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Pinta la legna - di Antonio Appeddu

Pinta la legna - di Antonio Appeddu
Pinta la legna - di Antonio Appeddu
Patrizia Anziani

Pubblicato il 02 April 2018 alle 10:07

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Con Pinta la legna,bellissimo racconto inedito, tutto da leggere, l'ospite di OLBIAchefu Antonio Appeddu debutta sul web. Dottore agronomo e politico di lungo corso assai noto in città, egli non ha certo bisogno di presentazioni. Nato ad Ozieri, legatissimo alle sue origini, e più che mai olbiese per adozione, Antonio Appeddu ha la segreta passione della scrittura e, un po’ meno segreta, quella della lettura, sebbene le due cose siano intimamente e profondamente collegate: chi ama leggere infatti prima o poi finisce anche per amare scrivere. Antonio è un uomo che ama follemente la sua terra, le sue tradizioni, la sua storia; i suoi colori e sapori; la sua autenticità; la sua unicità. Con il suo contributo, che ci riempie di gioia e soddisfazione, OLBIAchefu, rubrica settimanale di Olbia.it, arricchisce ancora la sua offerta sul passato della nostra città e della nostra terra, certa di un nuovo apprezzamento per i suoi i lettori sempre più numerosi ed affezionati. Benvenuto fra noi, Antonio! Patrizia Anziani, coordinatrice di OBIAchefu.

[caption id="attachment_96292" align="alignnone" width="1074"] Cartolina degli anni Sessanta[/caption]

Pinta la legna

"E tando, Juà, ite mi naras? Cal'est su pesu pius mannu pro sa terra?"(1), chiese Elia al fratello. Giovanni Lai, dopo un sorso di “Totoni”, rispose: "Su pesu a sa terra pius gravante est su pesu 'e s'omine ignorante" (2). E il suo pensiero andò automaticamente a quel Libero Rigatti che lui aveva considerato per anni un vero amico. In quel tempo, non conosceva bene la gente: ora capiva d'essere stato tradito. Non sapeva, allora, che bisogna diffidare di chi non ha amici e di chi ne ha troppi, e che non c’è cosa peggiore dell'ignoranza, del non sapere. A volte, quando leggeva, senza comprendere bene, un libro o un articolo di giornale, pensava: “Beato chi ha studiato e capisce il mondo!”. Ricordava le parole secche e asciutte del padre: "Molti uomini, sono come rinchiusi in una caverna, vedono solo ombre: ciò che vedono non è la realtà, ma solo l'ombra di essa!". Parole, che allora entravano in un orecchio e uscivano dall'altro. Non aveva potuto studiare: famiglia grande e pochi soldi. Il babbo faceva il muratore, la mamma, come si diceva allora“stava a casa” e c'erano tre figli da crescere. Lui era il più grande e dall'età di quindici anni aveva iniziato a trasportare legna, a potare le vigne, a coltivare l'orto ed a fare piccoli lavori tanto per guadagnare qualche soldo. Per quasi tre lustri la sua vita era fluita liscia, monotona e lenta; scandita dal passare delle stagioni e segnata, ineluttabilmente, dagli eventi tristi e felici di un'ordinaria esistenza. Unico diversivo le uscite con Carmela, nel tentativo, andato a vuoto, di approdare al matrimonio. A ventinove anni aveva conosciuto Libero Rigatti, uno scapolo quarantenne di Lecco, ed erano diventati amici. Predestinato fantasma, Rigatti passeggiava sempre solo ai giardini del Cantaro(3): nessuno lo vedeva e lo calcolava. Gavino, l'altro fratello, chiacchierando con un artigiano di Ittireddu alla festa della Madonna del Rimedio, venne a sapere che questo Rigatti aveva vissuto in passato a Ittireddu e, lì, non ne parlavano molto bene. Aveva fama di pessimo pagatore: commissionava lavori e non li pagava e, proprio per questo, era andato via dal paese. Raccontò tutto a Giovanni, che tagliò corto: "Non è possibile. Libero è un amico ed è una persona “comente si tocat”!".

