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Memorie postume di un vecchio marinaio terranovese

Memorie postume di un vecchio marinaio terranovese
Memorie postume di un vecchio marinaio terranovese
Giuliano Deiana

Pubblicato il 27 February 2016 alle 12:29

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Non sono andato a “sciacquare” queste pagine “in Arno”.

Mi è piaciuto, invece, concedermi qualche licenza.

Questo perché ho cercato di riprodurre,

il più fedelmente possibile, il lessico familiare e

i toni di voce delle persone di cui qui racconto e che ho amato.

Essi sono rimasti impressi nella mia memoria

e non ho potuto fare a meno di “parlare” come loro facevano con me.

Se non ci sono riuscito,

chiedo scusa per la libertà che mi son preso.

Memorie postume di un vecchio marinaio terranovese, raccolte e trascritte da un nipote un po' irrispettoso.

Mi chiamavo Giuliano Deiana. A Terranova ero noto come Bilianu Schiria.

001.nonnoGiuliano

Uomo di mare come tutti i maschi della mia famiglia: 15 mesi e 8 giorni come mozzo, 52 mesi e 18 giorni come marinaio, 159 mesi e 28 giorni come nostromo.

Quasi venti anni nella Marina Mercantile Italiana, più di sette nella Regia Marina ed il resto nel Genio Marittimo - Escavazione Porti.

Una vita in mare.

Riuscivo a camminar meglio sul ponte di una nave o sul pagliolato di una barca che non sulla terra.

Mio padre faceva l'ormeggiatore a Golfo Aranci e poi a Terranova.

Mia madre, invece, faceva la madre di otto figli.

Mia moglie, i miei figli, i miei fratelli, le mie sorelle e anche qualche mio nipote, così come tutti i miei amici e compagni di lavoro e di tazza, sono morti anche loro.

Non vivono più sulla terra.

Come me.

Io me ne sono andato il mattino di un giorno lontano del 1957.

Era un sabato, ricordo: sabato 16 marzo, Sant'Eriberto Vescovo.

Io, che pure non sono mai andato molto d'accordo coi santi per via del loro stile di vita troppo diverso dal mio, questo santo me lo ricordo.

Anche se ancora oggi non so nemmeno chi sia stato.

E anche un altro me ne ricordo, di santo: Sant'Ilario.

Me lo ricordo perché, quando ero a Genova, il quartiere di Sant'Ilario lo frequentavo.

Mi piaceva. Era un posto bellissimo e lì abitava, in una casa piena di ricordi, un vecchio capitano.

Bacán Baciccia, si chiamava, ed era di Camogli.

Quando era in mare comandava un brigantino a palo armato a Genova di cui non ricordo il nome.

Quando era in terra, invece, era comandato dalla moglie.

Lui, non il brigantino.

Ma aveva due figlie belle come il sole che a me, che allora ero giovane, piacevano molto.

E io piacevo loro.

Comunque...

Torniamo a quel sabato mattina in cui me ne sono andato, “all'altro mondo”, come dite voi.

Mi ricordo che l'ultima cosa che ho visto era un lieve baluginare di sole attraverso la tenda che oscurava la finestra accanto al mio letto.

Il suo riflesso lieve sul muro bianco che mi stava davanti, mi pareva il luccichio della superficie del mare quando c'è calma piatta e solesplendente.

E anche il profumo del mare mi pareva di sentire: quel profumo fresco d'anguria, di alghe, di onde mosse dal vento, di paesi già conosciuti o ancora da conoscere.

Odore di mondo. Profumo di vita.

Mi ricordo che non riuscivo a parlare molto bene. Avevo la lingua legata come mi capitava quando avevo bevuto un po' troppo. Anzi: molto peggio.002-nonna Giua vecchia

Ma questa volta mia moglie Pietrina non mi sgridava. Stava accanto al letto e credo che mi guardasse con aria incredula, vestita nel suo abituale abito nero.

Sempre col fazzoletto in testa che non si era più tolto da quando erano morti i suoi due figli.

I nostri figli: Miuccio e Mario.

003 babbo-zioMario

Era tutto così confuso!

Nella mia testa si mescolava tutto. Come quando ero ubriaco.

Ma di più. Molto di più.

Dov'ero? In mare? Sì, dovevo essere in mare. Il suo odore confidenziale mi consolava.

O ero ancora sotto le bombe? Sì, c'era di sicuro il bombardamento perché la testa mi esplodeva in mille pezzi a ogni scoppio, a ogni battito di cuore.

Poi erano venuti a dirmi che i miei figli erano morti.

Di Mario, il più piccolo, mi pareva di aver dimenticato anche i lineamenti del viso, ma Miuccio sì, Miuccio me lo ricordavo sempre nel volto del figlio. Di mio nipote. Di Giuliano Deiana. Di Bilianu Schiria come me.

Non mi rammento bene - è passato tanto tempo ormai e io stavo morendo, e non avevo vissuto mai un'esperienza come quella, anche se, qualche volta, mi ci ero avvicinato parecchio - ma mi pare di aver chiesto dimio nipote a Teresa mia figlia.ziaTeresa

Dov'è Giuliano?

Oh ba', Giuliano a quest'ora è a scuola. Non sapete che il mattino va a scuola?

In mare con Pietro? Pure lui a fare il palombaro?...

No, a scuola dove si studia coi libri, non con zio Pietro.

E' da tanto che non lo vedo...

Ma se è venuto ieri all'ora di pranzo! Vi ha portato l'acqua di mare e ha voluto assaggiare i ravioli col sugo che stavate mangiando.

Ah sì! Mi ricordo: Giuliano era venuto e aveva mangiato due o tre ravioli dal mio piatto.

Con la mia forchetta.

E a me era piaciuto molto che mio nipote non avesse avuto disdegno di mangiare dal mio piatto e con la mia forchetta.

Ma solo quelli conditi col sugo di pomodoro mangiava. Io, invece, mi ero imparato a Genova a condire i ravioli col vino, e qualche volta me li preparavo così. Ma lui non li voleva.

Tontolone, assaggia che son buoni.

No, no e no! Non mi piacciono i ravioli col vino.

E assaggiali!

Nooo! Non ne vogliooo...

Peggio per te. E allora inzuppati un pezzetto di pane nel vino, che ti fa crescere.

E lui prendeva una crosta di pane, la intingeva nel mio bicchiere e se la mangiava, tossendo poi per mezz'ora.

Ohi, ohi... se l'avesse visto mia nuora! Se l'avesse visto Paolina!

Sarebbero stati mal di pancia per me.

Già bastava e avanzava mia moglie:

Ma non sarai matto no a dare il vino a tuo nipote! E cos'è, lo vuoi far diventare ubriacone come te?

Quel mattino, qualcuno era andato a chiamare mio nipote. Erano entrati nell'aula dove lui era e dovevano avergli detto:

Deiana, spicciati! Tuo nonno sta morendo e vuol vederti.

Lui si era spicciato. Aveva fatto la strada tutta di corsa. Era arrivato ansimante in casa, in via Cavour.

Aveva aperto la porta della mia camera da letto.

Ero già morto.

Seduto sul mio letto con le braccia penzoloni, due donne mi sostenevano tenendomi come potevano: mi stavano vestendo per il mio ultimo viaggio.

Avevo ancora gli occhi aperti, ma non vedevo più mio nipote.

Ora lo vedo impietrito sulla porta, davanti a me, con gli occhi più sbarrati dei miei. La bocca aperta in un grido che allora non udii ma che oggi mi rintronerebbe ancora nelle orecchie, se le avessi.

Mi vengono in mente le secchiate d'acqua di mare che mi portava dal porto perché io potessi bearmene odorandola, lavandomi il viso, immergendovi i piedi che l'aterosclerosi mi faceva gonfiare. Poi calzavo col suo aiuto le mie vecchie polacche, senza lacci perché non sopportavo più alcuna costrizione, e, tutt'e due, tenendoci sottobraccio, ce ne andavamo a passeggio su e giù per il corto corridoio di casa.

Oh Bilia', te lo ricordi quando ti portavo a pesca con tuo cugino Salvatore?

Si, nonno Giulia'; me lo ricordo.

Tu diventerai anche un bravo marinaio, se impari a fare i nodi però; ma come pescatore, non sia nessuno!

E perché?

Perché non te ne importa nulla di pescare. Perché ti metti a sbadigliare quando butti la lenza. Perché quando io o tuo cugino Salvatore tiriamo su un pesce, tu dici poverino al pesce. Perché invece di riavvolger la lenza sul sughero la ingarbugli sul pagliolo; la imbulii come si dice in olbiese. Le tue lenze son sempre incattivate con qualcos'altro

Ma una volta ho pescato pure io!

Si, ma il pesce t'ha portato via il bolentino dalle mani perché tu ti eri addormentato. Ohi!, diventerai studiato, ma di pesca proprio... Non hai preso da me, no! Come tuo babbo: uguale e preciso in tutto sei.

