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Elio Bigi: ricordare e rivivere la mia gioventù

Elio Bigi: ricordare e rivivere la mia gioventù
Elio Bigi: ricordare e rivivere la mia gioventù
Giuliano Deiana

Pubblicato il 16 August 2016 alle 17:05

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Se ora parlo di Elio, di Elio Bigi, intendo, mi vengono in mente, in modo inconsapevole, banalissimi episodi della mia fanciullezza. Vicende di non grande significanza. Piccole reminiscenze che, però, mi sono molto care. Poi, se ci pensassi un po', riaffiorerebbero alla mia memoria un'infinità di ricordi dei quali nessuno sarebbe meno che piacevole e bello.

Per chi non lo sapesse Elio è il marito di mia cugina Anna Deiana, figlia di Maurizia “Schiria”, sorella maggiore di mio padre. Ho di proposito usato il verbo essere al presente, non solo perché mi diventa ancora difficile pensare a lui come ad una persona che materialmente non esiste più, ma anche perché ho il convincimento che il suo mutato “stato biologico” - da vivo a defunto - non abbia minimamente intaccato né la sua essenza spirituale, né la perfetta unione sentimentale e amorosa che lo legava ad Anna e che si tradusse poi nel loro stato giuridico di coniugi. Il loro fu un amore a prima vista. Un colpo di fulmine di quelli da manuale. Romantico e pulito come s'usava una volta e come, forse, qualche volta s'usa ancora fra coloro che, alla pur necessaria e piacevole unione dei corpi, antepongono l'unione delle anime.

zioMiuccioSi conobbero, attraverso sguardi pudìchi, credo al Porto Vecchio, e da allora non si lasciarono più, nonostante l'occhiuta vigilanza di zio Miuccio (quello dell'albergo Minerva) che, in mancanza di altri maschi della famiglia, assenti perché in giro sopra o sotto il mare, si era auto-nominato censore e custode della moralità, soprattutto delle donne da maritare, della famiglia Deiana-Schiria.

Dunque Elio entrò nella mia vita - e in quella di mio cugino Antonello suo futuro cognato - quando varcò per la prima volta la casa dei miei zii e di Anna in via La Marmora.

elio

Correva l'anno 1948. Me lo ricorda un suo bel ritratto che ci donò con questa dedica:

“Alla famiglia Deiana dono con affetto la mia foto affinché la nostra amicizia sia eterna... Io per voi... e voi per me. Vostro affezionatissimo Elio. Olbia li 13-8-48”.

Confesso che fu un colpo di fulmine anche per noi, per me e per Antonello voglio dire, non solo per Anna. Ci dava retta, parlava con noi instancabilmente e non si infastidiva mai nonostante - ora me ne rendo conto - il nostro inconsapevole ruolo, evidentemente assegnatoci da zia Maurizia, fosse quello di chaperons.

Non so dire se ci attraesse di più il suo fascino affabulatore nel raccontarci le cose di mare e le storie del porto e dei vivai di cozze, la sua bicicletta e la pazienza che profondeva nell'insegnarci a guidarla andando su e giù per la nostra via allora ancora acciottolata, o, invece, la sua auto che, nei meriggi assolati d'estate, posteggiava dietro il carro di Pedru Suldu.

bici

Non conservo alcuna immagine dell'auto ma ho ancora una fotografia della bicicletta impugnata da me con molto orgoglio. La scattò Elio in uno di quei pomeriggi. Sul retro, con mano molto incerta, io avevo scritto una dedica alla mia nonna materna Marianna Azara:

“Alla cara nonna offro con affetto, Liano. Olbia 4-11-1948”.

Come non ricordo la marca della bici, così non riesco a far riemergere dalle nebbie del passato neanche quale fosse il modello di quell'auto (una Fiat 500 Topolino? Chissà!).

Rammento solo che aveva gli indicatori di direzione a freccia che si sollevavano, sporgendo dalle fiancate, attraverso l'azionamento di un interruttore a levetta, quasi come un piccolo braccio che indicasse "devo girare lì".

Anna e Elio stavano seduti sul divano, a distanza “di sicurezza” come le norme di buona creanza dei tempi imponevano e io ed Antonello, seduti su due sgabelli, stavamo a sentire i suoi racconti fino a che, invariabilmente, lui ci diceva:

“volete andare a imparare a guidare la macchina?”