Era un periodo buono per l'economia ozierese: l'abilità dei muratori locali era molto apprezzata nella costa nordorientale della Sardegna, dove si stavano realizzando enormi investimenti. Le imprese ozieresi costruivano a Olbia e dintorni, e investivano parte dei loro guadagni in paese. Giovanni, insieme a Elia, aveva avviato un centro servizi e non mancavano lavoro e soldi.Nel frattempo, Rigatti aveva aperto “unu zilleri"(4): cento metri quadrati in Sa Ena, dieci tavolini e quaranta sedie: vino a duecento lire la ridotta e tanti avventori. Sorridente con tutti, in poco tempo, grazie anche al suo rapporto con Giovanni, capì di aver trovato la formula del successo e del guadagno. Andare da Rigatti era diventata una moda. "Dove lo prendiamo oggi l'aperitivo?": "Beh, da Rigatti!". In Cantareddu(5) e dintorni non si sentiva altro. Anche Giovanni cominciava a conoscere il denaro: adesso poteva offrire al bar “coment'un'omine mannu”(6) e se gli serviva un abito nuovo, entrava nel negozio dei fratelli Mulas e se lo comprava, facendo arrabbiare la madre: "No' ti ponzes in mustra: mì chi sa zente est belosa!".(7)

Una mattina, leggendo un giornale stampato su carta gialla, Giovanni conobbe la bolla speculativa americana e la banca Lehman Brothers. Sapeva cos'era una bolla, ma quell'aggettivo "speculativa" per lui era arabo. Non diede peso alla notizia, chiuse il giornale e si buttò a capofitto nel lavoro. Qualche tempo dopo, però, arrivarono i primi segnali della crisi finanziaria, seguita dalla catastrofe economica che travolse anche lui: nel volgere di pochi mesi, il lavoro era scomparso e gli introiti si erano ridotti a quasi nulla. Le imprese non avevano più commesse e anche il centro servizi non era da meno. Solo il bar di Rigatti continuava a rimanere aperto, nonostante i clienti fossero pochi e consumassero raramente. Libero comprava auto nuove e rinnovava gli arredi del suo zilleri. La gente si chiedeva da dove tirasse fuori i soldi. Un giorno, Giovanni se lo trovò in ufficio: "Hai presente il ristorante dei Braccu? Lo compro! Sono col sedere per terra e lo vogliono cedere. Devo fare una pratica con la banca. Me la segui?". Giovanni si fece dare i documenti ma, data l'amicizia, non chiese acconti. Avviò immediatamente il lavoro e nel giro di alcune settimane il fascicolo era pronto. Intanto la crisi galoppava: le imprese morivano come mosche d'inverno e la disoccupazione cresceva con velocità impressionante. Giovanni era sempre più in difficoltà, ma nonostante ciò non riusciva a farsi pagare da Libero: "E' un amico. Quando avrà concluso l'affare, sarà sicuramente lui a farsi avanti ed a chiedermi quanto mi deve". Nel frattempo, Libero rifilava un altro bidone ai Braccu: "Poiché il ristorante ha necessità di lavori di manutenzione, mi impegno io a farli e sconteremo da ciò che vi devo". I Braccu, ormai allo stremo delle forze, non poterono che accettare il ricatto. Libero fece venire alcuni operai da un paesino dell'interno che, sulla promessa di tremila euro ed in maniera molto grossolana, raschiarono intonaci, sigillarono serramenti, rattopparono pavimenti. A costoro, lo scaltro promise: "Non appena chiudo i conti con i Braccu, avrete i vostri soldi". Non li videro mai. Nel mentre, la banca aveva erogato la somma: duecentomila euro tondi tondi, che Rigatti investì prontamente in titoli di Stato. Della vicenda, Giovanni non seppe più nulla: strozzato dalla crisi e dalla mancanza di lavoro, aveva ben altro a cui pensare. Non aveva più soldi e non sapeva come fare per racimolare quelli che gli servivano per vivere. Per fortuna non era andato in porto il matrimonio con Carmela. Oggi si sarebbe trovato con moglie e figli da mantenere: "no' bi cheriat ateru!"(8)Libero era scomparso: lo chiamava al telefono ma non rispondeva: mai!