Ma nemmeno tu eri un pescatore; eri un marinaio, un navigante.

Ebbe'?, pescare mi piaceva lo stesso. Eppoi, quando ero giovane e navigavosui bastimenti, se volevi mangiare carne fresca, dovevi arrangiarti a pescare.

E così avanti e indietro per il corridoio fino a che Pietrina, mia moglie, dalla cucina, non ci gridava:

...finita l'avete di consumare le piastrelle del pavimento?

Eh!... quante cose mi ritornano alla mente adesso! Ora posso rivederle tutte, ad una ad una.

È come se, guardandole dall'alto senza più materia, le rivivessi un'altra volta. Istante per istante.

È come stare al cinematografo.

Ma un cinematografo buio buio e luminosissimo insieme.

E non ci sono spettatori.

Solo tu che guardi te stesso e chi ti è stato vicino.

Altro che quello di Balzano!

M'è venuta voglia di raccontare.

Di raccontare tutto come una volta facevo con mio nipote che era sempre il più curioso e mi stuzzicava coi suoi “perché?”, “per come”, “e quando?”, “e dove?”, “e lui cos'ha detto?”, “e tu cosa hai fatto?”.

Non la smetteva più!

Ma io ero contento che non la smettesse più.

Anzi davo più lasco alla cima perché lui assuccasse di più.

Ma a chi racconto qui dove sono ora?

Non c'è uno, in questo nostro mondo strano per voi, che non abbia qualcosa da raccontare e grande desiderio di farlo.

Ma nessuno che voglia ascoltarti.

Quasi quasi mi conviene far finta d'aver ancora le ossa addosso e sedermi col pensiero a fianco di mio nipote che adesso, però, è diventato vecchio anche lui.

Che strano che sia vecchio, con la barba bianca. L'ho lasciato che era un ragazzino!

A me sembra che non sia passato neanche un minuto.

Ma qui il tempo non passa.

Da voi invece si.

Chissà se riuscirà a sentirmi e se, soprattutto, avrà voglia diascoltarmi.

Ci provo...

Mi siedo, come una volta facevo, sui gradini del palazzo di Careddu, in faccia a piazza Matteotti - in piazza Mercato, si diceva una volta - e invece d'avere a fianco mio fratello Pietro e gli altri amici a consumare l'ultimo raggio di sole prima che la giornata finisca insieme all'ultimo pizzico di tabacco da metter nella cartina o all'ultimo mezzo toscano che le nostre parsimoniose mogli ci concedevano, mi immagino d'avere a fianco il nipote mio più piccolo: Giuliano.

Bilianu Schiria, come me.

Eccomi qui.

Sai, Giulia', tu non eri il mio prediletto. Ma solo perché non ho mai avuto predilezioni particolari, né fra i figli, né fra i nipoti.

Salvatore, Antonello, tu: per me eravate tutti uguali.

Ma tu eri il solo nipote maschio, figlio di un figlio maschio.

Saresti stato il mio erede al trono, se fossimo stati una famiglia di re: Bilianu Schiria Sicundhu.

So che un terzo Giuliano non c'è stato.

Pazienza per me e pazienza anche per te.

E poi eri il figlio di Miuccio. Del mio Miuccio. Morto sotto le bombe americane quel venerdì pomeriggio di un 14 maggio di guerra.

Quel pomeriggio, a Padru, tua madre che ti cuciva un pagliaccetto nuovo, si era sentita sfiorare una spalla. Una carezza lieve:

Oh Miu'! Già arrivato sei?

Si era voltata ma il suo Miuccio non c'era.

Solo i boati sordi e lontani - nemmeno tanto lontani - delle bombe che piovevano su Olbia.

A tua nonna Pietrina - nonna Giua, tu la chiamavi - avevo detto che era morto fra le mie braccia insieme all'altro mio figlio, tuo zioMario.

E invece non era vero. No, non era vero nulla.

Di tuo zio non era rimasto che qualche brandello appeso a un albero d'arancio divelto nel giardino dei Degortes.

Si, proprio quello davanti a casa.

Ah! se non fossi sceso al porto, quel giorno! E se Mario fosse rimasto in casa, come gli avevo detto, invece di rifugiarsi in quel frutteto!

La nostra casa rimase intatta. Solo gli sciacalli la misero a soqquadro.

Ma il bombardamento era già finito allora.

Gli americani se n'erano andati e a terra ci avevano lasciato solo morti, macerie e i nostri occhi per piangere.

Di tuo padre, invece, non mi fecero vedere nulla.

Nulla volle che io vedessi Nardino Defilippi che lo aveva trovato supino sul marciapiede davanti alla barberia di Spano in via Regina Elena.

La bomba era caduta qui, dove ora siamo seduti, a poca distanza da casa mia e a poca distanza da casa sua dove tutti insieme stavate con mamma, zie e tua nonna Marianna prima che sfollaste a Padru. Là, in via La Marmora.

Di cose di tuo padre, Nardino mi diede quel poco che trovò: una penna stilografica004portafoglio-pennae unportafoglio. Si quelli che ora tu hai.

L'orologio glielo avevano già rubato. E tua madre, dopo, lo vide indosso a un uomo in via Nuova.

Io ero un uomo forte allora. Allenato alle fatiche del mare. Ma quella sera non mi sentivo più il corpo.

Come non me lo sento ora.

E nemmeno l'anima mi sentivo più.

Mi impedirono di vederli i figli miei. Vidi solo una sola bara di legno grezzo per tutt'e due insieme.

E poi quella bara fu murata in una tomba. Insieme a un'altra bara più piccola.

C'era una bambina in quella bara più piccola. Non si sapeva chi fosse.

Benignu, il becchino, mi chiese se poteva metterle insieme quelle due bare. Io dissi di si, così che tua nonna sapesse che dietro quel marmo c'erano davvero due bare: una per ciascun figlio.

Benignu murò quelle bare.

Ma a tua nonna, a Padru, e a tua madre, dissi di averli abbracciati io i miei figli morti.

005triciclo Tu avevi un piccolo triciclo di ferro e provavi a giocare in un campo di fave.

Piangerei, se potessi, a ricordare quel momento. Anche adesso che son morto anch'io, piangerei.

Piangerei anche se so, ora, che la morte, quando sei morto, non è poi quella cosa terribile che io credevo fosse quando ero ancora vivo.

La morte! L'oltretomba! I fantasmi!

Te l'avrà raccontato mille volte quella pettegola di tua nonna quanto io temessi i morti, gli spiriti e le anime in cerca di requie.

Dovrei aver paura di me stesso ora, e, invece, son qui a parlare con te, se puoi ascoltarmi.

E poi, lo sai?, lì dove ora io sono, “lassù, nell'aldilà” come dite voi vivi, ho trovato tante persone che credevo d'aver perse: mio babbo, mia madre, i miei fratelli Giovanni, Antonio e Miria morti prima di me.

E anche Maria. La nostra adorata sorella Maria.006maria

La sola femmina della nostra famiglia che chiamassimo abitualmente col soprannome Schiria.

Maria Schiria.

Quella che ci controllava quando, sbarcati a Genova da qualche viaggio, andavamo a casa sua a trovarla.

Quella che ci odorava in bocca per controllare se avevamo bevuto.

Giuro che scrivo una lettera alle vostre mogli. A Annamaria, a Marianna e pure a Pietrina, se non mettete testa. Ubriaconi e spreconi che non siete altro! A Antonio già ci penserà Pina la moglie, qui, a metterlo a posto appena torna a casa. Quelle sante donne a crescervi i figli a casa e voi a ...

diceva a Pietro, a tuo nonno Giovanni e a me senza mai concludere la frase. Ma cosa intendesse dire era ben chiaro a noi che lo sapevamo per esperienza diretta e comprovata.

Il marito, Bainzu Serra Corigheddhu, si arrabbiava e le diceva di star zgavino.serraitta. Che non doveva impicciarsi così con i fratelli tutti belli grandi e grossi. Le diceva:

E cos'è, non te ne basta uno di marito da sgridare? Già bastano le loro mogli per loro!

Ma noi ce la ridevamo e, lasciata via San Bernardo dove abitavano, facevamo un'ultima tappa al Caffè degli Specchi in salita Pollaioli e, qualche volta, - ma l'idea era quasi sempre di Pietro - prendevamo una carrozza e tutti e tre, scendendo per via San Lorenzo, buttavamo caramelle e monete per il gusto di vedere donne e ragazzini rincorrerci.

Era una festa, era.

L'ho rivista Maria e mi ha raccontato che è morta a Genova. Di tisi è morta.

Io già lo sapevo da vivo che mia sorella era morta. Ma quel che non sapevo era una cosa che mi ha trasmesso tutta la sofferenza che lei ancora sentiva.

007giuseppeMi ha detto che quando era all'ospedale, al San Martino, tutti i giorni andava da lei il figlio maschio più piccolo, Peppino e le portava una gamella di minestra che qualcuno in casa cucinava.