Non occorreva aggiungere altro. Io e Antonello scattavamo con perfetto sincronismo e ci fiondavamo dentro l'auto litigando su chi dovesse essere il guidatore e chi il passeggero. Poi accendevamo il motore della fantasia e allora era una gara a chi accelerava di più con le labbra in un crescendo di “brum, brum, ...bruuummm”.

E dentro quell'abitacolo, rigorosamente chiuso anche nei finestrini perché nessuno dei nostri compagni di giochi in strada si azzardasse a disturbare la nostra concentrazione nella guida, sudavamo tanto da inzuppare calzoncini, mutande e canottiere.

Ma, malauguratamente per noi e, forse, anche per Elio e per Anna, di norma, il gioco non durava mai troppo a lungo, perché, zia Maurizia, avvertita, da quella “spiona” della figlia minore Piera Rita, che Elio e Anna erano soli in camera da pranzo, veniva in tutta fretta per strada a tirarci fuori dall'auto ponendoci, come a sgridarci, la domanda di rito:

“ma matti siete? Con questo caldo! Un'insolazione volete prendervi? Non lo sapete che adesso passa sa Mama 'e su sole?”

E allora noi, con la coda fra le gambe, ritornavamo a sederci sui nostri due sgabelli di fronte al divano e Elio, di buon grado (Anna un po' di meno), riprendeva i suoi racconti.

Questo mio primoflashback è un ricordo, forse, di non grande rilevanza, eppure quei pomeriggi, quei "brum, brum, ...bruuummm", la tolleranza affettuosa di Elio, ma anche di Anna e la sua pazienza nell'insegnarmi ad andare in bicicletta, mi sono rimasti nel cuore.

Poi accadde anche a Elio: dovette partire a servir la Patria. Fu arruolato in marina e noi perdemmo il nostro gioco e, insieme, il nostro affettuoso compagno di giochi.

Non posso dire che aspettassimo le sue lettere con la medesima trepidazione della sua fidanzata, ma, quando arrivavano, Anna radunava l'intera famiglia e, seduta sul divano come se Elio stesse al suo fianco, ce le leggeva omettendo, suppongo, le parti più private.

Ricordo bene un giorno in particolare quando Elio inviò una fotografia della nave da battaglia su cui era imbarcato per il regolamentare periodo di addestramento in mare. Aveva, quella foto, sul vertice in alto a destra, il ritratto di Elio in divisa, forse, racchiuso in un cuore come allora si usava e come tutti i marinai di leva prima di lui avevano fatto, compreso mio padre.

Ci sembrava così bella quella nave - e di fatto lo era - e così bello Elio nella sua uniforme che a noi pareva lui fosse il timoniere, no: il nostromo, di più: il comandante, anzi: l'ammiraglio di quella splendida nave da guerra. Insomma che fosse solo lui, solcando i mari, a portare ai venti la nostra bandiera.

Il suo servizio militare finì e arrivò per me il giorno della mia prima Comunione.

Era l'anno 1950 come mi ricorda una bella foto (non perché bello fosse il soggetto) dell'insuperabile maestro olbiese del ritocco "G. Derosas (Meloni)", così si firmava.prima comunione

Mia madre mi aveva confezionato, per la fausta cerimonia, un abito assai simile a una divisa da cadetto dell'Accademia Navale. Di diverso c'era solo la giacca, il giubbetto, il cui colore, dato il candore immacolato della mia anima, non era blu come avrebbe dovuto essere, ma bianco. Però aveva i bottoni d'ottone dorato con l'ancora in rilievo e i pantaloni avevano le ghette che erano regolamentari per i cadetti quando facevano servizio di picchetto.

Mamma, forse, pensava che quelle ghette fossero d'obbligo visto che anche io, data l'occasione, avrei dovuto prestare servizio di guardia d'onore all'Ospite sacro che stavo per ricevere.

Devo precisare, a miglior chiarimento di ciò che sto per raccontare, che allora, a otto anni, io non avevo una cognizione ben certa del valore del denaro. Anzi, come nel gioco del Monopoli, pensavo che le banconote fossero solo un pezzo di carta e le monete un gettone coi quali si poteva soddisfare un desiderio in proprio, senza bisogno, come sempre accadeva, di chiedere alla mamma o alle nonne che lo esaudissero.

Era il tempo in cui, se avevo necessità di un paio di scarpe, andavo da Marieddha Sini al corso e bastava che le dicessi:

"ha detto mamma di darmi un paio di scarpe" e io tornavo a casa con i miei calzari nuovi.

