprannome di Cadrèa, termine sardo che sta per sedia e derivato direttamente dal latino "cathedra". L'etimologia del nome supererà e farà giustizia delle irriguardose intenzioni dell'ideatore dell'istivinzu, perché quella di Giovanni Deiana era veramente – e lo dico con profonda e condivisa convinzione - una cattedra su cui sedeva e da cui insegnava un maestro di grande professionalità. Era cabina di regia e centro di comando, postazione privilegiata di attenta supervisione del personale e della clientela, oltre che esempio praticato di igiene: chi toccava piattini e tazzine non maneggiava le lire, e viceversa. Caso esemplare, forse più unico che raro per quei tempi ormai lontani.

Cartolina viaggiata della fine anni Sessanta. Sulla destra, fiancheggiato dai due ombrelloni, l'ingresso al Caffè Italia che dà sul Corso Umberto (immagine di proprietà dell'autore dell'articolo)

Gli anni Sessanta dei miei ricordi, dicevamo. Furono anni meravigliosi, preceduti da un boom economico che già dagli anni Cinquanta si definiva semmai come un “miracolo” italiano. Debellata la malaria grazie al DDT della Fondazione Rockfeller, furono gli anni in cui il sindaco Saverio De Michele riceveva in pompa magna nelle sale comunali un Karim Aga Khan sbarbatello per illustrare l'ambizioso progetto della Costa Smeralda a dei consiglieri imbambolati dalla troppa grazia. Gli anni della “Rinascita" sarda, gli anni in cui Olbia iniziò uno sviluppo inarrestabile e disordinatamente galoppante.
Il Caffè Italia di Giovanni Deiana, come indica il nome stesso, era il classico “bar all’italiana”, ossia centro di aggregazione a 360 gradi. Si consumavano ininterrottamente caffè, colazioni, aperitivi, liquori Strega e Cynar, gelati, confidenze e pettegolezzi, tra il fumo denso delle sigarette Nazionali e delle MS, privilegiando i tavolini esterni nei mesi caldi da aprile a novembre. Si scommetteva sulle partite della domenica successiva, si commentavano le imprese degli eroi sportivi e la politica sempre più ondivaga della DC. Ci si incontrava con gli amici e con i clienti; in tempi di pre-elezioni potevi sentirti offrire una candidatura insieme ad un caffè corretto con la Sambuca Molinari. Le migliori teste pensanti, i professionisti, la borghesia emergente del tempo si ritrovavano là nelle pause caffè, quando un tazzina costava 50 lire, l’equivalente di 25 centesimi di euro. Là davanti c’era la fermata dei pullman-navetta di De Luca da e per i bianchi traghetti verso il Continente, e fin dalle primissime ore del mattino era tutto un vai e vieni, un assordante dindin di piattini e tazzine, di sbuffi vaporosi della macchina espresso, di vocianti file alla cassa, di cortesi risposte alle richieste di informazioni turistiche che videro in Giovanni Deiana, in Stefano, in Carlo, quella Pro Loco e quell’Ufficio informazioni turistiche che solo molti anni dopo sarebbero comparsi in città.

Fig. 3. Stefano Deiana e Giovanni Deiana posano in una foto scattata lo stesso giorno della foto alla Fig. 2

Torniamo ancora alle foto. Nello stesso giorno ne venne scattata un’altra (Fig. 3), mada opposta prospettiva. Qui Stefano finge di fare un caffè e Giovanni Deiana posa dietro alla bilancia dei dolciumi, la cui bassa vetrina si appannava spesso al livello del mio naso di bambino incollato a catalogarne avido i multicolori contenuti. L’assortimento era a dir poco festoso: ricordo solo le mitiche caramelle croccanti Cinzia, e le Rossana, quelle col ripieno di crema liquida e densa; le caramelle Milk Mou che si attaccavano inesorabilmente ai denti, anch’essi di latte; gli Spicchi all’arancio e al limone, solo da succhiare in bocca perché quelle i denti di latte te li spaccavano; i gianduiotti Talmone, i Baci e le Banane della Perugina e, sempre della stessa gloriosa marca, i cioccolatini Grifo, piccoli, semicilindrici, al latte o fondenti, i secondi disdegnati all’unanimità dai bambini. Quando arrivavano le visite di cortesia, mia madre mi inviava sempre a comprare qualche etto di quelle delizie, sapendo che ne avrei intascato qualcuno per ricompensa al momento della consegna, anche se di nascosto ne avevo già fatto incetta lungo la via del ritorno.