Un giorno di luglio conobbe Gerolamo Satta. Si trovava dal verduraio quando sentì una garbata voce alle spalle: "Mi scusi, sono cetrioli locali quelli che sta comprando?". Giovanni si voltò e vide un uomo di mezza età, dal portamento signorile, abito di lino color panna e pochette carta da zucchero. Fu così che i due si conobbero e iniziarono a frequentarsi. Per quasi trent'anni a Lecco, Satta aveva iniziato facendo il cameriere alla trattoria San Cesario, per chiudere la sua esperienza lombarda come direttore del prestigioso hotel Miramonti. Stava ore, il buon Gerolamo, a raccontare le innumerevoli storie che l'avevano visto protagonista al Miramonti: attori, politici, scienziati, sportivi di fama internazionale. Tutti erano passati a Lecco ed avevano incontrato Gerolamo. "Beato lui" - pensava Giovanni - "ha avuto il coraggio e la forza di lasciare la Sardegna e c’è rientrato da gran signore". Anche la notte, nei lunghi dormiveglia, si ritrovava a pensare a Gerolamo ed alla sua invidiabile carriera. Iniziò a convincersi di poter migliorare. Se c'era riuscito Gerolamo, ci sarebbe riuscito anche lui. Così, un giorno, alla soglia dei quarant'anni, si ritrovò sull’autobus che da Malpensa portava nella città lariana.

[caption id="attachment_96319" align="alignnone" width="1024"] Panorama di Lecco[/caption]

Prese alloggio alla pensione del Sole: trenta euro a notte e bagno nel corridoio, camera semplice ma decorosa, finestra con vista sulle montagne. Trovò subito, grazie ad un annuncio, un posto da fattorino nell'agenzia "la Celere- disbrigo pratiche varie". Milleduecento euro al mese e ventiquattro giorni all'anno di ferie pagate. Lasciò la pensione e prese in affitto un piccolo monolocale con bagno in via della Libertà. Iniziava una nuova vita: addio alle preoccupazioni e ai rischi del centro servizi, stipendio sicuro, prospettive di carriera. Questa si che era vita!

Il titolare della "Celere", Alvaro Negri, era un coetaneo di Giovanni: alto e bianco come il latte, pronunciava male la zeta ed aveva un'aria triste. Appassionato di arrampicate e di erbe alpine, viveva in apnea dal lunedì al venerdì per riprendere a respirare, ed a vivere, nel fine settimana. Divoratore di strudel, era un profondo conoscitore della storia recente della sua città. Conosceva ogni vicolo ed ogni vicenda di Lecco: sapeva tutto di tutti. Fu per questo che un giorno, mentre registravano la corrispondenza e quando ancora si davano del "lei", Giovanni gli chiese "Conosce un tale Libero Rigatti?". Il Negri, con sussiego e scandendo bene le parole, rispose: "Se si tratta del Rigatti Libero che andò via anni fa da Lecco per stabilirsi in Sardegna, non so dove, posso solo dirle che era considerato inaffidabile! Mi auguro che lei non abbia avuto a che fare con lui…" Giovanni, dopo un attimo di smarrimento, ripensò alle parole di Gavino: allora era vero che Libero aveva il vizio di non onorare gli impegni che prendeva.

[caption id="attachment_96219" align="alignnone" width="816"] L'univeristà degli Studi di Sassari in una cartolina del 1939[/caption]