E se mi occorreva una maglietta, una camicia o qualcosa di simile, andavo da Paschitta Roich e pronunciavo la medesima frase di rito "ha detto mamma..." per aver quel che mi occorreva.

Così per i giocattoli da Carlini o da Mordini. Così per tutto il resto.

Quel giorno di cui parlo, dunque, ricevuta da Monsignor Cimino, al mattino in San Paolo, la mia prima Comunione, al pomeriggio mi spedirono a fare il giro dei parenti e delle famiglie amiche per distribuire le immaginette celebrative del sacro evento con l'assistenza immancabile e affettuosa di mio cugino Antonello.

Finimmo il nostrotour aSa Rughe, a casa di zia Maria e di zio Raffaelico Bigi. A casa di Elio, insomma.

In quel tempo, lì a Sa Rughe,c'eranbarcheo le casette basse dei pescatori che s'affacciavano direttamente sul mare.

Case di un fascinounico. Con le barche ormeggiate davanti, come in questa mia vecchia foto scattata, in anni più recenti, non lontano da quelle dimore.

Piccoli pontili di legno sconnesso come propaggine di ciascuna di quelle abitazioni e una barca a cullarsi sul moto sempre diverso del mare.

Elio non c'era, ma c'era Tore, il fratello e tanti altri ragazzi coi calzoni rattoppati che guardavano me bianco-vestito, come se fossi un marziano.

Avevo le tasche ricolme delle banconote e delle monete ricevute come regalo e nell'animo una voglia immensa di giocare.

Le barche che ondeggiavano tranquille erano invitanti come e più di una giostra.

"Andiamo a comprarci un gelato?"

dissi io vedendo il carrettino di Bonomo che transitava lì dappresso. Era, il mio, l'invito di chi vuol formare una comitiva, di chi ha bisogno di compagnia, di uno che ha voglia di tanta allegria, di uno che ha bisogno di togliersi dagli occhi quel nero ch'era il colore imperante degli abiti in casa mia.

Mangiammo gelati fino a svuotare il carrettino e giocammo sulle barche dandoci addosso grandi palate d'acqua coi remi.

Poi, quando inaspettata giunse la sera, arrivò Elio e vedendoci, anzi vedendomi, si mise le mani ai capelli. Ero vestito con un abito che prima era immacolato e che ora, non solo era pieno di macchie di gelato e di nafta, ma era anche strappato e scucito in più parti.

"Ohi, ohi!... mama tua, como, ...e cale la frimmada?!"

Sgridò Antonello e Tore perché non avevano saputo tenermi a bada, disperse la truppa dei miei ospiti golosi e, dopo avermi ripulito alla meglio con l'aiuto della madre, mi accompagnò a casa.

Non avevo mai ricevuto botte prima di allora, ma quella volta me ne saziai. Non so se ne ricevetti più io, o Elio, o zia Maurizia, o mia nonna che cercavano di sottrarmi alle mani ubique di mia madre.

Credo però che Elio fu quello dei quattro che prese più sberle perché mi faceva da scudo. Poi, cessata la furia materna, mi spiegò che la mia mamma non si era adirata per tutto il denaro che avevo speso per offrire il gelato a chi, in quel momento non poteva comprarselo,

"...perché la generosità è una cosa bella e buona e la tua mamma non può non apprezzarla, ma, invece, si è arrabbiata perché ti sei rovinato tutto l'abito che doveva servirti anche per la Cresima."

Così era Elio. Così è Elio Bigi.

Il tempo passò . Gli anni si susseguirono irrefrenabili.

Io mi trasferii a Genova e, infine, dopo un lungo tempo di nostalgia, ritornai a casa, ad Olbia. L'Università, l' insegnamento, gli amici da riscoprire.

Poi un giorno funesto del 1969, il 14 di maggio - data fatidica per la mia famiglia - mi telefonò a casa un amNataleico: Natale Maciocco che allora lavorava all'Unimare (mi pare così si chiamasse quell'agenzia marittima). Mi disse:

"Giulia', il marito di tua zia si chiama Giuseppe Serra ed è imbarcato sulla petroliera Trieste della Esso?".

Gli risposi di sì e gli domandai, allarmato, il perché di quella domanda insolita.

Lui non fu molto loquace:

"vieni subito che te lo dico".