Lei gli dava un bacio e con una carezza gli lisciava i capelli.

Peppino aveva sei anni.

Un giorno, la suora che lo faceva entrare in corsia accompagnandolo al letto della madre, gli aveva appoggiato affettuosamente una mano sulla spalla e gli aveva detto:

Vai Peppino. Ritorna a casa. La mamma oggi non ha fame. Ora dorme. La bacerò io per te.”

Maria m'ha detto che ha seguito quel suo piccolo figlioletto in silenzio; piano piano per i caruggi di Genova. Col pianto nel cuore che ormai non le batteva più e aiutandolo a portare quella gamella di minestra perché gli fosse più leggera e perché qualche malandrino morto di fame non gliela rubasse.

Poi lo ha lasciato ed è dovuta tornare lì dove doveva.

008nonno Giovanni-RiccheddhuHo visto anche tuo nonno Giovanni e mio nipote Richeddhu.

C'era pure Pappagalletto con loro.

Quanto vi abbiamo cercato Jua'! Tu non sai quanto.

Già lo so, già lo so...

m'ha risposto tuo nonno che è stato sempre di poche parole. A meno che, dietro un bicchiere di vino, non dovesse raccontare storielle divertenti o prenderci in giro, me e Pietro, per le nostre paure ancestrali.

Quasi che lui non ne avesse paura degli spiriti sulla terra!

Sai?, te lo avrà raccontato tua nonna Azara, prima che il marito facesse naufragio, lei aveva sognato la suocera, mia madre Maurizia insomma, che, però, non aveva mai conosciuto nella realtà perché mamma era morta prima che lei si sposasse con Giovanni.

Nel sogno l'aveva vista come una donna lunga lunga. E, infatti, mamma aveva una statura alta.

Era entrata in casa, aveva appoggiato una mano su un pomolo del letto e poi aveva guardato intensamente, una per una tutte le sue cinque nipoti.

009nonnaAsaraeOrfanella

Il mattino dopo, quando tua nonna ha raccontato il sogno a Vittoria Poddighe - sai, la sorella di Carolina, te la ricordi? quella che aveva il negozio in via La Marmora!

In casa di Marianna deve succedere qualche cosa di grande!

aveva detto Vittoria.

E infatti qualcosa di grande successe: il San Silverio fece naufragio e nessuno più tornò.

010zioAntonioE pure Antonio ho incontrato. Il più piccolo di noi fratelli Schiria! Povero Antonio!...

Gli ho chiesto dov'è sepolto quel che resta del suo corpo.

Mi ha detto che neanche lui lo sa, tanto è ancora rintronato da quell'esplosione tremenda che non gli ha dato nemmeno il tempo di dire Gesummaria volando in aria come i gabbiani.

E mi ha raccontato anche che tu ti sei interessato a lui e che spera tu riesca a scoprire dove sono finite le sue poche ossa. O quel che ne è rimasto.

Non che gli importi molto di sapere dove sono, ma questo tuo interesse per lui lo considera come un segno del tuo legame affettivo con quella che è stata la sua famiglia e il suo mondo.

Tu non lo hai conosciuto, ma lui mi ha detto che sa tutto di te da quando hai incominciato a pensare a lui.

Chi ancora non mi è capitato di vedere, invece, è Stefano. Lo abbiamo cercato in terra quando se n'è andato in America, lo cerco qui anche ora che siamo morti.

Ma non lo trovo.

Ma sai bene che il nostro mondo è assai più grande e popoloso del vostro. Quanti morti ci sono stati da Adamo e Eva in poi?

Ho sentito che anche tu una volta hai detto che, se vuoi trovare la gente che conosci, devi andare in cimitero invece che in piazza.

Voi, su quel mondo lì, siete quattro gatti arruffoni che, cercando di sopravvivere, sovente vi date fastidio, se non la morte, l'un l'altro. Noi qui, invece, siamo in tanti e ci sopportiamo.

Lui, Stefano, ogni tanto ci scriveva una lettera quando era vivo. E tutte le volte che ci scriveva capitava una disgrazia in famiglia.

La prima volta tuo nonno Giovanni che ha fatto naufragio col San Silverio. La seconda volta Antonio che è saltato in aria con l'Artiglio.

E allora tutti ci siamo detti:

...e in ora buona! E' meglio che non scriva più!

Tu pensa che mio padre, tuo bisnonno Giuseppe, è morto col suo nome sulle labbra.

Stevene mio, dove sei?

Pover'uomo!

So che anche tu lo hai cercato, ma senza grandi risultati. La sola cosa che avete trovato è la sua scheda di sbarco ad Ellis Island.

Poi, anche tu, hai perso le tracce.

Biliane', mi sto facendo prendere un po' dalla malinconia. Ho quasi parlato solo di morti che tu non hai mai conosciuto come persone vive.

Ti parlerò di me ora. Almeno tuo nonno Giuliano lo conoscevi anche quand'era vivo e gli volevi bene.

Ti racconterò di me, allora.

Magari di quando ero giovane.

Ti dirò quello che non sai, o quel che ti sei dimenticato.

Peccato, però, che tu non possa parlarmi per chiedermi quel che di più vuoi sapere di me. Non puoi dirmi, come una volta mi dicevi:

Dai nonno. Dai, dai... racconta. Dimmi di quella volta che sei caduto in acqua e t'è venuto lo Spiritosanto in testa.”.

Intanto non era lo Spirito Santo ma una colomba. O un piccione. O un altro uccello che non so.

Ma non era un gabbiano o un uccello marino. Quelli io li conoscevo.

Eppoi non ero caduto in acqua, ma in mare. Ero caduto in mare mentre navigavamo.

Sai, allora i comandanti non andavano tanto per il sottile con noi giovani mozzi. La disciplina era rigida e le punizioni severe.

Non che si arrivasse al giro di chiglia. No, questo no. Però erano severe.

Dovevano formarci il carattere, dicevano, e far di noi provetti uomini di mare pronti a ogni disavventura potesse capitarci. Ci insegnavano la sopravvivenza in mare, ci insegnavano.

Quel giorno, era estate, navigavamo nel Golfo del Leone. Eravamo partiti da Marsiglia con un veliero che non mi ricordo nemmeno più che cosa trasportasse. Un brigantino a palo anche quello.

012golfoLeoneBrigantino

Si chiamava Prospero Padre e lo capitanava un altro Bácan Baciccia di Camogli. Baciccia Schiaffino si chiamava.

Eravamo diretti a Genova. O forse in Corsica.

Il mare non era cattivo, quella mattina, ma era un po' formato; ma solo un poco, e tirava una brezzolina piacevole.

A me, il secondo, aveva comandato di stare fuoribordo, a pitturare la murata, su un bansigo fatto da una tavola e da due cime date di volta su due bitte del ponte.

È una cosa che non va fatta in navigazione, ma lui la fece.

La prua tagliava l'acqua e qualche spruzzo dei suoi baffi arrivava anche a me.

Ad un certo punto, quando meno me lo aspettavo, una forte raffica di vento improvvisa ha fatto straorzare la barca e io, come un piombo, son caduto giù.

Risalgo in superficie e intanto penso:

Be', ora daranno l'allarme di uomo in mare e mi recupereranno. Magari il secondo si incazzerà pure perché dovevo imbracarmi.

Invece nulla.

Il Prospero Padre continua la sua rotta come se non avesse perduto nulla.

Nemmeno lo sbatacchiare delle cime del bansigo vuoto sulla murata sentivano. E come potevano sentirle?!...

Insieme a me erano caduti anche la tavola su cui ero seduto e il bugliolo della pittura.

Meno male che era un bugliolo grande. E meno male che, nella caduta, tutta la pittura s'era rovesciata in acqua. E meno male, soprattutto, che cadendo lo avevo tenuto ben saldo in mano.

Ora mi metteranno in conto pure la pittura...

ricordo d'aver pensato.

Quando ho visto il mio bastimento sfumare nella nebbiolina dell'orizzonte, allora ho pensato che per me era arrivato il momento di dire le preghiere.

Mi son venute in mente tutte quelle che mi aveva insegnato mia nonna e le ho dette tutte, una dietro l'altra come ho potuto. Un po' pasticciando e un po' inventando.

Lo sai che io non sono mai stato tanto bravo nelle cose di chiesa.

Pedalavo in acqua e, intanto, con una mano tenevo ben dritto il bugliolo in superficie perché non si riempisse d'acqua e così galleggiasse e con l'altra mi tenevo aggrappato strettamente allatavola come se fosse stata la cosa più preziosa del mondo.

La mia idea era quella di legare con la cintura dei pantaloni - che poi era un pezzo di sagola - il bugliolo rovesciato e pieno solo d'aria sotto la tavola perché facesse da galleggiante.

L'operazione, in testa mi sembrava semplice da fare, in acqua, invece, la cosa s'era dimostrata un po' più complicata.

