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“Di là non si passa”. Il golfo interno di Olbia in un disegno settecentesco

“Di là non si passa”. Il golfo interno di Olbia in un disegno settecentesco
“Di là non si passa”. Il golfo interno di Olbia in un disegno settecentesco
Marco Agostino Amucano

Pubblicato il 12 March 2017 alle 14:36

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Ολβιανος λιμην, leggasi olbianòs limèn, in greco antico il golfo olbiese. Così il geografo ed astronomo Claudio Tolomeo, nato e vissuto nel II secolo dopo Cristo ad Alessandria d’Egitto ormai finita sotto Roma da un paio di secoli, indicava il golfo di Olbia nella sua Geografia, opera colossale dove il massimo geografo dell’antichità puntualizza tramite coordinate oltre ottomila località a lui note, costituendo così la più completa ed avanzata opera geografica fino al Rinascimento.

Ολβιανος λιμην -olbianòs limèn, sottotitolo: “Storia e natura nel Golfo di Olbia. Continuità e trasformazioni è stato anche il titolo scelto per un importante convegno, svoltosi il 28 gennaio scorso nell’ovattata sede dell’Olbia Expo di via Porto Romano, organizzato dall’associazione culturale Insula Felix e patrocinato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Olbia. Suddiviso in tre sezioni (aspetti storici e paesaggistici; aspetti naturalistici e produttivi; aspetti gestionali) il convegno ha visto succedersi i massimi esperti locali delle varie discipline, dagli archeologi al geologo, dall’architetto al biologo e allo studioso di cartografia antica, per finire a trattare delle attuali, importanti risorse economiche della mitilicoltura, della cantieristica, del traffico passeggeri, dal golfo tutte dipendenti. Da ultimo il sindaco di Olbia, On. Settimo Nizzi, ha parlato del delicato problema della pianificazione del futuro, relativamente al tema del titolo.

[caption id="attachment_74673" align="aligncenter" width="697"] La Carta del Craveri del 1739[/caption]

Pur se non da tutti accolto, lo stimolo alla discussione doveva essere la spettacolare carta geografica del golfo di Olbia, allora Terranova, redatta nel 1739 dall’ingegnere e topografo piemontese Craveri, autore qualche anno dopo, nel 1746, della prima carta attendibile della Sardegna. La relazione ricca, puntuale e competente dell’architetto Sandro Roggio - scopritore, nel senso autentico, di questa pionieristica rappresentazione cartografica custodita all’Archivio di Stato torinese - ha illustrato al foltissimo pubblico in sala la figura del Craveri. Ingegnere topografo di vasta cultura che aveva il singolare vezzo di firmarsi col solo cognome, Craveri fu inviato in Sardegna, passata da pochi anni sotto Regno di Piemonte, con il mandato speciale di relazionare ai sovrani sulle caratteristiche dell’isola, e nello specifico di individuare gli habitat più idonei per l’impianto di eventuali nuovi insediamenti coloniali.

All’epoca le insufficienti conoscenze scientifiche e geodetiche non consentivano di elaborare carte geografiche senza evitare macroscopici errori ed ingenuità nella rappresentazione morfologica e nelle componenti spaziali, prevalendo semmai una rappresentazione pittorica di tipo “vedutistico”.

Il disegno settecentesco del Craveri, gentilmente concessoci in formato digitale per lo studio in corso, è stato oggetto esclusivo della nostra relazione al convegno. Ci limiteremo qui ad una prima sintesi preliminare di quanto abbiamo detto circa il problema secolare dell’ostruzione dell’accesso al golfo interno, partendo dall’osservazione di questo straordinario documento, di cui pubblichiamo qualche stralcio da noi rielaborato. Rimandiamo ad un prossimo articolo su Olbiachefu alcune osservazioni fatte invece sulla pianta del borgo di Terranova, che la carta Craveri rappresenta con dovizia di particolari assai interessanti ed utili per la conoscenza dell’urbanistica medioevale e moderna.

[caption id="attachment_74616" align="aligncenter" width="948"] Particolare della carta del Craveri da noi rielaborata per renderla più leggibile. