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"S'ozzastru 'e su tulcu": un toponimo rudalzino e la sua leggenda

Mario Spanu Babay

Pubblicato il 12 June 2016 alle 09:25

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Nella memoria degli odierni "Portorotondini" - come oggisono chiamati per celia i Rudalzini - forse è stato dimenticato ilpassatostorico di Rudalza. Smarrita "sa limba" e italianizzato il dialetto, i suoi abitanti oggi sono stati travolti dalla cadenza "continentale", orecchiata durante i loro servizi resi nelle ville dei ricchi villeggianti continentali. Non solo hanno dimenticato "sa limba",ma anche gli antichi nomi di persona, che passavano dagli avi ailoro discendenti, lentamente stanno cadendo nell'oblìo. Solamentequalcuno dei loro figli ancora oggi porta il nome di Giovanni,Paolo, Antonio, Maria, Pietro, Anna. Lentamente, a questi belli edantichi nomi, si stanno sostituendo iMirko, Deborah, Cathia, Christian,Vanessa, Ivan. I giovani rudalzini, cheoggi portano questi nomi, forse maiascolteranno brani del loro passatodalla bocca dei loro genitori: questi lohanno ormai dimenticato, cancellatodalla memoria.

La signora CarolinaAsteghene, vegliarda rudalzina morta nel 1991 a quasi novant'anni, un giorno ci raccontò una bellissima storiache da bambina spesso sentiva raccontare dagli anziani.

13342209_1005295002839866_641526102_n «Al tempo delle incursioni barbaresche, Rudalza era presa particolarmente di mira dai Musulmani. Il luogo era ricco di coltivazioni: grano, fave,orzo, ceci vi crescevano in abbondanza; nelle loro case i rudalzini avevano sempre scorte abbondanti; il latte, il formaggio e il maiale salato, conservato in capaci casse,permettevano loro di condurre una vita discreta, anche se tribolata.La vita, che conducevano relativamente agiata, era però angustiatadalla continua paura dello sbarco improvviso dei 'turchi’. Durante le razzìe i musulmani portavano via tutto: provviste;animali; attrezzi; uomini; donne e bambini. Una volta, avvenne che,in una bellissima giornata d'estate, di un anno imprecisato, mentregli uomini erano impegnati nella mietitura del grano, una ventinadi "turchi" sbarcarono sulla spiaggia di Marinella, ai piedi dell'altura di Canareddu. Nei pressi un pastorello pascolava le pecore,recatosi in cima ad un'altura avvistò la "sciabecco" che si avvcinava a terra. Intuito il pericolo, il ragazzo corse ad avvertire i mietitori. Avuta la notizia, tutti i rudalzini lasciarono i campi e di corsasi precipitarono alla marina. Un paio partirono con la falce ancora in pugno; altri con coltellacci impugnati a mò di spada; altriancora con i forconi. Quella volta i rudalzini non furono colti disorpresa, attendevano ai lavori dei campi ma erano pronti a contrastare i "mori". In previsione di una battagliaavevano elaborato anche una tattica: affrontare i turchi sulla via del ritorno verso le loroimbarcazioni, lungo il sentiero che conducevaalla spiaggia. Dopo una corsa forsennata attraverso icampi, giunti gli uomini a poche centinaia dimetri dalla spiaggia, una scena arrenda apparve ai loro occhi: donne e bambini, tra urla epianti, venivano trascinati con forza verso illegno musulmano. L’ultima delle prede, di unalunga fila che si snodava attraverso la macchiadi mirto e di lentisco, era una giovane donnache, caricata sulle spalle di un turco, gridava, si dimenava e si opponeva a quel forzato trasferimento, rallentando così l'andatura delladrone, fino ad isolarlo dal gruppo che lo precedeva. Intanto il più coraggioso dei rudalzini,che correva in testa al drappello degli inseguitori, aveva quasi raggiunto il 'turco'. Aggiràtolo da dietro una lunga e folta macchia dimirto, lo sopravanzò di una decina di passi e, con un'agilità felina,saltò fuori impugnando un grosso e affilato coltello, parandosidavanti al "moro". Il musulmano ebbe un attimo di smarrimento:non credeva ai propri occhi. Superato il primo momento di pànico, svelto si liberò dell'ingombrante 'carico' e, fulmìneo, tentò disguainare la scimitarra che teneva infilata nella fusciacca che lefasciava la vita. Tentò, ma non vi riuscì! Non fece neppure in tempoad impugnarla che il giovane rudalzino, più svelto di lui, gli vibròunapotente stoccata che lo raggiunse alla bocca dello stomaco,come se l'ira di tutti i sardi si fosse impossessata di quel braccio vendicatore.

Il coltello gli trapassò il corpo da parte in parte,andando a confìccarsi, con forza, nel duro legno dell'olivastro chesi trovava alle sue spalle. Il turco rimase così inchiodato all'albero,con il corpo leggermente curvo in avanti e con le braccia allargate, gli occhi sbarrati e sul viso una smorfìa di dolore ma anche distupefatta meraviglia, perché mai e poi mai si sarebbe aspettata unareazione tanto coraggiosa ed energica. Per molto tempo quel corpo, trafitto come sefosse stato inchiodato, fu lasciato li a mònito dei musulmani che avessero tentatoancora di mettere piede sulle spiagge di Rudalza. E fu da allora chei rudalzini chiamarono quelposto s' ozzastru 'e su tulcu(l'olivastro dove fu uccisoil turco)».

©Mario Spanu Babay

Articolo tratto da M. SPANU. BABAY, Figari. Storie del golfo e di Golfo Aranci,Editrice Taphros, Olbia 2004.

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