Fig. 4 Particolare ingrandito della foto precedente

“Babbo commissionò queste foto ad un professionista dello scatto, non appena furono finiti i lavori di rinnovo dei locali nel 1944. Poco dopo un editore (leggiamo nel retro della cartolina viaggiata che si tratta delle Edizioni Angeli di Terni n.d.r.) acquistò la più bella per ricavarne quella cartolina, che da quel che so ebbe anche un discreto successo di vendite.”

Così esordisce la sempre bellissima signora Marisa Deiana, vedova Baffigo, che ci accoglie nel suo appartamento di Via Angioy. Per oltre un’ora ci racconta del Caffè Italia e di suo padre, interrotta ogni tanto dai figli Giovannella e Guido, il quale ha avuto la sensibilità e l’accortezza di salvare la più parte delle foto d'epoca che troverete qui pubblicate. Con loro sono praticamente cresciuto, e in quel bar non ci andavo dunque solo per comprare i cioccolatini Grifo da sgraffignare, ma anche e soprattutto per gli infiniti giochi e le fantasie che un luogo del genere poteva stimolare.

“Il Caffè Italia fu inaugurato da babbo nel 1932, quando era ventisettenne. Originariamente si trovava più sotto, in Via Porto Romano, di fronte all’Albergo Italia. Poi si trasferì al Corso, all’incrocio con Via San Giovanni, nel locale dove successivamente aprì il suo negozio di biciclette Ciccillo Leggieri (oggi c’è il bar Frisbee). L’attività stentava inizialmente a decollare. Da diverso tempo però il sign. Attilio Carboni andava studiando l’intraprendenza e la laboriosità di questo giovane, disposto ad alzarsi alle quattro del mattino per mettere in pressione la macchina e preparare i primi caffè a portuali, cacciatori ecc.[1]”. Finché un bel giorno trovo l’attimo giusto, e prese mio padre in disparte:

- Giova’, vedo che sei uno che ci tiene al lavoro, che sei onesto, che ci sai fare…Perché non ti sposti nel mio locale, che è libero?”

- E come faccio adesso? Mi sono appena trasferito...

- Vedi tu.

Consultò mamma (l’inseparabile signora Iolanda, n. d. r.), parlò con qualche operaio, e in una sola notte lui, zio Cesarino Boselli, che era idraulico e padre del cameriere Carlo, “zio” Miria Degortes l’elettricista e qualche operaio fecero il miracolo: l’indomani mattina il bar era già aperto!”

Pochi metri, se andiamo a misurarli, che però a quanto pare risultarono determinanti. Oggi quei locali sono occupati dal bar “Old Station”.

“Il locale offerto in affitto da Attilio Carboni corrispondeva alla sola sala rettangolare che vediamo nella cartolina (Fig. 2 e Fig. 3). Vi venne poi aggiunto il collegamento ad una seconda stanza, raggiungibile attraverso una scala, sempre utilizzata come magazzino e deposito. Poi ancora, quando a babbo venne in testa di allestire una sala da gioco e biliardi, gli bastò aprire una porta per collegarsi con un terzo ambiente adiacente. Si finì così per avere un bar con tre stanze di tre diversi proprietari. L’idea iniziale della sala biliardi durò poco (venne però ripresa nel dopoguerra), sostituita da un ristorante con cucina, che ebbe tra i più assidui frequentatori Giovanni Livi, il padre del famoso regista Piero, che il sabato e la domenica ci portava tutta la famiglia”.

