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Meditazioni di un vecchio pensionato

Meditazioni di un vecchio pensionato
Meditazioni di un vecchio pensionato
Giuliano Deiana

Pubblicato il 08 December 2017 alle 10:15

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Quel giorno, 8 maggio di un anno che non ricordo, il vecchio pensionato si sedette sotto un roseto del suo piccolo giardino. Timidi boccioli sopravvissuti all'ultima inattesa gelata, invocavano, con disperata insistenza, una primavera che tardava ad arrivare. Si sedette sull'erba trascurando le impetuose raccomandazioni di sua moglie che gli ricordava quanto inutile fosse stato, per renderlo savio e prudente, il trascorrere degli anni.

Un leggero vento da nord faceva rabbrividire, poco più in là, le pendule foglie di un ciliegio selvatico. Guardò l'orizzonte davanti a sé, così diverso dalla sua lontana e familiare linea dove il cielo e il mare si congiungevano confondendosi l'un l'altro. Erano spazi aperti, quelli: senza limiti o costrizioni. Era voglia di scappare, avendo la libertà di poterlo fare, a inseguire i sogni un'onda dopo l'altra. Guardò quella barriera di monti, ancora un po' imbiancati da una neve inconsapevole che l'inverno era già passato, ma quel giorno, lì nel suo piccolo spazio verde, il vecchio non si sentiva prigioniero. Il ronzio insistente di api che cercavano quel che ancora non era fiorito, lo induceva a un torpore che aveva la piacevolezza di un buon vino. L'alacre e velocissimo battito delle loro ali e, nel contempo, la loro immobilità, sospesa a mezz'aria su un bocciolo di rosa che provava ad aprirsi, gli suscitava pensieri insistenti sul trascorrere del tempo e sollevava nell'animo suo sopiti ricordi e vecchie meditazioni. In quella condizione ideale di stoica apatia, di baudelairiana indolente lentezza, il vecchio aveva cognizione piena, quasi gnoseologica, del suo essere “infiniment grand” e, insieme, “infiniment petit”. Questa pascaliana reminiscenza lo portò a considerare quanto l'umana esistenza fosse (ma lo è ancora) costretta entro quei due limiti così contrastanti; gli dava consapevolezza della finitezza dell'uomo e, nel contempo, del suo anelito irresistibile verso l'infinito.

Era lì a meditare, sotto il suo roseto, da un minuto, da un'ora o da ancor più tempo? Un cielo cosparso di una luce lattiginosa e il silenzio di sua moglie in casa non lo aiutavano a capire. “La vita fugge, et non s'arresta una hora”. Si ricordò del Petrarca e, in quel lento trascorrere del tempo, contò gli istanti della sua vita. Giunge sempre un momento in cui si ha bisogno di fermarsi, di dilatare il tempo fino a polverizzarlo in una successione infinita di attimi della durata di un battito di ciglia, ma così lenti e lunghi nei ricordi che s'affacciano alla memoria da sembrare eterni. Ma anche i ricordi dimenticati, forse quelli che non avremmo mai voluto vivere e che pure ci son parsi lunghissimi nel loro divenire, spesso ci appaiono (o, forse, meglio sarebbe dire: vogliamo che ci appaiano) come frazioni infinitesime del tempo. La relatività del tempo! “Per quanto tempo è per sempre?” domandava Alice a Bianconiglio. Lui le rispondeva: “sometimes just one second”. A volte, solo un secondo! Com'era vero! Scriveva Milan Kundera in La lentezza: “C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio”. Laggiù in fondo alla valle, lì dove la strada portava al Gran San Bernardo, era un andirivieni di auto e di moto che sfrecciavano veloci con motori assordanti che cantavano al cielo la loro fragorosa potenza. Il vecchio chiuse gli occhi per meglio concentrarsi sull'inutile domanda che stava per porsi: «ma dove corrono? Se vanno in ferie e arrivano in fretta, inizieranno prima a consumare la loro vacanza. Se, invece, ritornano a casa, veloci come sono, porranno fine al loro riposo molto prima del tempo».