Col tempo, entrarono in confidenza, dal "lei" passarono al "tu" e, con sempre maggiore interesse, il Negri chiedeva notizie della Sardegna e di Ozieri. Giovanni gli disse, esagerando, che al suo paese erano tutti poeti e che il canto e la poesia in Sardegna coincidono. Non voleva credere, il Negri, che in Sardegna ci fossero due tra le più antiche e prestigiose università italiane e, quindi, del mondo; che in tutti i comuni sardi ci fossero le scuole da sempre; che l'Isola avesse il primato mondiale nell'allevamento della pecora da latte e che proprio Ozieri fosse stato uno dei primi comuni d’Italia, anzi “Città”, ad avere la rete di illuminazione pubblica alimentata da corrente elettrica. Forse anche per quel che sentiva da Giovanni, Alvaro non capiva bene il fatalismo che leggeva nelle sue parole. Ma cosa poteva fare, Giovanni, per cambiare il verso della storia e restituire dignità alla sua vita? E, d'altra parte, chi poteva spiegarglielo, al Negri, che è meglio accettarli i cambiamenti e che ad essi non è possibile opporsi? "Mi spieghi perché - incalzava il Negri - hai deciso di venire a vivere qui, fra gente che ha difficoltà a sorridere e a stringere una mano? Che mangia strudel anziché sospiri e copulete? (9)". Il Negri, anima pura e introversa, aveva imparato da tempo a conoscere i suoi conterranei: in molti erano buoni a promettere ma non a mantenere. Era arrivato a confidare a se stesso che lui, a costoro, non credeva più; neanche il Padre Nostro gli credeva.

I mesi passavano e, con essi, la vita di Giovanni: sempre la stessa, dal lunedì al venerdì, in agenzia, e dal sabato alla domenica, da solo a zonzo per la città. Ogni tanto prendeva l'autobus e saliva verso Ballabio: le prime volte carico di entusiasmo per la novità, le ultime sempre più annoiato per la monotonia dei luoghi. Lui, abituato alla varietà del paesaggio sardo, a quarant'anni, iniziava a sentirsi fuori luogo e a intristirsi quando, al suo passare, qualcuno bisbigliava "è un terrone"...Quella vita ormai gli pesava. Tra l'altro, lo stipendio non cresceva (c'era la crisi!) e le prospettive di carriera erano pari a zero: da un lato non voleva abbandonare il Negri, dall'altro non poteva continuare a stare lontano dalla sua terra per guadagnare uno stipendio che gli consentiva, tolte le spese, di mangiare una pizza a fine settimana. Il pensiero di vivere come Rigatti a Ozieri gli faceva venire il mal di stomaco!

[caption id="attachment_96300" align="alignnone" width="827"] Cartolina degli anni Cinquanta[/caption]

Così, un giorno, decise di aprirsi col Negri, esponendogli i suoi dubbi, i suoi timori e manifestandogli la sua frustrazione per non essere riuscito a fare come il suo amico Gerolamo che, venuto a mani vuote a Lecco, era rientrato in Sardegna, dopo trent'anni di brillante carriera, con le tasche piene di denaro. Il Negri, sentendo quel nome, si voltò verso Giovanni e, per la prima volta da quando si conoscevano, esibì la propria dentiera dietro una risata tanto fragorosa quanto irrefrenabile. "Gerolamo Satta? Una grande carriera? Tasche piene di denaro?" Il Negri sembrava incontenibile: si asciugava le lacrime che il riso produceva in quantità industriale. Calmatosi, riassunse la consueta aria truce: "Guarda che il Gerolamo, qui a Lecco, per trent'anni ha fatto la fame ed è stato assistito costantemente dai servizi sociali del Comune. Altro che brillante carriera! Si dice che sia sparito dopo aver fatto un bel gruzzolo al Lotto". Le speranze di Giovanni svanirono in un attimo. Nei giorni successivi, stanco ed avvilito, subiva sempre più forte la nostalgia del sole e dei profumi di Ozieri, della sua gente. Inoltre, la certezza che anche la vicenda di Gerolamo fosse ben diversa da come quello gliel'aveva raccontata, lo fece vacillare.