Il bugliolo continuava a rigirarsi e a riempirsi d'acqua e minacciava didiventare una mazzera che tirava sempre più giù.

La “cintura” che avrebbe dovuto assicurare il galleggiante improvvisato alla tavola, non teneva e l'unico risultato che avevo ottenuto era stato quello di far calare giù i calzoni fino ai piedi.

Ma non li persi, no. Me li sfilai del tutto perché m'impedivano di pedalare e con essi ebbi l'idea di legare il mio braccio destro, quello col quale mi tenevo abbrancato alla tavola, alla tavola stessa.

Così non perdo la tavola...

avevo pensato.

Le ore passavano con una lentezza esasperante. Pareva che il tempo si fosse fermato. E, insieme a lui, sembrava che si fosse fermato anche il mio cervello.

Mi vedevo in acqua, ma mi vedevo dall'alto, estraniato. Fuori dall'acqua e sospeso a un filo come non fossi io a reggermi a galla con la forza della disperazione.

L'orizzonte era una linea vuota. E la superficie del mare uno spazio irreale.

Quando i crampi cominciarono a farsi sentire, allora cercai di cavalcare la tavola. Non fu facile. Ma poi ci riuscii.

Mi sdraiai su di essa come se fosse il miglior letto.

Le onde formavano una leggera spumetta e io pregavo Dio e tutti i santi che conoscevo perché non diventassero più alte, 'ché qualche barca passasse e 'ché, soprattutto mi vedessero.

Il sole tramontò alle mie spalle e lasciò il posto, piano piano, ad una notte senza luna ma con tante stelle.

Le contavo una per una come si contano le pecore per cercare il sonno. E m'addormentai sul mio letto di legno e d'acqua.

Non fu un sonno pesante perché una parte di me rimaneva ben consapevole di dover tenere saldamente stretto il mio “vascello”. Ma dormii.

Mi svegliarono il freddo e la sete ma non il sole perché nel cielo un po' meno buio continuavano a baluginare stelle meno lucenti.

Scesi in acqua e tenendomi aggrappato a poppa della mia tavola, senza troppo sforzo, cominciai a battere i piedi con estrema lentezza come se volessi spingerla in avanti. Non volevo raggiungere alcunameta. Volevo solo cercare di muovere un po' i muscoli sperando di riscaldarmi un poco.

L'esercizio durò solo un attimo perché temevo di affaticarmi troppo.

Mi ricordo che cercavo di respirare col naso per diminuire al massimo la disidratazione e di non pensare a nulla. Proprio a nulla, per risparmiare tutta l'energia possibile e per non cadere nel panico.

Mi appisolai ancora e quando mi svegliai fu perché il sole scaldava la mia schiena.

Il mare era diventato una superficie piatta colorata di cobalto.

Con la guancia appoggiata alla tavola guardavo un nulla lievemente ondeggiante.

Niente che variasse, seppur di poco, la monotonia di ciò che guardavo. Ad occhi chiusi riuscivo a vedere molte più cose di quante ne vedessi ad occhi aperti.

Per questo decisi di tenere gli occhi chiusi.

Quando sei il solo essere vivente di un mondo sconfinato e irreale, allora il tempo non ha più dimensione.

Come ora.

Anche se adesso non sono più vivente e non sono certo solo.

Riaprii gli occhi dopo quella che mi parve un'eternità.

Il sole non c'era più. La sua debole luce riusciva solo a filtrare attraverso un denso strato di nuvole cariche d'acqua.

Mi misi in posizione supina con gli occhi fissi alle nuvole, la bocca spalancata e nel cuore una muta invocazione perché cadesse la pioggia.

Tu sai quanto mi piaceva il buon vino e i buoni distillati e quanto poco, invece, gradissi l'acqua, ma nessuno di quei vini, di quei distillati, a mia memoria, mi pareva tanto piacevole come quelle gocce d'acqua che cadevano per lavarmi il viso e bagnarmi la gola.

Bevevo e ridevo insieme, e mi sentivo felice come mai mi ero sentito.

Poi la pioggia cessò, all'improvviso come mi era sembrato che fosse venuta.

E io rimasi, nel buio che era sceso, a cullarmi sulla mia tavola, mio unico rifugio sicuro.

Il mare mi portava non so dove. E io mi sentivo solo una piccolalarva nell'immensità del nulla.

Senza più coscienza. Senza più ricordi. Senza più volontà. Senza più anima.

Ora che parlo con te, io morto da cinquantanove anni, mi sento più vivo di quanto non mi sentissi allora.

Poi mi ridestai all'improvviso. Ripresi coscienza del mio essere in un mondo fatto d'acqua e di strane, sconosciute trasparenze che mi avvolgevano mentre io cadevo sempre più giù in un abisso profondo e azzurro.

Riuscii a risalire in superficie succhiando l'aria con l'avidità di uno che non vuol morire.

Ero caduto dalla tavola che, incurante di me, s'allontanava trasportata dalla corrente.

E io ero troppo stanco per raggiungerla. Troppo vuoto per tentare di nuotare.

Un flebile sole filtrava dalle ultime nuvole residue.

Desiderai di fermarmi. Sognai di fermarmi. Una quiete immensa mi pervase le membra. Potevo finalmente riposarmi.

Ma l'istinto della sopravvivenza è più forte. Così mi ritrovai a galleggiare come un povero relitto qualsiasi di cui le maree possono fare quel che vogliono.

Mi distesi sull'acqua, come un pesce morto, come in una culla e chiusi gli occhi pensando al nulla.

Non so dirti quanto tempo rimasi così. Forse pochi minuti. Forse tante ore ancora.

Poi, piovuta da non so dove, qualcosa si posò sulla mia testa.

Non so se mi sentii ghermire i capelli da piccoli artigli o se, invece, furono dita morbide e delicate di donna a carezzarmi la testa.

Mi risollevai e pedalando cercai di stare a galla verticalmente. Provai, con una mano, a capire che cosa avessi in testa e quella cosa volò subito via. Ma per poco, perché presto ripiombò sul mio capo.

La cacciavo via con un gesto stanco della mano e lei, subito dopo, riatterrava sulla mia testa più stanca e più disperata di me.

Rimanemmo così per un tempo indefinito, io a fare il galleggiamento verticale con le ultime forze che mi restavano e quella cosa strana sul mio capo come un pappagallo sul trespolo.

Poi, prima che la coscienza mi abbandonasse definitivamente, vidi una prua dirigersi verso di noi e il fischio di un vapore, così riconoscibilmente familiare, così affettuosamente vicino, mi accarezzò le orecchie.

Mi issarono a bordo non so come e sparii nelle nebbie assolute dell'inconscio.

Mi dissero che ero stato in mare per circa tre giorni e che la deriva mi aveva spinto fin quasi alle coste della Corsica.

013Boccognano

Il piroscafo che mi recuperò si chiamava Boccognano ed era partito da Ajaccio diretto a Marsiglia. E fu così che feci ritorno a Marsiglia.

Ricordo il comandante di quella barca. Era un vecchio corso, ispido nei baffi e nei capelli ma non nell'animo. Parlava con me un patois imbastardito dal francese e dall'italiano e io gli rispondevo in gallurese.

Mi raccontò che ero stato proprio fortunato:

Italianude Sardaigne, tu lasai perché ti ha vistu le timonier? Perché il l'a pris la curiosité di sapè su che cosa avia piglià appoghju quella colomba. No si vidìa mancu unu carcame, mais idda semblait reposer pas sur l'eau mais su qualchì cosa che galleggiava. Ognitantu elle se levait in un miseru volu, mais poi tombava su qualchì cosa où annantu avia piglià appoghju. Era più fiacca di te, la mischina...

e così dicendo alzava lo sguardo verso la crocetta dell'albero di maestra su cui, tranquilla e indifferente, stava appollaiata una colomba bianca.

“...idduè le Saint-esprit. Tu la poi dì!: è lu Spiritu Santu.

e così dicendo si segnava col segno della Croce.

Te l'avevo raccontata questa avventura? Si che te l'avevo raccontata. Ma ora, dopo tanto tempo, ho voluto raccontartela nuovamente. Magari l'avevi già dimenticata...

Quando ritornai a Genova, invece di andare a ringraziare Dio - a quello ci pensò mia sorella Maria - me ne andai al mio solito Caffè degli Specchi e mi presi una ciucca che me la ricordo ancora.

Però, poi, Maria mi convinse ad andare alla Madonna della Guardia per accendere qualche candela.

Riuscii a dirle anche grazie col cuore a quella Madonnina dal volto bello e gentile.

Le avrei portato la mia tavola della salvezza se non l'avessi persa in mare. E anche la colomba Le avrei portato, se non fosse scappata appena attraccammo a Marsiglia.

La disavventura, forse perché fu a lieto fine, non mi fece passare la voglia di imbarcarmi. Anzi!

Di quella strana cosa che mi era capitata, ricordavo solo il bello: il profumo quieto del mare e del mistral che s'annuncia ma non arriva, le gocce di pioggia sul mio corpo e nella mia gola, il cullarsi disperato sulle onde deboli a bordo di una tavola amica, una colomba bianca che mi afferra i capelli e lì ristà, ferma, come se il suo approdo sicuro fosse stata la mia testa.

Eh... nipote mio! Quanti ricordi! Li ho tutti nella mia mente contemporaneamente. Come se tutta la mia vita fosse un unico solo ricordo.

Davvero mi sarebbe piaciuto molto che tu potessi parlarmi.

Che tu potessi farmi delle domande.

Che mi tu potessi chiedermi quel che io avrei dovuto chiedermi più spesso, allora:

nonno, ma c'è qualcosa di cui ti sei pentito? Qualcosa che rimpiangi di non aver fatto quand'eri vivo?

Oh sì! Di tante cose mi son pentito. Non di tantissime. Ma di una ho proprio peso per non averla fatta come avrebbe dovuto essere fatta: non ho aiutato i miei figli quanto avrei dovuto e potuto.

Soprattutto tuo padre non ho aiutato a fare quel che lui voleva. 017peppinoGiovanni

Gli altri, Peppino, Giovanni, volevano fare i palombari o i marinai come Pietro e come me, e ci sono riusciti. Mario voleva lavorare in farmacia da Giorgini e ci ha lavorato fino a che è morto.

Lui no. Lui voleva studiare.

Il mare è stato il maestro di tutti i Deiana...

gli dicevo io. Ed era vero.

Ma lui era bravo con la carta, con la penna e con i libri. Si è fatto sempre valere anche senza il mio aiuto. Ha fatto tutto da solo. Ma se lo avessi fatto studiare, forse, per lui sarebbe stato tutto diverso.

Ti giuro che la mia non è stata una condotta dettata da cattiveria, da malanimo, da disamore per i miei figli. Ero sempre lontano. Non vivevo la loro realtà quotidiana. Pensavo che stessero bene come io stavo bene.

Io avevo una buona paga allora. Ma sprecavo anche molti denari. Donne, liquori ed ogni genere di spasso quando ero a Genova o quando approdavo in qualche porto.

Non mi facevo mancare nulla.Come tutti i marinai.

Alla tua nonna e ai miei figli mandavo quel tanto che mi sembrava giusto e doveroso spedire.

E, invece, ora so che quel che davo loro era poco. So che Pietrina faceva fatica ad arrivare a fine mese. Ora so che a colazione, nella tazza del caffellatte, i miei figli mettevano le croste di pane duro avanzate dalla cena della sera prima.

015bisnonnaE quando la colazione la preparava mia suocera Bainza Paneddha, che, non ne abbia peso, oltre a veder poco era anche abbastanza distratta dalla vecchiaia, se a cena s'era mangiato pesce, nella tazza del mattino ci finivano, insieme alle croste del pane, anche le teste del pesce e le lische.babboRagazzo

Miei figli che avrebbero potuto vestirsi d'oro, indossavano, invece, delle mie giacchette vecchie, rovesciate e ricucite.

E io buttavo il denaro insieme a mio fratello...

Ma ero solo! Ero solo e mi facevo prendere dalla malinconia.

Se solo mia moglie mi avesse seguito come faceva sua sorella Annamaria con Pietro!

Non lo mollava mai. Se lui andava a Genova, anche lei andava a Genova. Non lo mollava proprio mai, e lui, fino a quando non gli veniva la mosca al naso, era costretto a fare il parsimonioso.

nonnoPietroAnnamaria

Eh sì, Annamaria sapeva proprio spaccare un capello in quattro.

Una volta Pietro risalì dal porto dopo una dura mattinata di lavoro.

Che cosa abbiamo a mangiare?”

E mi', Pietro mio, un poco di minestrina che così ti riscalda, che sott'acqua avrai avuto freddo.”

Pietro non disse nulla ma afferrò l'angolo della tovaglia e la strappò fortemente dal tavolo facendo cadere tutto a terra: zuppiera, minestrina, piatti, cucchiai e quanto altro c'era sopra.

Poi uscì. Andò da Benetti, in via De Filippi e si riempì di pesce fino a quanto poteva portarne.

Ritornato a casa disse alla moglie:

E adesso vai a pagare 'ché a cucinare il pesce già ci penso io.

Ad Annamaria, nonna Grande la chiamavi tu, quando il marito si arrabbiava o secondo lei spendeva troppo, veniva l'eczema.

Per questo una volta chiamò il dottore. Dottor Pinna la visitò e poi le disse:

Zia Annamari', state un po' a dieta e mangiate tanta verdura.

Ma l'eczema non passava.

E allora lei richiamò il dottore che la visitò un'altra volta.

Che cosa avete mangiato, zia Annamari'? Fatta l'avete la dieta che vi avevo detto?

E cosa vuoi che abbia mangiato, Felicino mio? Quello che mi hai detto tu: verdura.

E qual'è questa verdura che avete mangiato?

Fave e lardo, ceci, cavolata, fagioli con la cotica...

Dottor Pinna che era una persona gentile, beneducata e a modo, sospirò, si mise le mani in testa e se ne uscì senza sbattere la porta.

Tua nonna, invece, sempre attaccata alle gonnelle della madre. E chi la schiodava?

Va be' che io facevo il navigante e Pietro aveva, invece, un'impresa di recuperi marittimi. Era, insomma, un po' più stanziale di me.

Va be' anche che Pietro aveva due figli e io, invece, ne avevo sei. Però i figli di Pietro erano dei signorini, i miei, invece, ora li vedo come dei poveracci.

zioMiuccioMiuccio, mio nipote, quando andava a Genova, se non scendeva in albergo al Principe di Piemonte non era contento. Se non andava a prendere i bagni a Loano non erano bagni.

E sempre con abiti di grisaglia, colletto inamidato, cravatta o foulard al collo e borsalino in testa.

Gli mancava solo il baccolino.

Miuccio, mio figlio, tuo babbo, invece, per andare a La Spezia, ha dovuto aspettare la naja.

Ma io non ho fatto sempre il navigante.

Nemmeno quando ero nostromo all'Escavazione Porti, e stavo fisso in un posto per periodi abbastanza lunghi, nemmeno allora tua nonna mi raggiungeva.

Ora sei vecchio anche tu e te lo posso dire in un orecchio: quando si è soli, il letto è freddo anche se si è d'estate. Se avessi avuto mia moglie al fianco, forse non sarei andato a cercare altri tepori.

E poi, lo sai com'era tua nonna Pietrina: mai gelosa. Sempre comprensiva. Sempre per la pace:

...già non si consuma!

rispondeva alla sorella Annamaria quando quella lingua lunga la metteva in guardia contro mie possibili trasgressioni alla fedeltà coniugale.

Non farlo sortire da solo. Fagli compagnia.

Sì, diceva proprio così. Te lo ricordi? Sortire, invece di uscire. Anche a te, mi ricordo, a fine anno scolastico chiedeva:

Ebbe', Lia', come sei sortito quest'anno a scuola?

Eh... era una gran brava donna tua nonna. Molto gentile e sensibile. Mi voleva molto bene e anche io gliene volevo. Davvero gliene volevo.

Ci ho fatto sette figli! Ma non le ho mai fatto nemmeno un regalino. Anzi si: la fede d'oro che poi ha dovuto dare alla Patria e un piccolo ventaglio di pizzo che la Patria non ha voluto.

Era così comprensiva!

Una volta, una donna della quale mi ero un po' incapricciato a La Maddalena dove allora lavoravo, morì, poveretta, di febbre spagnola. E io ne soffrii molto.

Be', lo sai? quando tua nonna apprese questa cosa, era così addolorata per me che voleva mettersi il lutto per condividere il mio dispiacere.

La guardai come si guarda una cosa strana, irreale. Ma la abbracciai e la tenni stretta stretta fra le mie braccia per un buon quarto d'ora. Come forse non avevo mai fatto prima

Quando ci incontriamo qui, in questo mondo fatto solo di ricordi e di inconsistenze, mi dice sempre che, se avesse un caminetto e una graticola, mi avrebbe cucinato di nuovo i bisari al cartoccio sulle braci. Mi piacevano molto quei pesci e, qualche volta, mi ricordo, li hai mangiati anche tu.

Anche se non ti facevano impazzire.

A te piacevano le palaie, le sogliole. Eri di bocca buona tu. Tua madre ti aveva allevato come un signorino.Come Annamaria aveva fatto col figlio.

E da bambino piccolo, guai a farti toccare l'acqua di mare. Ne avevi paura.

Gesummaria, e come faccio? Questo non è uno Schiria. Deve aver preso dalla parte dei Calvone che erano tutti terricoli.

Allora, un giorno, ho deciso che dovevo insegnarti a nuotare. Avrai avuto quattro anni...

Ti ho portato con me sul pontone di Pietro e ti abbiamo legato una cima in vita.

Tuo “nonno” Pietro è rimasto sul pontone con la cima nelle mani e io ti ho preso in braccio e son sceso con te in acqua dalla biscaglina.

Pietro non era molto d'accordo. Secondo lui non dovevo scendere anch'io. Secondo lui bisognava buttarti in mare con un calcio in culo. Come facevano con noi quando eravamo ragazzini.

Poco alla volta ti ho lasciato da solo, restando accanto a te. Poi, mentre mio fratello continuava a sostenerti dall'alto, io piano piano mi sono allontanato.

Tu continuavi, a guazzare divertito, pedalando con le gambe meglio di Coppi.

Poi, all'improvviso, hai tirato su lo sguardo e hai visto che la cima che credevi ti sostenesse era, invece, in bando.

Sei colato giù a fondo come una mazzera e quello scemo di Pietro, invece di tirarti su, rideva come un matto.

Ti ho dovuto recuperare come si recupera un annegato.

Lo sai che un giorno a Bosa, ho salvato un bambino nel Temo?

Sì che lo sai.

Quando ero a letto perché le gambe mi dolevano e non mi reggevano più, un pomeriggio tu mi hai fatto vedere una cartolina di Bosa. Collezionavi cartoline, allora.

BOSA-PONTE-SUL-TEMO-E-VEDUTA-PARZIALE

Facevo fatica a vedere, ma avevo riconosciuto quel posto e ti ho detto di quel bambino che era caduto nel fiume dalle braccia della madre.

Vederlo cadere e tuffarmi era stato un tutt'uno. L'acqua era molto torbida e, sott'acqua non riuscivo a trovarlo.

Sentivo la disperazione crescermi dentro forte come il bisogno d'ossigeno.Ma, alla fine, lo avevo trovato e lo avevo salvato restituendolo alle braccia della madre.

Tua zia Teresa, quel pomeriggio, aveva riso:

Ma ba', quello è il fiume di Bosa! Voi eravate in mare nell'Escavazione Porti. Cosa c'entra un fiume? Avete visto male.

Mi ero arrabbiato con mia figlia che voleva insegnarmi che il Temo non sfocia in mare e che, ogni tanto, dovevamo dragare la foce e il porticciolo di Bosa Marina perché non si insabbiasse.

Quel bambino era biondo e tenero come lo eri tu. Doveva avere la tua età. E quando lo avevo rimesso nelle braccia della sua mamma mi ero messo a piangere insieme a lei.

Mi avevano fatto una bella festa in paese con grandi bevute di Malvasia. Quella della riva sinistra del fiume che è la migliore. E avevamo anche ballato fino a notte fonda.

Le gambe non mi dolevano allora.

E invece poi si. Eccome mi dolevano da vecchio! E si gonfiavano anche.

Eh... com'era doloroso ripensare alla gioventù in quei momenti.

Quando ancora uscivo da casa per andare a prendere un ultimo raggio di sole nei gradini del palazzo di Careddu insieme a Pietro, dieci passi in tutto, qualche volta mi capitava di incespicare e di cadere. Pietro che cercava di sorreggermi, anche se era più vecchio epiù malconcio di me, rischiava di precipitarmi addosso anche lui.

E ogni nuova caduta era un nuovo livido e, quel che è peggiorologioNonnoo, una nuova scheggiatura sul quadrante del mio Rosskopf a cui tenevo moltissimo.

Guardala quella vecchia cipolla. Ora l'hai tu!. Guardala: ogni sbrecciatura, una caduta e un livido.

E poi, tornato casa c'erano i rimbrotti di tua nonna:

Sempre a bere insieme a tuo fratello! Non vedete che non vi reggete in piedi e che ormai anche l'odore del vino vi ubriaca?

Pietro, sentendosi tirato in causa ingiustamente e non potendosi arrabbiare con Annamaria che gli dava solo mezzo toscano al giorno e nemmeno una lira per una tazza di vino, allora si infuriava con la cognata:

La smetti o non la smetti di dire bugie! Sorelle matte che siete! Eh ma... il giorno che mi arrabbio davvero davvero, vi ci butto in mare tutt'e due. E senza salvagente.

E non si sapeva bene se io e mio fratello ci rimanessimo male per quella mia caduta che denunciava il nostro inesorabile decadimento di uomini vecchi, per la nuova incrinatura sull'orologio, o, invece, per il non poter disporre più nemmeno di quei quattro spiccioli che occorrevano per aggiungere due passi alla nostra camminata e poter andare così alla bettola di Forteleoni che avevamo di fronte, vicina ma, insieme, lontanissima come un miraggio.

Credo che quest'ultima fosse la cosa che più ci doleva.

Le nostre mogli, ormai, avevano preso il sopravvento su di noi. Ahimè!

Un pomeriggio tu passasti in via Fausania mentre noi ce ne stavamo seduti a scaldarci le ossa. Mi dicesti che andavi da nonna a prendere il bidoncino per scendere al porto e portarmi un po' d'acqua di mare.

Pietro ti bloccò tenendoti stretto per un braccio e con quell'espressione buona che sempre ha avuta, mista a quell'effimero residuo di autorità che gli era rimasto, ti disse:

Vai da quella disgrazia di tua nonna Grande e fatti dare mezzo sigaro.

Tu non andasti né da tua nonna Giua né dalla sorella. Tanto sapevicome sarebbe andata a finire. Ti recasti, invece, in piazza e nel tabacchino comprasti, con quei pochi soldi che avevi, un mezzo toscano per Pietro e cinque Nazionali per me.

Ci commuovemmo tutti e due, io e mio fratello, e ti festeggiammo come due ragazzini che avessero ricevuto in dono delle caramelle.

Poi però ne nacque un maremoto.

Aurelio Boccia disse del tuo acquisto alla figlia Anna, che lo disse alla sorella Celestina, che lo disse alla tua zia Maria che, senza aspettare la prima occasione buona, lo riferì a tua madre:

Mi, guarda che Giuliano dev'essere che sta fumando di nascosto perché è andato a comprare un mezzo sigaro e delle sigarette.

Ci volle del bello e del buono per convincere tua madre che il tuo era stato un gentile dono per noi vecchi.

Ma se questo rabbonì tua madre, fece, invece, andare su tutte le furie Pietrina e Annamaria. Così ti beccasti anche la loro sgridata.

Accidenti! non potevi far altro che comprare il tabacco a quei due vecchi spreconi! Mi non ci provare più, mi! Già basta quanto si intossicano da soli senza bisogno che il veleno glielo compri tu.

Eh... povero il mio Bilianeddhu! Cosa credevi che nonno avesse dimenticato questo episodio? No no. Queste cose non si dimenticano mai. Mi fa più piacere e mi solleva più l'anima questoricordo che non il portarmi i fiori sulla tomba.

Ora mi è venuto alla mente un altro ricordo di te. Ma non è bello. Tua madre aveva deciso di mandarti a frequentare le medie in collegio: a Santu Lussurgiu.

Avevi nove, dieci anni e non volevi andare in quell'istituto così lontano da casa e dai tuoi affetti.

Io e Pietro, mi ricordo, scendemmo in via La Marmora per cercare di indurre Marianna, tua nonna, e tua madre a lasciar perdere quest'idea stramba del collegio.

Insieme ai preti, poi!

Di convincere tua nonna non c'era bisogno perché, figurarsi, era dalla nostra parte. Ma tua madre fu irremovibile. Testarda più del babbo, che se avesse dato retta alla moglie, quel pomeriggio, invece di far di testa sua come sempre, non avrebbe fatto naufragio.

Clementina Marroni, che era la “studiata” di via La Marmora, aveva consigliato per te di mandarti in collegio, e in collegio bisognava mandarti.

Nemmeno le perorazioni accalorate e veemènti di Pietro valsero a nulla con la nipote:

Quale bisogno c'è di mandarlo dai preti a studiare! Dallo a me che ce lo butto a mollo e così impara almeno a fare il palombaro. Altro che preti! L'avranno a trasformare in un chierico che si lava la testa con l'acquasanta! Dammi retta, Paoli', che io sono il tuo zio più grande e te lo dico come un babbo. Lascialo qui Liano, 'ché di preti in famiglia Schiria non ne vogliamo. Se ci fosse stato tuo marito, sta sicura che non avrebbe voluto neanche lui.

santulussurgiu8Restasti in quella galera solo un anno. Ma fu un anno lunghissimo per te, per me che non potevo più portarti a pescare o a cogliere le bacche di mirto o i frutti di pirastro, ma anche per tua madre che si pentì subito e per tutti quelli che non ti avevano più a casa.

Partisti bambino e tornasti uomo non buono. Avevi imparato cose che nemmeno io, che non sono mai stato uno stinco di santo, avrei voluto spiegarti. Noi ti insegnavamo l'Onestà, che per noi tutti è stata sempre quella cosa con la O maiuscola per la quale si può anche morire, se occorre. E tu, invece, là, imparasti la furbizia.

Noi ti insegnavamo ad amare e a rispettate tutti. Là imparasti l'odio e la sopraffazione.

Per non parlare poi del sesso che ti fecero vedere come una cosa sporca ed innominabile.

Perfino del mare ti dimenticasti.

Nonno, sono diventato un numero-mi dicevi - numero 46.

E quando seppi che ti misero in ginocchio sul sale grosso, in canottiera e in mutande mentre fuori nevicava, solo perché ti era scappata una scoreggia mentre il mattino cercavi di girare il materasso di crine e non ce la facevi, allora, se avessi avuto la macchina, come ora avete, sarei andato da quel prete bastardo e lo avrei preso a fiocinate.

La camerata poi si ammutinò e ti riportarono a letto mezzo assiderato.

Fu un anno brutto, quello, e ci volle del bello e del buono, dopo, per rimetterti in sesto. Ma ritornasti quello che eri e che noi volevamo tu fossi: identico a noi perché uno di noi. Con le virtù e con i peccati della nostra famiglia, non con quelli di altri, estranei a noi in tutti i sensi.

È inutile che tu mi dica:

ma dai nonno; è tempo passato, ormai. Non me ne ricordo quasi più nemmeno io. E' tempo di metterci una pietra sopra. E poi, le esperienze, anche quelle che non ti sembrano belle, ti insegnano sempre qualcosa.

Una pietra sopra? Sopra la testa di quei malfattori l'avrei messa la pietra. O, anche meglio: legata al collo di quella SS. Perché solo una SS nascosta dai preti poteva essere quel mostro di sorvegliante tedesco con gli occhi azzurri e le labbra sottili.

Ma lasciami stare, che quando mi arrabbio, ancora adesso mi viene voglia di bermi un buon cognac. E qui, il cognac non sanno nemmeno che cos'è.

E anche se lo sapessero, la mia lingua per assaporare quell'essenza divina, non mi ricordo nemmeno più dove sia finita.

Ora, nipote mio, mi posso occupare solo di cose dello spirito, di cose “intellettuali”. Tua nonna, quando ci incontriamo, si mette perfino a ridere perché alle donne - alle anime femmine, voglio dire - ora cerco di vedere le ali, se le hanno. Prima, delle ali non mi importava nulla. Guardavo altro.

Eh... figlio mio!… come si dice?: il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Io, come tutti qui, ho perso pelo e vizio. Solo che mi è rimasta una lontana e sottile nostalgia...

Brutto femminaro impenitente! Pure ora che sei morto non t'è passata la fantasia?!

mi dice immancabilmente tua nonna.

Se poi ci si mettono insieme tutte le donne Schiria contro noi povericristi che siamo stati loro mariti, allora è meglio fregare le chiavi a San Pietro e scappare a gambe levate da questo posto.

Questo posto che mi sembra una distesa di onde fatte di fumo invece che di acqua di mare.

Nemmeno l'odore ne ha del mare questa distesa! Oh... nemmeno alla lontana!

Tuo nonno Giovanni e Richeddhu, loro si che il mare continuano a goderselo. Ne sono diventati parte integrante! Altro che stare chiusi in una cassa! In cimitero. Al buio.

E va be', mica uno può scegliere come morire! Giovanni dice che il fortunato sono stato io che son morto nel mio letto.Sai che gusto!..

Però, a pensarci bene, forse sì, perché mentre io ero steso sul letto come stanno distesi tutti i morti, con il fazzoletto in testa che mi legava mandibola e mascella per tenere la bocca chiusa (sicura invenzione di tua nonna che anche da morto temeva che potessi dire qualche sproposito), vestito di tutto punto come nei giorni di festa, con camicia bianca, cravatta, giacca e gilè, e con le scarpe allacciate che non mi stringevano nemmeno più i piedi, allora ho goduto ancora per l'ultima volta della vostra compagnia.

Le donne erano qui con me. Tua nonna al mio capezzale che piangendo diceva:

Eh... Bilianu mio, già me ne hai fatte passare, già! Però ti volevo bene. Ti ho voluto sempre molto bene.

Le altre dolenti assentivano con la testa, non so se per confermare che a mia moglie gliene avevo fatte passare davvero tante o se, invece, per avvalorare che sì, mi voleva proprio bene la mia Pietrina.

Voi maschi, invece, eravate tutti in cucina.

C'erano i miei figli Peppino e Giovanni, il marito di mia nipote: Elio, tu e i tuoi cugini: Salvatore e Antonello.

E c'era anche mio fratello Pietro che, tanto per darsi un tono e non mettersi a piangere come avrebbe fatto volentieri, stava appoggiato allo schienale della sedia con il Giornale d'Italia tutto spalancato, ma al rovescio. A testa in giù.

Sembrava attentissimo nel leggere! Forse le notizie lette sottosopragli parevano migliori: quel che era brutto diventava bello. Forse.

Ma Peppino che non s'è mai fatto scrupolo di canzonare chiunque e di mettere tutto in burla, lo aveva preso in giro, lo zio:

Oh ziu Pe', non vedete che state leggendo il giornale al rovescio? Cos'è? così vi piace di più?

Sto guardando solo le figure...

aveva risposto lui.

E si vede che le figure a testa in giù vi sembrano più belle. E cos'è, quando scendevate sott'acqua, scendevate a testa in giù 'ché così il fondo invece che fango vi sembrava cielo?

Tutti avevate riso e anche io avrei riso se non avessi avuto quel fazzoletto a serrarmi mandibola e mascella e tutte quelle donne a salmodiare preghiere con una puzza di cera di candele che avrebbe tolto il respiro pure a un morto. Come me.

Non è passato tanto tempo da quel giorno; poi Pietro mi ha raggiunto.

Non aveva voluto più vivere. Si è lasciato morire quando a Tempio, in Tribunale, lo hanno condannato per omicidio colposo.

Lui, uno Schiria! Uno, come tutti noi, per il quale l'Onestà è stata sempre sopra ogni altra cosa, portato in tribunale per un processo e condannato per omicidio! Ma te lo immagini?

La sua colpa? Sì una l'aveva avuta: prestare scafandro e pompa e barca a Giulio. E credere a Giulio che gli aveva detto che andava con persone pratiche del mestiere a recuperare qualche po' di ferro da vendere a Tartaglia, invece che pesce morto con le bombe.

Quelli, che pescare sapevano, ma che non avevano nemmeno idea di che cosa volesse dire un palombaro, si erano messi a girare le manovelle della pompa a tutt'andare, come se giocassero alla giostra.

E quel pover'uomo è risalito a galla come un gavitello.E loro, per salvarlo, sai che cosa hanno fatto? Te lo ricordi? Lo hanno issato su in barca e, per non perdere tempo a togliergli l'elmo, per farlo respirare, gli hanno rotto i vetri degli oblò.

A quel povero Giulio gli sono schizzati gli occhi dalle orbite. E' morto per embolia.

E la colpa era di Pietro che gli aveva dato l'attrezzatura...

Nemmeno ora che è morto si consola di questo, quel povero fratello mio. Uno, perché voleva bene a Giulio che era da tanti anni a lavorare con lui; due perché lui, il primogenito, il capo indiscusso di tutta la famiglia Deiana-Schiria aveva portato il disonore su di noi anche senza averne nessuna colpa.

Né l'assoluzione in appello, con formula piena, gli aveva dato grande soddisfazione. Anche perché, ormai, Pietro era già morto anche lui.

E intanto, tutte le sue attrezzature erano rimaste sequestrate per anni e si erano tutte guastate e arrugginite o marcite. E quando poi finalmente le avevano affrancate, anche le barche erano andate a fondo.

Te le ricordi? Tu andavi a vederle vicino a Peddhone. E per tanti anni il pontone e le barche son state lì, sott'acqua. Che quando le avranno ritrovate, dopo tanti anni, magari avranno pensato a navi romane.

Povero fratello mio!

Eravamo così tanto abituati a stare insieme seduti in piazza Matteotti che, ogni tanto, vuol stare seduto insieme a me anche quassù, a guardare la gente passare là sotto, senza l'incubo del mezzo toscano, 'ché qui gli è passata pure la fantasia del fumo.

Non so se gli è proprio passata la fantasia o se, invece, teme di incontrare la moglie che, magari, si mette a baccagliare pure qui.

E poi San Pietro chi lo ferma? Magari li butta tutt'e due sottocoperta a testa in giù.

Come avrei buttato a testa in giù, se già non ci fosse, tuo nonno Giovanni. Lo sai cosa m'ha detto l'ultima volta? se qui mi ero portato il distintivo del fascio.

Quello, anche se ha la bocca piena di mare, non ha perso il vizio di prendermi in giro.

Non s'è dimenticato mai di quella volta che son venuti gli squadristi da Civitavecchia.

Io e Pietro, siccome dovevamo fare buon viso anche a cattivo gioco, se volevamo lavodistintivirare, ci siamo messi la camicia nera e il distintivo col fascio - no, non quello che conservi tu: quelloera di tuo babbo; ma il mio era uguale - e siamoandati in piazza dove hanno impartito il “battesimo patriottico”, con doppia razione di olio di ricino, all'avvocato Sotgiu.