Fig. 5 La sala del ristorante adiacente al Caffè Italia e funzionante negli anni Trenta (foto Eredi Baffigo- Deiana). Nella foto si riconosce Giovanni Deiana col cameriere capo-sala.

“ Il ristorante stava andando benino, finché babbo si accorse che dalla finestra di Via San Giovanni “evadevano” clandestinamente forme di formaggio, vini, prosciutti ecc, certamente…aiutati da qualcuno. I sospetti ricaddero su un dipendente che veniva da fuori. Fu così che, amareggiato, decise di chiudere con l’esperienza del ristorante (“Per rimetterci, niente da fare!”). Conservo ancora alcuni piatti della Richard Ginori di quel periodo. Ricordo anche gli specchi ed i ritratti del Re e del Duce appesi ad una parete” (al tempo erano obbligatori nei locali pubblici n.d.r.) (Fig. 5). Poi venne la guerra. Durante i bombardamenti il bar ebbe le serrande danneggiate e gli sciacalli non lo risparmiarono, portandosi via anche la teca di vetro con la statua di Santa Rita! La nostra famiglia sfollò rifugiandosi dapprima a Monte a Telti, ma presto decidemmo di spostarci a Buddusò. Babbo aveva fatto caricare sui carri mille bottiglie di Maraschino salvate dai bombardamenti, per smerciarle ai militari accampati (in quei mesi presso Buddusò era di stanza un battaglione del Genio n. d. r. ), ma durante la notte prima della partenza agirono di nuovo i ladri. La mattina tutto il Corso Umberto era disseminato di bottiglie vuote del rinomato liquore di Zara”.

Fig. 6 Manifesto pubblicitario del liquore Maraschino di Zara (anni Trenta)

Chiedo a signora Marisa cosa accadde dopo la guerra.

“Dopo la guerra nella sala dove c’era il ristorante tornarono i tavoli da gioco ed il biliardo, ma ad un certo punto mio padre non era molto contento di ciò e decise di sperimentare l’idea di una sala da tè. Passai giorni intere a confezionare a mano le tende. L’idea non funzionò, non era nelle usanze locali. Tornarono i tavoli da biliardo definitivamente, i tavolini da gioco, i giocatori di Mariglia…”

Passo ad altro argomento e chiedo a signora Marisa di parlarmi del famoso gelato del Caffè Italia. E qui entra in gioco la stanza di sotto con la finestra che guardava su Via San Giovanni. Che era per me bambino qualcosa di più del normale “magazzino-deposito”. Anzi, forse il fatto stesso che fosse dichiarato tale, e soprattutto che fosse con mio rammarico interdetto ai giochi con Guido, costituiva ulteriore motivo di supremo interesse. Oh sancta sanctorum dei misteri golosi, da cui esalavano ineguagliate fragranze paradisiache di creme, vaniglie e cioccolati! Laboratorio alchemico con i suoi atanor di alluminio lucidissimi, dove Stefano e Carlo si introducevano discreti, calandosi senza preavviso lungo la fresca penombra dei pochi scalini: le loro giacche bianche immacolate ed i papillon neri erano i paramenti di chissà quali solenni allettanti rituali. Soprattutto Stefano, con il suo impeccabile contegno da maggiordomo britannico, accentuava l’immaginata solennità liturgica di un non profanabile rito misterico. E più che il risultato finale sperimentato dai sensi, ciò che più intrigava la mia malcelata curiosità stava in ciò che serviva invisibilmente a conseguirlo.

