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In fuga dalle bombe alleate su Golfo Aranci

In fuga dalle bombe alleate su Golfo Aranci
In fuga dalle bombe alleate su Golfo Aranci
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 22 August 2015 alle 16:00

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Era una splendida mattina di fine maggio 1943, terzo anno di guerra. Una luminosità violenta, appena intaccata da una vellutata foschia, annunciava i primi caldi estivi. Da tempo l’ubriacatura delle infiorescenze giallo oro degli sparzi spinosi aveva ceduto il posto ai fiori del cisto, che ora, come ultimi fiocchi di neve, resistevano tenaci. Una frizzante brezza carezzava il mare cristallino che assediava quella tavolozza di terra allungata, che a vederla rendeva troppo facile immaginare il luogo dove Eva aveva offerto il frutto dell’albero. Da sessant’anni il minuscolo abitato di Golfo Aranci germogliava lentamente, facendosi largo con timidezza in quel paradisiaco deserto di spiaggia, macchia e calcare chiamato Figari, e gli aranci nulla avevano a che fare con quell’angolo di mondo, perché tutti sanno che laggiù per i troppi venti i fiori degli agrumi dorativolano via ancor prima di farsi frutto. In quell’istmo sospeso nell’azzurro solo i nuragici dalle armi di bronzo avevano osato scavarvi un grandioso pozzo sacro dove i naviganti si fermavano a ringraziare la divinità per essere ancora sani e salvi. Nel Settecento solo l’audace e stravagante Pantaleo Asteghene, in un momento di romantica follìa, aveva deciso di farsi con le mani callose il suo stazzo lattescente di calce, e vi portò poche capre, certamente più entusiaste di sua moglie della nuova residenza.tratta da sardegnadigitallibrary La Stazione Ferroviaria, la Grande Madre che tutto laggiù aveva generato, dominava un pugno di casupole disposte in doppia fila, impregnate di salsedine e povertà, parallele come un binario al litorale e saldate fra loro come i vagoni di quei treni che sbuffando collegavano quell’eremo senza monaci al resto dell’isola sarda. Una leggenda locale racconta che i pescatori ponzesi le costruirono tutte insieme, così appiccicate ed allineate, per non permettere al maestrale di portarsele via una per una nella notte, restituendo a Ponza chi ci dormiva dentro. E sarebbe stato un compito facile, per il vento tiranno, tanto erano poche, piccole e lievi, quelle casette. Le locomotive e le littorine del Duce, arrivate puntuali in quell’estrema propaggine del continente sardo, sostavano per rifornirsi di gasolio e carbone. Da qualche tempo il capostazione aveva smesso di vantarsi che il suo fosse il capolinea più vicino al Re e al Duce, e nel suo cuore e sotto il suo berretto un’incerta e rassegnata inquietudine si era sostituita all’orgoglio. carta nautica del 1926 Carta nautica del 1926. Tratta dal volume "Figari" di Mario Spanu Babay, p. 153. Proteso a sfidare il rivale porto di Olbia ed il Tirreno, lo smunto e solitario molo diventava riferimento ultimo e disperato per alcuni sparuti navigli, che a vederli e a sentirne le storie li avresti piuttosto scambiati per le esuli navi di Enea scampate all’incendio di Troia. Quale surreale scenografia, Golfo Aranci attendeva il tragico ciak di un film inedito per lei, i cui anonimi ed invisibili attori non sarebbero più provenuti da Olbia, Ponza o Ventotene, luoghi dei principali colonizzatori del giovane insediamento, ma dal Texas, dall’Oklahoma e dalla Florida; da Londra, da Liverpool e da Birmingham. Il regista poi era lontano, oltre l’Oceano, ed oltre ogni possibilità di immaginare copione e sceneggiatura. Per i nuovi attori appositamente assoldati ed addestrati, Golfo Aranci era solo uno dei tanti target fotografati da quota fissa da crivellare di bombee distruggere, ripetendo l’operazione nei giorni successivi, finché