Sospirò profondamente per capire una logica che gli sfuggiva e si ricordò di quando viaggiava lui per raggiungere il luogo dove era atteso per lavoro. Volava alla velocità di 850 chilometri all'ora: assai più delle rombanti motociclette. Ma in quelle ore di volo lui si rilassava. Guardava le nuvole bianche come panna montata e gli sembrava, lì sopra, di galleggiare immobile, come quando da bambino faceva il morto sul pelo dell'acqua di mare. Dimenticava l'angosciosa fittezza degli appuntamenti sulla sua agenda. Dimenticava la frenesia della partenza e l'attesa brulicante degli aeroporti. Si scordava, perfino, di quanto avrebbe dovuto lavorare alacremente, arrivato che fosse, per riprendere l'aereo del ritorno, riguardare l'agenda e rituffarsi in un nuovo vortice. Quel tempo gli pareva così lontano, così perduto nella notte dei tempi, da dargli la sensazione di non averlo mai vissuto. Mai, allora, in quel turbinio di vita trascorsa alla velocità di 0,82 mach, si sarebbe sognato di far affacciare alla sua mente i pensieri che ora pensava. «La metacognizione - si disse - è possibile esercitarla solo conducendo una vita lenta».

Inspirò l'aria fresca dei monti con la compiaciuta soddisfazione di chi ha appena formulato un principio assiomatico e si crogiolò nella sua pigra immobilità. Poi si chiese se la sua poteva esser definita immobilità, lui che viaggiava insieme al suo giardino, al roseto sotto cui stava seduto, al ciliegio selvatico, insieme alle montagne, insieme a tutte le cose animate, morte o inanimate, alla bella velocità equatoriale di 1.667 chilometri orari (alla sua latitudine i chilometri orari saranno stati circa 1.240, ma questo spostava di un niente le sue considerazioni) nella folle e perenne rotazione del suo pianeta Terra su cui ogni giorno, come miliardi di altre persone e di altri esseri, posava i piedi. Se poi avesse pensato alla inimmaginabile velocità di 2,6 milioni di chilometri all'ora con cui questa palla matta su cui viviamo ruota intorno al sole, in lui si sarebbe aperto un abisso profondo di sconcerto e, fors'anche, di paura. Senza scomodare troppo né Einstein né Zenone col suo terzo paradosso, quello della freccia che appare in movimento ma che nella realtà è ferma, e considerata la sua immutata posizione sull'erba e sotto il roseto, la fissità del ciliegio selvatico di cui l'unico moto percepibile era il vibrar delle foglie, decise che lui era fermo e immobile come un sasso. Del resto, immutata era la frequenza del suo respiro, e uguale a sempre era il battito del suo cuore. Soltanto i pensieri galoppavano alla ricerca di ricordi o di cose che solo la lentezza che lui aveva imposto al trascorrer del tempo - anzi: la sua immobilità - poteva consentirgli.