Arrivai in via Principe Umberto in un baleno e Natale mi comunico la notizia:

"abbiamo ricevuto un telex che ci informa che tuo zio è morto in una manovra d'ormeggio a Tripoli, in Libano. La Esso ha cercato di contattare la moglie a Genova ma è stato detto loro che lei è qui a Olbia".

zio PeppinoNon ricordo un momento peggiore di quello. Anzi: sì. Ma se ne parlassi ora, andrei fuori tema.

Lasciato Natale, col cuore angosciato, mi accinsi a tornare a casa in via La Marmora.

Di fronte al Comune, incontrai Elio che ne usciva. Mi vide.

Aveva un'espressione nel viso peggiore della mia. Ci guardammo e all'unisono ci dicemmo:

"hai saputo?"

"Si ho saputo!"

Un silenzio lungo come l'eternità aleggiò fra di noi mentre ci guardavamo negli occhi con aria sgomenta e interrogativa.

"E ora come facciamo a dirlo a tua zia Vittoria?"

mi disse Elio abbracciandomi e piangendo a dirotto. Non finiva più di accarezzarmi il viso e di versar lacrime come un bambino.

"Quattordici maggio! Una data disgraziata per la tua famiglia! Prima babbo tuo e il suo fratello, in guerra, ora tuo zio Peppino Serra su una petroliera. Dio ci aiuti a dirlo a Vittoria".

Stretti insieme come una cosa sola, percorremmo quel che ci parve un lunghissimo tragitto: corso Umberto, piazza Regina Margherita, via Regina Elena, piazza Matteotti, via La Marmora.

Arrivati davanti a casa, ci fermammo e, prima di varcar la soglia, ci abbracciammo ancora singhiozzando.

Così ci trovò zia Vittoria quando aprì la porta. Non occorsero molte parole:

"zia Vitto'..." - dissi io.

"Cos'è successo a Peppino?"

Elio rispose con un singhiozzo profondo ed eloquente più di mille parole.

Io le detti un bacio sulla guancia già rigata di lacrime.

Ci stringemmo tutti e tre in un abbraccio unico che subito si estese a tutti gli altri familiari e a tutta via La Marmora.

Caro Elio - ora mi viene spontaneo chiamarti in causa direttamente - ti ricordi quante cose abbiamo condiviso io e te con le persone a cui volevamo bene? Ma, di quel tempo, son rimasto quasi solo io.

La penultima volta che abbiamo conversato lungamente è stato ai piedi della bara di mia zia Tonina. Tu la piangevi come me, ma, poi, cessate le lacrime e le lamentazioni funebri, abbiamo avuto modo di parlare anche d'altro: delle cozze di Olbia, del nostro Golfo, di Anna, di Antonello, della nostra famiglia Schiria, e anche di Cossiga.

Ti raccontai che, quando per motivi di lavoro, mi recavo a casa sua, a Sassari o a Roma, o a palazzo Madama e poi al Quirinale, lui non mancava mai di pormi sempre la stessa domanda:

"oh Dèia', ma tu non sssei il cugggino della mmmoglie di Elllio?"

E io, regolarmente gli rispondevo:

"Sì, professo'..." - perché non avevo perso l'abitudine di chiamarlo professore.

E se c'era la moglie Peppa, lo redarguiva:

"...ma cosa vuoi fare il Presidente" - il maiuscolo si sentiva nel tono della voce - "se non ti ricordi da adesso a poi!"

perché la domanda era reiterata ogni volta che lo incontravo.

"Alllorrra, quando torni a cccasa, dai un abbbracccio a Elllio".

"Sì, professo'" - gli rispondevo io. "Quando lo vedo gli do due abbracci uno per me e uno per lei. Però, quando vado a Olbia"

"Ma, perché tu non sssei di Olbia?"

"Sì, ma vivo a Sassari dal 1970."

"Ah, è verrro, non me lllo ricordavo più! Perrrò digli che lllui è una personnna unnnica".

Non gli dissi, a Cossiga, che questo lo sapevo già.

E,forse, mio caro amico, mio mentore, non l'ho detto neanche a te che eri, per me, una persona unica.

E non eri unico, no, perché ti volevo bene e tu ne volevi a me - in tanti hanno riempito il mio vuoto di affetti - ma perché il tuo volermi bene era un mettermi alla pari con te. Non sentivo in te l'afflato caldo e avvolgente di chi, con la sua amorevolezza, surrogava l'amore paterno che mi mancava. In te, invece, io sentivo la tenerezza di un fratello maggiore, l'affettuosità di un amico che mi dava tutto.

Dici che era per via di Anna? Che c'entra mia cugina Anna? Lei l'amavi. Ma io ed Antonello non eravamo Anna. Meno che mai io che non ero neanche suo fratello. Eppure ci hai dato sempre tutto te stesso.

Sei stato sempre molto generoso, Elio.

Io ti devo tantissimo. Mi hai insegnato l'amicizia. Mi hai insegnato ad ascoltare il mio prossimo perché tu stesso eri un buon ascoltatore, nonostante tu parlassi molto come fa Magda che hai appena conosciuta. Mi hai insegnato ad esser generoso nell'animo. Mi hai insegnato ad andare in bicicletta. E mi hai anche fatto appassionare alla fotografia.

Te lo ricordi quel giorno in cui, in via La Marmora, voleste fare una foto del gruppo di famiglia? Doveva essere poco prima del vostro matrimonio.

In quell'istantanea ci sei tu a sinistra, poi Angruppo familiarena, nonno Giuliano col borsalino, la figlia, mia zia Teresa, mio cugino Salvatore, e zio Mario tuo suocero. Poi, al centro, sorridente, Antonello tuo cognato e, accosciati, la sorella Piera Rita e Giovanni, il fratello di babbo.

Io, onnipresente in ogni occasione, caso unico nella storia fotografica della mia famiglia, in quella foto non ci sono.

Ma la mia assenza è motivata: io sono stato il fotografo.

Te lo ricordi? Avevi regolato diaframma e otturatore della tua Agfa a soffietto che poi mi regalasti e che, ancora oggi conservo fra le mie cose più care, e mi dicesti:

"scatta tu la fotografia."

Questo, grazie a te, è il mio primo scatto. S'io, oggi, fossi un fotografo famoso, questa foto sarebbe storica. E per me storica lo è ancora quest'immagine, anche se io non sono diventato un celebre fotografo.

Vedi quante cose mi hai dato, Elio?

Te lo ricordi? Pochi mesi fa a Olbia? A casa di tuo figlio Alberto? Eri seduto a tavola di fronte a me. Fra una cozza, un boccone e un bicchiere di vino, ogni tanto dicevamo:

"...te lo ricordi?"

"Sì. E tu te lo ricordi?"

E tutt'e due ricordavamo. Ricordavamo il nostro passato tanto bene da confonderlo col presente. Forse perché coloro che animarono quel nostro tempo trascorso non si sono mai allontanati da noi.

Poi mi guardasti negli occhi e piangesti rammentando di quand'ero fanciullo.

"Oh Lia', mi sembra ieri che eri bambino..."

E grosse lacrime ti solcavano le guance mentre io mi commuovevo e Alberto tuo figlio ti prendeva benevolmente in giro.

Grazie di tutto ciò che mi hai dato, Elio. Ma grazie, soprattutto per quelle tue ultime lacrime versate per me e per ciò che insieme fummo.

Ora sei andato via, e noi restiamo qui: io a guardare questi monti che sono miei solo per affezione e, i tuoi figli e anche tu, a respirare l'aria dolce del nostro maestrale.

Tu viaggi verso l'infinito, son convinto, in dolce compagnia.

Buon vento Elio! Buon vento.

A Elio Bigi. Ti incontravo, ormai, solo quando la morte rubava qualcuno ai miei e ai tuoi affetti. Ma, or non è molto - eppure il ricordo, adesso, mi pare sepolto nelle nebbie del tempo - ci incontrammo, con allegro appetito, intorno ad un tavolo a casa d'Alberto, con cozze e bocconi a sollecitare i nostri ricordi. Parlammo di Anna, dei tuoi figli bambini, della mia e ormai tua famiglia, di tutte quelle brevi e intense memorie che fanno vibrare d'immensa tristezza l'animo dei vecchi che son rimasti, come noi, giovani nel cuore. Mi stavi di fronte e, sospesi nel fluttuare di un passato lontano ma non remoto, mi guardasti negli occhi e piangesti. “Uhai, Lia'...” mi dicesti con voce ricolma di vecchie carezze “...mi sembra ieri che eri bambino!”. Anche a me, Elio, quello sembra solo un passato recente, un presente ancora da vivere; e, invece, tu te ne sei andato, e la tua vita ora mi sembra, come la mia, nascosta nel nulla profondo di un lontano ricordo. © Giuliano Deiana 2016