non fosse rimasta solo una scia di macerie e di morte. Non si era ancora arrivati al videogame della Guerra del Golfo, ma era già peggio, molto peggio dei nostri videogame, perché nessuno ti toglieva i punti se anziché la caserma centravi l’orfanotrofio. Danni collaterali, così si chiamano se non sbaglio, e fine della discussione. Game over, ritenta domani tenente pilota, e sarai più fortunato. Con sistematicità spietata, Cagliari, Olbia, La Maddalena e tanti altri luoghi strategici dell’Isola erano stati ormai messi cappaò dalle bombe alleate. Ed erano stati cumuli di crolli, di morti innocenti, di dolori. Erano state urla strozzate di bambini ignari più che scalzi, che giocavano ad acchiappa acchiappa nella via di qualche paesino del Campidano appena uscito dall’Età di Mezzo. Impossibile immaginare che la guerra potesse raggiungere anche quegli agglomerati dal nome impronunciabile per chi non è sardo, dove le galline razzolavano indisturbate fra le pozzanghere. E che arrivasse in modo così brutale, criminale, così tecnologicamente asettico: dall’alto e dall’aria, che non è il nostro elemento naturale perché non la calpesti e le pecore non ci pascolano, e poi senza nemmeno guardare in faccia il nemico, senza nemmeno sapere se chi verrà disintegrato in un attimo è giovane o vecchio, se ha la divisa o no, se è una giovanissima futura madre che attendedue gemelli dai capelli neri come i suoi. Il 14 maggio, alla vigilia della festa del Santo Patrono Simplicio, Olbia aveva subito il primo attacco e cercato sorpresa e sgomenta i suoi figli morti: portuali che si erano riparati frettolosamente sotto il balcone terrazzato del municipio; passanti sorpresi a cercare un rifugio per modo di dire; un giovanissimo padre di famiglia, tornato per poche ore in città dal luogo di sfollamento e dilaniato mentre stringeva un paio di minuscole scarpette d’agnello appena acquistate per il primogenito. Dieci giorni dopo Olbia aveva subito due ulteriori attacchi delle fortezze volanti americane, i B-17, che avevano scaricato comeuna manciata di confetti spensierati oltre 600 bombe da un quarto di tonnellata. Ma come si potevano fronteggiare quegli invulnerabili mostri di alluminio, annunciati decine di chilometri prima da un rombare infinito, profondo, discontinuo, crescente, capaci -solo loro- di trasvolare oceani e lanciare ordigni da quote tali che la nostra ridicola contraerea era per loro come la fionda per uccellini? [caption id="attachment_42173" align="alignleft" width="407"]1017586_548427951888866_2015138314_n Foto scattata durante i bombardamenti alleati su Golfo Aranci, giugno 1943[/caption] Due giorni dopo, il 26 maggio, quando ancora si sentiva trasportare dal vento l’acre odore dell’esplosivo e del fumo delle macerie olbiesi, per il piccolo centro portuale accucciato sull'istmo arrivò il suo momento. Dodici P-38, gli inconfondibili caccia americani a doppia fusoliera, liberarono su Golfo Aranci un numero imprecisato di bombe da mezza tonnellata. Due giorni dopo i P-38 si erano più che raddoppiati e stavolta le bombe furono contate con acribia militare: ventisette. Il 18 ed il 24 giugno i bombardieri medi B-25 scaricarono oltre 400 bombe da 250 chili. Aridi numeri, che non è solo noioso elencare, ma oltremodo doloroso. Nulla è più fastidiosamente cinico dei mission report di quei giovani piloti spavaldi, che masticando gomma americana vennero a vomitare morte e devastazione sulla nostra pacifica ed aspra terra, i cui abitanti dovettero ancora una volta subire la storia degli altri prima ancora dicapirla. La Storia dove c’entravamo fino ad un certo punto o non c’entravamo affatto se non per un maledetto ed ennesimo caso della già ingrata geografia. Lo smunto molo devastato, la ferrovia divelta, le pochissime navi di Enea alla fonda saltate in aria o mutilateirreparabilmente: i resoconti delle immagini e delle relazioni dei bombig raid, ora consultabili su internet, sono più che eloquenti e a quelli rimandiamo. Qualche bomba capricciosa cadde fra il doppio binario di casupole preventivamente svuotate di quel poco che c'eradentro. La stazione ferroviaria resisteva ancora lì, miracolosamente illesa, che guardavaattonita lo sfacelo ed attendeva rassegnata il suo momento. 