Il vecchio si accomodò meglio sull'erba, ritrasse le gambe piegandole e, poggiando i gomiti sulle ginocchia, adagiò il mento sulle sue mani. In questa posizione, che notoriamente concilia la meditazione, lo trovò la moglie quando uscì in giardino per prender due o tre foglie di basilico. «Ti stai annoiando?» Il vecchio sollevò la testa e guardò in viso sua moglie. «No! Assolutamente no.» «Ti ricordi quel che ti dicevo, quando da fidanzati, ci prendevamo una giornata tutta per noi e andavamo in gita da qualche parte in macchina?» L'uomo sospirò di nostalgia e sorridendo con un po' di mestizia rispose: «Sì che me lo ricordo. Mi dicevi: 'speriamo che ci annoiamo, così la giornata trascorrerà più lentamente e il momento di separarci, stasera, arriverà più tardi'. Sai, meditavo anch'io su queste cose strane ora. Su quanto sia più bello vivere lentamente invece di correre come indemoniati». «Sei proprio diventato un vecchio bacucco» disse la donna rientrando in casa con un sospiro di tenero compatimento, ma non prima di aver aggiunto con un tono tra l'inquisitorio e il velatamente minaccioso: «più lenta di così non riesco proprio ad immaginarla la nostra vita. Non è che, per caso, ti sta venendo la strana idea di non farmi uscire per una passeggiata neanche quelle rare volte in cui usciamo, così che la vita trascorra ancor più lentamente in un mare di noia?» «Ma no, Pulcino! Era così, solo per dire: pensieri sull'abisso». Ripresa la sua iniziale posizione, quella che concilia la meditazione, il vecchio pensionato si mise a rincorrere, ma lentamente, i suoi pensieri e i suoi ricordi. Riascoltò, con le orecchie del suo cuore, il lento frangersi delle onde sugli scogli. La sua anima risentì il profumo dei mirti e dei lentischi e gli occhi del suo spirito rividero il tenue colore degli asfodeli della sua terra. «Ho bisogno di fermare il tempo» pensò il vecchio. «Ho bisogno di riappropriarmi del mio passato. Ho bisogno di rivivere ciò che non ho ancora metabolizzato. Ho bisogno di sentire sul mio corpo quelle emozioni che io ho dimenticato, ma che ancora ricordo perché me le hanno raccontate». Il vecchio si calò nella sua isola di silenzio. Dimenticò i monti. Dimenticò il ronzio ostinato delle api. Dimenticò il fremere sommesso delle foglie del ciliegio selvatico. Dimenticò il fragore assordante e lontano delle moto che correvano laggiù sulla strada per il Colle e gli parve di udire urla remote, crepitio di mitraglie e lo straziante urlo di sirene e il sibilo furente di eliche che mordevano l'aria. Altri gli avevano raccontato che quando si apprese la tragica notizia della morte di suo padre sotto le bombe americane, la sua mamma, sconvolta dal dolore, aveva preso in braccio lui, povero fagotto di nove mesi, ed era corsa per i campi del villaggio in cui erano sfollati, per raggiungere il vicino paese dove il marito era morto. Dietro di lei, come coreuti tragici, un gruppo di donne urlanti, con le braccia levate al cielo, la inseguivano. Gli aerei americani per un po' avevano mitragliato il gruppo, ma senza troppa convinzione e con poca mira. Poi avevano lasciato perdere il tiro a segno e avevano fatto ritorno alle loro basi algerine da cui, il mattino, erano partiti. Un dolore atroce, vecchio di settantacinque anni, strinse il petto dell'uomo sotto il roseto. Gli fece spuntare, dagli occhi socchiusi, una timida lacrima. Ricordò le altrui memorie che gli narravano del padre ventisettenne trovato esanime su un marciapiede del mercato frantumato da una delle trecentotrentatré bombe da 500 libbre sganciate dai “liberatori” sul suo paese e dello zio, del cui corpo furono trovati solo alcuni brandelli. Ritornò con la memoria ai pomeriggi di quegli estenuanti venerdì in cui la madre in gramaglie portava, lui bambino, a baciare l'immagine tombale del genitore e si dolse assai della noia che allora provava. Gli venne spontanea alle labbra una richiesta tardiva di perdono rivolta al suo babbo. Il vento che si era levato con maggiore vigore, faceva volare i petali delle rose bianche come fossero fiocchi di neve profumata. Anche il petto del vecchio si gonfiò in un respiro profondo che pareva volesse assorbire tutta la vigoria del vento. «Non ho mai pensato così a mio padre. Ci voleva proprio la tranquilla sonnolenza della mia vita di oggi per farmelo sentire così come non l'ho mai sentito». Con un moto incontrollato, contrasse la bocca in una smorfia di affettuoso dolore e riandò con la mente a quel giorno in cui, per la prima volta, “vide” suo padre nella sua fisicità corporea. Era nel cimitero del suo paese perché dovevano estumulare i resti mortali di quel povero marinaio ventisettenne morto sotto le bombe in un giorno di maggio del lontano 1943. La bara conteneva ancora brandelli della sua divisa coi gradi intatti, la fede nuziale e poche monetine. Le ossa dello scheletro, ampiamente fratturate, mostravano la potenza e la violenza dell'onda d'urto a cui erano state sottoposte dall'esplosione. C'era una terza rotula in quella cassa. Doveva esser, quella, l'unica parte rimasta del corpo di suo zio. E c'era anche un piccolo pacchetto avvolto con la carta di un giornale, sbrindellato e annerito ma ancora abbastanza integro. Mani pietose dovevano averlo messo in quella cassa. Il necroforo aprì l'involucro: conteneva due piccole scarpe da infante confezionate autarchicamente con pelle d'agnello e sughero. Le aveva fatte il padre, quelle scarpette ed erano destinate a lui, pargolo di neanche un anno. Erano un dono mai giunto a destinazione perché la morte aveva posto fine alle buone e affettuose intenzioni paterne. Un sussulto di commozione scosse le spalle del vecchio e due grosse lacrime scivolarono dalle guance bagnandogli le mani.