Fig. 7 Carta di identità di Giovanni Deiana dell'anno 1942 (per gentile concessione degli Eredi Baffigo-Deiana)

“ Per molto tempo i gelati furono un segreto di mia madre Iolanda, la quale non usava certo basi industriali già pronte, che sarebbero venute dopo. I gusti erano quattro: crema, cioccolato, pistacchio e stracciatella. Tutti aromi naturali. La stanzetta aveva le pareti scaffalate, c’era un lavandino e al centro prendeva posto un tavolo grande, su cui stavano i recipienti in alluminio e la macchina per fare il gelato. Lei buttava le uova intere, cioè tuorlo ed albume, insieme al latte portato appena munto ogni mattina dalla campagna dal pastore e tutto veniva messo subito a bollire nei pentoloni. In superficie si formavano ben due dita di panna che non veniva certo tolta, ma rimescolata continuamente. Un lavoro che non ammetteva distrazioni. Ricordo Antoneddu Varrucciu, che aveva la lavanderia in piazza Regina Margherita, il quale diceva sempre: “Io vengo qua a fare una bella merenda, altro che a mangiarmi un gelato!”. Ci mandavano anche le bambine con i canestri in testa per prendere i gelati messi sui piattini, e correvano via veloci prima che si sciogliessero.
In periodo di guerra, dopo l’8 settembre, arrivarono anche ad Olbia gli Americani. Gli ufficiali avevano preso sede presso lo stabile in stile di “zia” Maria Madau, davanti alla palazzina dei ferrovieri, all’inizio di Via Vittorio Veneto. Una delle prime cose che fecero fu di sequestrarci tutta la strumentazione per fare i gelati, ricetta compresa, che però veniva guastata perché oltre al latte, già così grasso, ci aggiungevano tantissimo burro. Mia madre rimase inorridita da questo.

Fig. 8 Immagine della fine degli anni Trenta-primi anni Quaranta. Si riconoscono Giovanni Deiana, Carlo Boselli ed il garzone Luciano Deiana, fratelli di Stefano, l'altro cameriere storico del locali. (foto proprietà Eredi Baffigo-Deiana).

Passiamo al caffè, anch’esso considerato per decenni ineguagliabile.

“ All’inizio era caffè della ditta triestina associata Illy-Hausbrandt; successivamente, dopo che i due si separarono, rimase solo il nome “Illycaffè”. Dopo cinquant’anni, nel 1982, ci fu consegnata la medaglia d’oro di fedeltà. Il segreto del nostro caffè non stava solo nella macchina e nella mano di chi lo faceva, ma nel fatto che mio padre non lo tagliò mai furbescamente con altri macinati di bassa qualità, più economici. Una tentazione che poteva venire al barista per il fatto lo Illycaffè rimaneva il più caro.”

Doveroso da parte nostra aprire una piccola parentesi di storia del caffè espresso, la bevanda prediletta dagli italiani, di cui Ferenc Illy, il brillante imprenditore ungherese trapiantatosi a Trieste dopo la Grande Guerra, resta uno dei principali protagonisti. Egli fondò la Illycaffè avendo – come già accennato nell’intervista - Roberto Hausbrandt come socio paritetico. Brillante imprenditore e inventore, Ferenc Illy contribuì al perfezionamento della prima macchina per caffè espresso, brevettata dall’ingegnere italiano Angelo Moriondo. In seguito Illy brevettò anche un innovativo metodo di conservazione in grado di mantenere l’aroma del caffè appena tostato durante i lunghi viaggi commerciali. Un metodo che, ulteriormente perfezionato dura ancora oggi. Per un singolare segno, l’anno di fondazione della Illycaffè, il 1933, è anche lo stesso in cui nacque signora Marisa.

Fig. 9 Uno dei primissimi manifesti pubblicitari della Illycaffè del 1934

“Altra nostra specialità era il confezionamento dei cestini-regalo (contenenti vini, liquori, dolci, uova di Pasqua ecc.) per le feste natalizie e pasquali. Richiestissimi, in quei periodi dell’anno diventava faticoso evadere i numerosissimi ordini. Ricorderò sempre quando Carlo andava alla Villa Tamponi in carrozza, portando con sé tutta la campionatura. Signora Dolores voleva sempre e solo lui. Dentro i cestini mettevamo di tutto, ogni tipo di caramelle e cioccolatini, ed immancabili erano i confetti della Perugina.”