Addio sogni di gloria! Si chiese se poteva continuare a rimanere lì, in terra straniera, o se doveva rifare la valigia e tornare prontamente a casa. A farlo decidere fu Luisa Comini. Vedova, senza figli, quarant'anni portati bene, capelli biondi e occhi color mare. Giovanni perse la testa per lei in dieci minuti: il tempo di scambiare due chiacchiere e offrirle un chinotto al caffè Veneto. Inebriato dal profumo che Luisa distribuiva su tutto il corpo senza economia, non riuscì a proferire parola quando la donna, dopo un mese di frequentazione, gli propose: "Perché non vieni a vivere da me? Ho spazio a sufficienza per entrambi". Lasciato il monolocale, trasferì tutti i suoi effetti presso la villetta Comini, cento metri quadrati e un grande orto da coltivare. Iniziò così la seconda vita di Giovanni: fattorino dal lunedì al venerdì ed ortolano alla fine della settimana. Sapeva che, fatta bene, l’agricoltura poteva rendere: glielo diceva spesso dottor Cappeddu, l’agronomo capo dell’ispettorato agrario. Melanzane e peperoni nella stagione calda, finocchi, lattughe e crisantemi in quella fredda: per Giovanni l'orto non aveva segreti: aveva lavorato tante volte nell’orto dei Baragliu. Il suo punto di forza erano le cipolle. Era riuscito a farsi inviare un fascio di piantine di cipolle ozieresi: una specialità ed una prelibatezza per i palati lariani, che andava a ruba anche in ragione di certe sussurrate virtù dell'ortaggio, riservate ai soli uomini. Col tempo, fu necessario lasciare il posto di fattorino: Luisa, che si occupava delle finanze domestiche, da sola non riusciva più ad accudire tutti i clienti che si presentavano all'orto durante l'arco della giornata.

Per tre anni Giovanni dimorò, novello grillotalpa, dentro l'orto. Ormai faceva parte integrante del fondo: dalla mattina alle cinque, fino al calar del sole, era possibile trovarlo in azienda a legare le melanzane o i peperoni, a rincalzare i finocchi e le lattughe, a raccogliere cetrioli o fiori di zucca. Unico diversivo, le lunghe e numerose chiacchierate con don Arcangelo, un prete siciliano collezionista di minerali e amante della canzone napoletana, col quale amava conversare e che gli prestava libri e riviste della ricca biblioteca parrocchiale.

L'orto della Comini era diventato una fabbrica d'oro. I guadagni crescevano e lei, ottima amministratrice, non si sentiva più la semplice donna di un tempo ma un'imprenditrice in carriera. Grazie ai successi della gestione del suo orto, venne eletta nel direttivo regionale della più importante associazione di imprenditori agricoli. Lì conobbe tale Renzo Piersanti, industriale della carne, di bell'aspetto e dal conto in banca cospicuo.

Fu così che, in un batter d’occhio, Giovanni si trovò trasferito nel vano appoggio dell'orto, garbatamente invitato dalla Luisa a considerarla, d'ora in poi, come datrice di lavoro e niente più: d'altronde, si sa, “l'amore è eterno finché dura”. Di notte, nella branda, ad occhi chiusi, Giovanni rifletteva sulla sua vita, sugli errori fatti, sulle valutazioni sbagliate. Si chiedeva continuamente il perché di certe frustrazioni, ma non riusciva a darsi risposte convincenti. D'altra parte, sapeva di appartenere a quella razza di uomini che hanno difficoltà a confidarsi con gli amici e, addirittura, con sé stessi. A furia d'interrogarsi, capì che per essere vincenti, bisogna sapere: l'arma più potente che un uomo possa avere è la conoscenza. In fin dei conti, tutti gli errori li aveva fatti proprio perché "non sapeva". Non sapeva che tanti non attribuiscono peso alla parola data, che il denaro può accecare un uomo o una donna, che alcuni si dicono amici mentre pensano di sfruttarti. Inevitabilmente, per associazione di idee, gli venne in mente Libero Rigatti.

Insomma, Giovanni aveva capito che "non sapeva" vivere secondo le regole del suo tempo. E fu allora che si chiese se anche lui avesse o no una sorta di obbligo morale, in primo luogo verso se stesso, a sostenere la sfida della vita secondo le regole del momento. Decise allora che doveva accettare la prova e, rimanendo se stesso, affrontare i farisei sul loro terreno. D'altronde, lo sapeva che molti tra quelli che sbarcano in Sardegna si atteggiano a grandi uomini e, di norma, noi isolani ci crediamo, salvo poi scoprire che non valgono manco l'acqua che consumano! “Pinta la legna e mandala in Sardegna”, recitava un antico adagio...