Pover'uomo. Era una persona davvero per bene e noi lo apprezzavamo molto.

manifestazione in piazza

Non che noi fossimo fascisti, però...

Tuo nonnopsi Giovanni, invece, socialista sfegatato com'era, non ne volle sapere di mettersi la camicia nera.

Scappò dalla finestra della nostra cucina in via Cavour e poi si arrampicò sul primo tetto disponibile in via Garibaldi e, saltando di tetto in tetto, riuscì a raggiungere il porto vecchio e lì, con l'aiuto degli scaricatori che, nonostante fosse domenica, scaricavano il piroscafo Marsala,si nascose fra un cumulodi plance di sughero che attendevano d'essere imbarcate.

Gli andò bene. Ma anche a noi.

Ma poi, scusami un po', lasciamo Pietro che lui aveva interessi economici legati al suo lavoro da difendere, ma io, che ero nostromo con tanto di divisa e berretto e fischietto, potevo io mancare a una manifestazione in piazza di domenica e giorno di cerimonia? No che non potevo!

Credevo che fosse una delle solite cerimonie. Una delle solite adunate. Mica sapevo che quattro matti fascisti di casa nostra avevano chiamato gli squadristi da Civitavecchia.

Mica sapevo che era per purgare qualcuno.

Del resto c'erano pure i carabinieri che rappresentavano la Legge! E non mossero un dito per proteggere quel poverocristo dell'avvocato Sotgiu.

E nemmeno io mossi un dito. E neanche Pietro.

Nessuno, in piazza, mosse un dito.

Anzi: ridevano quasi tutti. Almeno quelli che erano nelle prime file ridevano.

Non è un ricordo del quale vado fiero. Ma di quante cose non andavo fiero!

Non ero fascista, te lo assicuro. E nemmeno socialista. Solo che mi importava poco della politilapidePrefetturaSassarica.

Anche un'altra volta dovetti esser presente ad una manifestazione fascista nella mia divisa danostromo: quando inaugurarono la lapide ai Caduti della Grande Guerra. Dovetti andare, anche se non ero fascista.

nonno GiulianoInauguraz.Lapide

Tuo padre si che lo era. Ma era anche troppo giovane per capire.

Voleva indottrinarmi e convincermi come aveva convinto tua zia Maria che il sabato era tutta contenta di mettersi la divisa da Piccola Italiana per andare a fare le adunate, gli esercizi ginnici e le sfilate nel cortile dello Scolastico.

Non so se le piacesse anche il fascismo o solo la divisa.

Era troppo ragazzina.

Credo le piacesse solo la divisa, con grande dolore del padre che un mucchio di volte, quando era a casa, gliela aveva fatta a pezzettini quella divisa.

E poi tua nonna s'arrabbiava col marito perché le toccava comprarne un'altra. Dicendo agli altri, magari, che occorreva comprarne un'altra perché quella squinternata della figlia se l'era macchiata e rovinata.

Se no, c'era da giurarci, al primo sbarco avrebbero arrestato il marito come un sovversivo.

È lei, tua zia Maria, che ti ha insegnato tutte le canzoni fasciste. Quelle che tuo padre ti aveva lasciato, per ricordo e con la dedica, in un libretto di canzoni di guerra.

librettoGuerra2

Me lo ricordo ancora.

Quella che ti piaceva di più era “La canzone dei sommergibili”. Mi pare che così si chiamasse. Quella che faceva:

Sfiorano l'onde nere nella fitta oscurità,

dalle torrette fiere ogni sguardo attento sta!

Taciti ed invisibili partono i sommergibili

cuori e motori

d'assalitori

contro l'mmensità!

Ma il ritornello lo cantavi a squarciagola insieme a lei:

Andaaar

pel vasto maaar

ridendo in faccia a Monna Morte ed al destino!

Colpiiir

e seppellirrr

ogni nemico che si incontra sul camminooo!

Poi ti veniva un po' di rimorso a pensare a tuo nonno Giovanni socialista e, allora, con lo stesso ardore, intonavi:

Compaaagni, avanti! Il gran Partiiito

noi siaaamo dei lavoratooor.

Rosso un fiooore in noi è fioriiito

e una feeede ci è nata in cuor.

E con il medesimo coraggio con cui avresti colpito e seppellito ogni nemico, ora incitavi alla lotta:

Su lottiam!

L'ideale nostro alfin sarà

l'Inteeernaaaaziona a a a le, futuuura umaaa nità!

Quanto eri matto, nipote mio! Ma per questo mi piacevi. Sei matto come lo ero io.

Ero così matto, che una volta, in guerra, la prima guerra mondiale, la Grande Guerra voglio dire, mi hanno dato una medaglia, una Croce al Merito di Guerra, ma lo sai perché? Secondo alcuni, perché avevo cantato bene, davanti al re, l'Inno Sardo, quello che dice:

Cunservet Deu su Re...

Avevo una bella voce da giovane, ma non avevo fatto nessun atto eroico.

Ma questo è solo un racconto delle male lingue perché il brevetto di conferimento della Croce è, sì del 1925 e Sciaboletta venne in Sardegna anche nel 1924, ma io allora avevo già quarantaquattro anni e non ero più il giovincello canterino che ero stato.

Dunque la croce la concessero a me come la diedero a tutti coloro che tennero “una condotta militare... degna “...di pubblico encomioe non perché avevo cantato bene.

croce e medaglie

E mi diedero anche la Medaglia di Benemerenza, quella destinata agli equipaggi delle navi mercantili che avevano sopportato i disagi e i rischi della guerra.

bronzo nemico marina mercantile

Guerra per l'unità d'Italia 1915-1918” c'è scritto intorno alla testa di Vittorio Emanuele coperta da un elmetto più grande di lui. E dietro, una specie di angelo - che doveva essere la Vittoria - che invece di usare le ali per volare, cammina sugli scudi che i soldati reggevano sulla testa.

Tutti i soldati abbiamo dovuto sempre sopportare qualcuno che ci camminava sulla testa, invece di volare come voleva far credere agli altri.

La cosa che ti piaceva di più, quando te la facevo vedere, quella medaglia, era quella scritta che a te dava il brivido e l'orgoglio del vincitore. “Coniata nel bronzo nemico” c'era scritto.

Tu, mi ricordo, te l'appendevi sul petto insieme alle altre e marciavi per il corridoio dandoti il tempo da solo con la bocca nera di mirto che avevi appena mangiato: un duè, un duè, un duè... Io ti guardavo e ridevo. Ma la medaglia a cui ero più affezionato era quella che mi appuntarono sul petto a Buenos Aires. iberoamericana L'Unione Ibero Americana volle onorare me e molti dell'equipaggio del Duca degli Abruzzi, su cui ero imbarcato come nostromo, quando la società Navigazione Generale Italiana ci ordinò di puntare la prua verso Rio de Janeiro alla ricerca dei sopravvissuti al naufragio del Principessa Mafalda. Duca_degli_Abruzzi-Mafalda-Mosella Tu pensa com'è strano il caso! in quella stessa tragica circostanza restammo coinvolti, senza che allora lo sapessimo, io sul Duca degli Abruzzi e mio fratello Giovanni sul Mosella. Ma ci sarà qualcosa, al mondo, che capita solo per combinazione?.. È giunta sera, Giuliano, il “dovere” mi chiama. Non so bene, ancora, quale sia, ora, il mio dovere, se stare qui a “parlare” con te, o, invece, scomparire nel nulla: muto ricordo fra i tanti. Però, so che devo andare! Dove, ancora non lo so. La nostra è un'esistenza in divenire. Senza limiti. Senza confini. Quando studiavi, da giovane, mi parlavi di un dramma che avevi appena letto e che ti era piaciuto molto. Mi pare si chiamasse La vida es sueño. No, Giuliano, non è la vita che è un sogno! La vita è profumi, sapori, odore di mare e di sudore; di corpi bagnati e anche vogliosi. E', anche, malinconia e nostalgia. Ma di qualcosa che potrai, o speri di poter avere sempre. È fatica. È sacrificio. È godimento del giorno conquistato. La muerte es sueño! Sì, la morte è sogno. Un sogno lungo lungo. Eterno. Forse inutile. Infinito come a volte lo sono i sogni, che ti sembra di vivere da vivo e, invece, sei morto. Ciao Giuliano. Ti voglio bene.

Stasera ha ricominciato a nevicare.

Il silenzio che qui, fra i monti, sotto la neve, regna, è irreale.

Ma questo silenzio è sonoro di musiche arcane,

di frasi e parole e toni di voce mai perduti e cari al mio cuore.

Il mare mi insegue come un'amante affettuosa.

E anche i miei ricordi.

Bruson, gennaio-febbrario 2016

© Giuliano Deiana 2016