Insensibili al suo turbamento, auto e moto, laggiù sulla strada, continuavano a sfrecciare con assordante frenesia. Anche l'ape, indifferente a tutto, seguitava a batter le ali ostinandosi a restar ferma su quel bocciolo di rosa che non riusciva ancora a sbocciare e i petali bianchi continuavano a cadere e a volare col vento come fiocchi di neve. Tutto restava immutato. A volte è piacevole anche il piangere. E al vecchio parve bello che, con quelle lacrime, quiete e tardive, egli fosse riuscito a fermare il succedersi delle ore, dei minuti, dei secondi e a riappropriarsi del suo passato. «Quante sensazioni sconosciute si scoprono quando hai a disposizione il tempo per poterle scoprirle e per poterle conoscere» considerò il vecchio, aggiungendo, subito dopo, un aforisma che gli ritornò alla mente: “Si avvicina all'essenza del Tempo soltanto chi sa sprecarlo. L'uomo di nessuna utilità”. «Quel filosofo rumeno - Cioran mi pare si chiamasse - la sapeva più lunga di me. Io, ora che sono un pensionato e, ormai, anche un uomo di nessuna utilità, posso sprecare tutto il tempo che voglio». Guardò il suo piccolo mondo in cui si era rinchiuso coi suoi ritmi lenti. Il minuscolo paese in cui erano venuti ad abitare dopo la malattia di sua moglie, aveva l'impronta di un'antica tranquillità, di un antico sapere, di un'antica cultura che traeva la sua forza dall'umiltà dei lavori svolti: adeguarsi, nel passo, al lento camminare delle mucche e all'asperità del terreno, piantar le patate al giusto tempo, raccoglierle quando era l'ora, non prima e non dopo, affienare i prati quando era il momento. Nulla era concesso alla fretta, alla smania d'arrivar prima. Per questo, loro, coppia di cittadini avvezzi alla convulsa vita delle metropoli, appena presa dimora lì, erano stati guardati con la diffidenza con cui si guarda chi può portare turbolenza in una comunità tranquilla perché non si adatta alle sue regole. Ora, invece, di quella società, essi si sentivano piacevolmente partecipi. Si erano integrati perfettamente, assumendo dal luogo ritmi, abitudini e lentezze.