Tante le specialità dunque del Caffè Italia, che aveva fatto della qualità e dello stile la sua religione. C’è un qualcosa su cui non si può parlare: il locale era anche il ritrovo preferito di sportivi e tifosi.

“Prima ancora che si diffondesse la televisione, dopo la metà degli anni Cinquanta, gli appassionati e i tifosi di calcio, o di Coppi e Bartali, si ritrovavano nel bar per seguire le telecronache radiofoniche e trascrivere le 1-2-X dei risultati del Totocalcio. La radio stava proprio dietro la cassa, si riconosce nella foto del 1944, quella della cartolina. Sta vicina alla riproduzione in ceramica di una Madonna del Della Robbia. Per decenni abbiamo venduto anche i biglietti delle partite dell’Olbia, e da noi arrivavano i risultati della squadra in anteprima. Ce li comunicava per via telefonica Mario Zappadu, l’indimenticato giornalista sportivo, grande amico di babbo. Tra i clienti storici dei tempi d’oro del bar vi erano l’ingegnere Mario Lupacciolu, il fratello Nando, il farmacista, Eligio Azzena, l’avvocato Pinna, padre di Sergio, anch’egli avvocato, l’avvocato Sergio Peralda, l’avvocato Carlo Putzu, i fratelli Virgilio e Andreino Sotgiu, che litigavano sempre sul canale televisivo, i fratelli Manunta, e tantissimi altri”.

Fig. 10 Foglietto pubblicitario del Bar Caffè Italia (proprietà Eredi Baffigo-Deiana)

Anche la storia del Caffè Italia, come ogni storia umana, non poteva però essere eterna.

“ Babbo cessò di lavorare nel bar nei primi anni Ottanta, era nato nel 1905, quindi i calcoli sono presto fatti. Dopo un periodo in cui avevamo ceduto la gestione a Sfefano, decidemmo di riprenderlo e portarlo avanti, io, Giovannella e Guido. Il bar venne rinnovato e portato avanti per diversi anni, andava bene, finché, a malincuore, decidemmo di mollare definitivamente. Giovannella aveva deciso per l’insegnamento, Guido aveva un’altra attività e io non ero più giovanissima”.

Fig. 11 Un'immagine classica: Giovanni Deiana alla cassa del Caffè Italia (particolare della foto alla fig 2, anno 1944)

Moltissimi sono gli aneddoti e le storie, anche divertentissime, che vorrei aggiungere su quel locale della mia infanzia, ma non credo sia qui necessario, né sia giusto sovrappormi ai racconti esclusivi di signora Marisa Deiana. Preciso, perché a me spetta, che nella città dei mille bar questo rappresentò per decenni un modello, grazie a quel personaggio straordinario che fu Giovanni Deiana, quello che stava in cattedra alla sua cassa posta nell’angolo che era la chiave urbanistica della città, l’umbilicus mundi di Olbia, o anche il miliarium aureum da cui tutte le strade si dipartivano, anche quelle per il Continente, e in tutte le direzioni. Quel bar modello indica e rappresenta un’epoca, un costume, un tempo, un gusto, segnando la parte centrale del XX secolo del Novecento della nostra città e, di fatto e a suo modo, riflettendone la storia recente.

Fig. 12. Giovanni Deiana insieme ad Osvaldo Gandini negli anni Sessanta (particolare di una foto di proprietà Eredi Baffigo-Deiana)

NOTE

[1] Negli Anni Trenta, per chi non lo sapesse, la macchina da espresso era infatti costituita da un grosso cilindro verticale, contenente una caldaia di ottone che veniva messa in pressione da un fornello a gas. Ai lati della caldaia erano posizionati i gruppi, simili a quelli odierni, in cui veniva messo il caffè. Ruotando un rubinetto l’acqua in ebollizione e il vapore contenuti nella caldaia passavano attraverso il macinato e in circa un minuto il caffè era fatto.

2 In Italia la prima emittente televisiva nasce solo il 3 gennaio 1954, Rai 1(nata come Programma Nazionale cambia nome in Rete 1 nel 1975 e in Rai 1 nel 2010).