Accettare il cambiamento e vivere secondo le "loro" regole...Iniziò dall'orto. Quando dovette spiantare le melanzane per far posto al cavolfiore, disse alla Comini che provvedesse lei ad acquistare le piantine. Quella, che non sapeva dove fare gli acquisti, andò nel pallone: se n'era sempre occupato lui, perché adesso chiedeva a lei? "Benissimo - disse deciso Giovanni- se vuoi che me ne occupi io, mi devi riconoscere, oltre al salario, il venti per cento del valore della produzione". Non potendo fare diversamente, pena la perdita della stagione produttiva, la Comini, messa alle strette dal “nuovo” Giovanni, dovette accettare. A dicembre di quell'anno, si fece vivo il Negri, da poco operato ai reni a Bergamo guarda caso da un urologo olbiese. Non era più in grado di fare sforzi ed era lì per chiedergli una mano nella conduzione dell'agenzia. "Me ne occupo, ma voglio il trenta per cento degli incassi" disse perentorio Giovanni. Il Negri mestamente obiettò: "Pensavo mi trattassi come un amico...". "Tu per me sei un amico: è solo per amicizia che ti darò una mano. Faccio solo come avresti fatto tu a parti invertite. Mi sono adeguato ai tuoi, ai vostri, modi di fare!".

Passarono altri quattro anni: Giovanni aveva un consistente deposito bancario, la sera vestiva con abiti di pregio ed era riverito dovunque andasse. Un movimento politico molto attivo in Lombardia, gli aveva persino proposto di fare il candidato a Sindaco di Lecco. "Non fa per me - si schermì - non ho fatto studi sufficienti per svolgere il ruolo in maniera adeguata. Chi si occupa della cosa pubblica deve essere colto. Cercate una persona preparata e capace, ma non bugiarda: i bugiardi sono pericolosi per la società e oggi ce ne sono troppi, ovunque: i risultati sono sotto gli occhi di tutti". Ormai, senza famiglia ed in "terra anzena"(10), si rabbuiava all’idea di mettere radici in riva al lago. Ogni giorno progettava il suo ritorno ad Ozieri. Adesso doveva farlo per riprendersi la sua vita, ritrovare i suoi, rivedere gli amici e…regolare una questione lasciata in sospeso.

Comunicò alla Comini ed al Negri la decisione di interrompere il rapporto di collaborazione e, sistemate le faccende burocratiche e libero da ogni impegno, eccolo sull'aereo che da Linate lo portava ad Olbia. Gli era sempre stata simpatica, quella città: la trovava aperta e accogliente e gli olbiesi erano generosi ed onesti. In più aveva un debole per le cozze: per lui erano più buone dell’aragosta. Arrivò ad Ozieri alle dieci di sera di una giornata di ottobre, abbastanza tiepida per non mettere il cappotto ma troppo fresca per non coprirsi bene. Respirò l'aria della sua città e si guardò attorno: tutto sommato, a quell'ora l'Orto del Conte era sempre lo stesso: Garibaldi che guarda verso palazzo Toufani, nel quale notò la nuova insegna dell'Ente Comunale che era stato di tiu Nanneddu, di tia Toiedda e di signora Speranza. Quanti ricordi!

[caption id="attachment_96322" align="alignnone" width="1134"] Panorama di Ozieri[/caption]

Aveva chiesto a Elia e a Gavino di venirlo a prendere. Si riconobbero subito a distanza, nonostante l'inevitabile invecchiamento, e un lungo e silenzioso abbraccio cancellò i tanti anni di distacco. Gli anni passati a Lecco vennero dimenticati velocemente, a dimostrazione che sotto il cielo di Sardegna il clima non è solo mite ma è magico: come d’incanto, riesce a farti dimenticare i travagli e le amarezze di una vita passata lontano dalla tua gente. Rivide anche Gerolamo Satta che prima gli chiese come si fosse trovato a Lecco e poi, guardingo, se qualcuno gli avesse parlato di lui. "Gerò - gli disse - non avevo tempo per “loroddos”(11). Scusami, non l'ho fatto per cattiveria, ma la vita lì era tutta casa e lavoro". Quello, forse, capì e non chiese più nulla: quando si incontravano, parlavano di calcio e di legge elettorale; mai più un accenno a Lecco. A volte, qualche amico provava ad interrogarlo: la sua risposta era sempre la stessa: "Bello il lago e bella la montagna, ma la gente è troppo diversa dalla nostra. Ci sono tante brave persone, ma i furbi non mancano proprio. Quando sei lì, sei come una pianta sradicata dalla sua terra: possono darti tutto il concime che vuoi, ma vivi male!".