Si domandò, il vecchio, se questo modo d'essere, questo “pensiero lento”*, non fosse tipico delle piccole e raccolte comunità dove è più facile trovare maggiore unità derivante dal conoscersi tutti e dal sapere, ciascuno, tutto di tutti. Dov'è più facile, perciò, farsi carico di “un pensiero pesante da portare, che trascina con sé il fardello della memoria e il peso dei dubbi e le incertezze dei ragionamenti”*. Si rispose di sì e ripensò a quando, nella sua terra, aveva la fortuna, non ancora perduta, di godere della sua barca. Partivano con la moglie in un giorno di bonaccia e, messa la ruota del timone a 180°, facevano rotta verso una piccola isola posta a 88 miglia marine più a sud. Già il navigare fra cielo e mare, senza nessuna costa alla vista, era affrontare la giornata con più lentezza. Potevano accostare davanti a una bella baia e lì, dato fondo all'ancora, seduti sulla plancetta di poppa e con i piedi in acqua, mangiavano cozze al limone e bevevano vermentino ghiacciato. Era un viver lento anche quando si navigava a 40 nodi. Era un viver lento, anche con mare formato. Era un viver lento anche quando erano costretti a prender le onde a mascone tra sobbalzi e traballamenti. Poi, arrivati, la lentezza in paese rasentava quasi l'immobilità. Seduti su panchine in ferro che circondavano i grossi tronchi di quattro ficus posti ai vertici della piazza, con l'espressione di una curiosità, attenta ma non insolente, dipinta sul volto, sedevano tutti i vecchi del paese e molti turisti che assumevano anch'essi la strana tranquilla indolenza dei paesani. «Un mattino» raccontò a se stesso il vecchio «andammo in piazza come ogni giorno. E, come ogni giorno, lasciata mia moglie che sedeva su una panchina, andai a comprare il giornale. Quando tornai, lei non c'era più. Mi girai intorno per cercare di individuarla, ma senza successo. Fu allora che uno dei tanti anziani sedentari mi disse: 'sua moglie è andata a comprarsi un paio di scarpe. L'abbiamo vista entrare in quel negozio lì'. Tutti gli altri assentirono compiaciuti e io, che allora ero ancora giovane, sorrisi, li ringraziai e mi dissi che quello doveva esser proprio un bel vivere. Vivere a misura d'uomo, non a misura di una macchina» concluse il vecchio. Il vento, frattanto, aveva spazzato via un poco di nuvole e una luce dorata avvolgeva la vetta più alta dei monti davanti a lui diffondendosi per tutta la valle. L'ape, stufa di volare con poco profitto sul bocciolo di rosa, era andata via chissà dove. Giungeva la sera. Il vecchio si alzò, stiracchiò un poco le sue membra rattrappite e sbadigliò con piena e sonora soddisfazione, contento d'aver speso bene la sua giornata alla ricerca del tempo perduto e di quella sua anima che troppo poco spesso, in passato, aveva interrogato e ascoltato, dando, invece, soverchio credito alle risposte “istintuali”* del suo cervello. Si affacciò alla staccionata che delimitava il terrazzamento del suo giardino per vedere le auto e le moto che filavano inseguite dal loro stesso assordante rumore. «Da oggi userò di più le gambe e meno l'auto» pensò di promettere a se stesso. Ma poi fu più cauto e non promise nulla, tanto, con le gambe o con l'auto, per lui la vita trascorreva nel giusto modo e poteva esser misurata col giusto metro: la lentezza. Fu in quell'attimo che la moglie, uscita in giardino, gli disse: «Sai, ho sentito alla televisione che oggi è la giornata mondiale della lentezza. Non sapevo neanche che esistesse questa giornata». Il vecchio sorrise e, andandole incontro, la baciò. Rientrarono in casa e chiusero la porta al tramonto e al vento.

©Giuliano Deiana * Da “L'elogio alla lentezza” di Lamberto Maffei - edizioni Il Mulino-Voci "La lentezza del tempo si accompagna alle capacità di ritornare in se stessi e scavare dentro di sé alla ricerca dei significati del nostro esistere." Questaè la motivazione data dalla Giuria al racconto vincitore del primo premio -sezione adulti - del XXII Concorso letterario "L' écrivain de la Tour", Biblioteca intercomunale Allain-Gignod 2017.