1017306_548428211888840_362200109_n Foto scattata durante il bombardamento su Golfo Aranci del 18 giugno 1943 Un momento che però non arrivò. Con l’incursione del 310th Bomb Group del 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, gli Alleati si ritennero infatti sazi della devastazione apportata e preferirono puntareancora su Olbia, dove c’era qualche lavoretto da completare. La base di volo di Olbia/Vena Fiorita fu ridotta ad un gruviera nellostesso giorno. Poi si avvicendarono sull'abitato e sull'idroscalo i bombardieri Wellington, lecinichefalene notturne della perfida Albione, che aggiunsero devastazioni a devastazioni, facendo anticiparele bombe dalle placide quanto abbaglianti luci dei bengala. L’incubo di Olbia cesserà finalmente nella notte fra il 2 ed il 3 luglio. Ormai la Sardegna, millantata come la “portaerei del Mediterraneo” dal presuntuoso Mussolini, che pertanto ritenne inutile costruire quelle immense navi, è in ginocchio e senza che un solo scarpone nemico vi abbia impresso l'orma. Gli Alleati, che ci avevano astutamente illusi del lorosbarco sulle nostre spiagge, si accingevano invece in segreto alla trionfale passeggiata siciliana. La Sardegna se l'era scampata, almeno questa, e poteva starsene ferma e tranquilla come da sempre aveva imparato a fare. I golfarancini non contarono i morti come gli olbiesi, il cui sacrificio di vite ordinò difuggire in anticipo, al più presto, dove capitava. Fu la diaspora quasi totale di pescatori verso i pastori degli stazzi di Rudalza, di Porto Rotondo, di Sas Rujas, di Donnigheddu, dove trovarono cristiana accoglienza. Alcune famiglie che non riuscivano a staccare gli occhi dalle loro amate e lontane casupole ripararono nelle ampie grotte di Monte Ruju, a Capo Figari: una fra queste, la “Grotta dei Pidocchi” ne accolse, pare, ben otto. Quattro famiglie (Maddaloni, Fasolino, Aniello Bello, Varchetta), scelsero di sfollare nello Spalmatore di Terra dell’isola Tavolara. Fra queste in particolare la famiglia dei Fasolino, originaria di Ventotene, altra minuscola isola di solitudine, dove Ottaviano Augusto esiliò la ribelle figlia Giulia. Annunciata che fu la guerra dal fatal balcone di Piazza Venezia, tutti in barca e direzione sud verso l’antica Hermaea. A raccontarcelo è Gennaro Fasolino, classe 1930, due occhi azzurri e limpidi come il mare della sua vita e la sincerità che trasfonde in ogni sua parola. Volto dai tratti forti, nobili e dignitosi come un antico cardinale, che l’età ed una vita di sacrifici e duro lavoro rendono serenamente bello. Lo si può ancora vedere partire ogni giorno con la sua barca, in compagnia soltanto delle sue reti e dei suoi pensieri, per fare ciò che ha sempre fatto: vivere col mare e dal mare. gennaro fasolino ritaglio Gennaro Fasolino Signor Gennaro, ci racconti di quel periodo così difficile, e quanto durò. “Rimanemmo a Tavolara per cinque anni interi, dal 1940 fino al termine della guerra. Dormivamo stipati come sardine in grotte naturali arrangiate con giacigli di una pianta particolare, e quando andava meglio eravamo ospitati all’interno della casa a due piani dei Bertoleoni, la famiglia del cosiddetto “re” di Tavolara. Alcune famiglie di pescatori ponzesi, non più di tre o quattro, passavano la stagione della pesca nelle case dello Spalmatore da loro stessi costruite, costituendo insieme a noi una piccola comunità, finché non se ne ritornavano tutti a Ponza per svernare. Ma non eravamo gli unici e né in pochi allo Spalmatore: in un campo di prigionia ai comandi del tenente Lombardi c’erano circa trecento prigionieri italiani che stavano in due grandi baracconi di legno, ora scomparsi.” Come vi nutrivate? “Cavoli selvatici bolliti, porri selvatici, cime di ferule arrostite un attimo dentro i forni di calce in attività. Erano dolcissime. Non disponevamo più di reti, lenze ed ami. Cosicché, facendo ritorno periodicamente a Golfo Aranci, riuscivamo a procurarci da un commerciante i crini di coda di cavallo maschio (quelle di cavalla non andavano bene, l’urina le rendeva più fragili) e filandoli con infinita pazienza riuscivamo a produrre delle lenze adatte alla pesca. In mancanza di ami ci fabbricavamo totanare artigianali. E così pescavamo solo polpi e calamari. Bevevamo l’acqua salmastra del pozzo dello Spalmatore, che però ci provocava la diarrea. La fame era tanta, ma anche la solidarietà reciproca.” E per il pane? “C’era il forno dei Memmoli a Golfo Aranci, ma nel periodo finale e più duro della guerra so che si andava a recuperare di tutto, persino le bucce delle angurie buttate sulla spiaggia da qualche famiglia più ricca…Un naviglio chiamato “Cor Jesu" carico di vettovaglie, dopo essere stato danneggiato da una bomba fu trascinato sulla spiaggia. Da quel momento iniziarono le visite notturne al relitto spiaggiato da parte della gente affamata, nonostante che in qualche maniera le autorità cercassero di impedire il saccheggio della stiva per metà invasa dall’acqua. Scoprimmo così che i sacchi di farina si impregnavano solo fino ad un certo punto, e che il nucleo centrale del prezioso contenuto restava intatto ed utilizzabile. Anche le lenzuola di ottimo tessuto trafugate venivano trasformate in camicie e pantaloni dalle donne golfarancine: ci ho fatto tutto il periodo militare dopo la guerra, con quei pantaloni…Si era sparsa la voce che nel "Cor Jesu"si trovava di tutto. Una notte furono sorprese ben quaranta persone entrate nella stiva semisommersa per recuperare il recuperabile. Furono arrestate, trasferite subito a Tempio e messe in guardina. Il giorno dopo furono però lasciate in libertà e rispedite a casa perché non c’era da mangiare per tutta quella gente." C’è qualcos’altro di particolare che ricorda di quei giorni? "Si, e riguarda qualcuno dei rifugiati nella grotta di Capo Figari. Ricordo che fra loro c’era una coppia di francesi, e lei era incinta. Partorì il figlio proprio lassù, dentro la grotta, durante i bombardamenti." Chissà dove si trova ora questo signore francese settantreenne, nato in una grotta come Gesù? "E chi lo sa?" © Marco Agostino Amucano Agosto 2015 [caption id="attachment_42174" align="aligncenter" width="703"]gennaro fasolino RETI Gennaro Fasolino, classe 1930, mentre sistema le sue reti (foto Manuel Fasolino)[/caption]

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Spanu Babay, M., Figari. Storie del golfo e di Golfo Aranci, Olbia 2004. RAGATZU, A. – CRISPONI, U. (a cura di), Bombardieri su Terranova, Cagliari 2003.

SITOGRAFIA

Per una maggiore velocità di consultazione sui bombardamenti di Golfo Aranci rimandiamo al pregevole gruppo facebook “Golfo Aranci nascosta” curato da Massimo Velati, particolarmente ai post qui di sotto linkati, che contengono numerosi ed utili riferimenti a portali web americani che pubblicano i resoconti dei bombing raid di nostro interesse: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.551052868293041.1073741836.162099293855069&type=3 Un ringraziamento particolare va a Gennaro Fasolino ed al nipote Manuel Fasolino, mio appassionato studente di Storia presso la scuola media di Golfo Aranci. Il mio grazie va anche a Mario Spanu Babay, massimo esperto di storia locale golfarancina, per la sua disponibilità ad accogliere mie domande e curiosità. .