Una mattina d’estate, in cui il desiderio del mare era forte, andò a Olbia, alla spiaggia del Lido del Sole, in compagnia di Antonio, un nuovo amico di Olbia, agronomo con la passione della politica. Parlarono di tutto, anche di emigrazione e Giovanni si infervorò. “Lasciamo la Sardegna convinti sempre di trovare di meglio senza capire che, fuori, sei sempre ospite e non da tutti gradito. Molte risorse le abbiamo in casa, ma non le vediamo. Siamo come chi, appena uscito da un antro buio e chiuso, si affaccia all’aria aperta e viene abbagliato dalla luce del sole. Non riesce a vedere ciò che gli sta attorno. Miglioreremo solo quando non ci faremo più accecare e abbagliare. Ti sembrerà strano, ma il riscatto verrà solo dopo la crescita culturale”. “Hai ragione – osservò Antonio – dobbiamo guardare alle cose, non alle loro ombre”. Giovanni ricordò allora le parole del padre...ora le capiva, le avesse capite prima! Un pomeriggio d'autunno s'imbatté in un anziano signore che lo guardava fissandolo in viso. Era uno dei fratelli Braccu. Si salutarono cordialmente e presero a ricordare le vicende passate.

Fu così che Giovanni ebbe notizie di Libero Rigatti. Era riuscito ad imbrogliare anche i fratelli Braccu: aveva maggiorato il conto delle riparazioni nel ristorante e, date le difficoltà economiche degli stessi, li aveva costretti a cedergli il ristorante per cinquantamila euro. Dopo aver gabbato un bel pò di ozieresi, Rigatti era inevitabilmente caduto in disgrazia: nessuno voleva più lavorare da lui e il bar era sempre "a sonu 'e musca"(12); mentre il ristorante era stato chiuso dopo una visita degli ispettori dell'ASL, perché utilizzava alimenti deteriorati. "Se lo vuol trovare, si faccia un giro vicino alla stazione dei treni: ormai bazzica solo in quella zona perché c'è poca gente e nessuno gli rivolge più la parola. Ostracismo bello e buono". Ed è lì che lo incrociò una mattina di dicembre, carica di freddo e aria di neve: con aria spettrale, camminava con lo sguardo per terra appoggiato a un bastone. Rigatti lo vide, abbozzò un sorriso e gli si fece incontro come per salutarlo. Giovanni, guardandolo fisso negli occhi, percepì il tratto tipico di chi sarebbe capace di tradire anche un proprio benefattore. Arrivato a un metro di distanza da lui si fermò, guardò in alto, annusò l'aria per essere sicuro di essere a casa, girò le spalle e, senza dire una parola, ritornò sui suoi passi. Il tempo era passato: quello della vendetta e quello del perdono.

Era giunto il tempo dell'oblio.

©Antonio Appeddu (1) "E allora, Giovà, cosa mi dici? Qual è il peso peggiore per la Terra?"; (2) "Il peso più grave per la Terra è il peso dell'uomo ignorante"; (3) Cantaro, italianizzazione di cantaru (fonte, fontana); (4) zilleri = pubblico esercizio per la vendita di vino; (5) Cantareddu = piazza di Ozieri; (6) "come un adulto"; (7) "Non metterti in evidenza: guarda che la gente è gelosa!"; (8) "non ci voleva altro!"; (9) sospiri e copulete (sospiros e copuletas)= dolci tipici ozieresi; (10) terra straniera, nel senso di terra di altri; (11) "pettegolezzi"; (12) "a suono di mosca", nel senso che, per il silenzio, si sente la mosca volare Le foto e le cartoline sono tratte dal web [caption id="attachment_96310" align="alignnone" width="812"] Veduta di Ozieri[/caption]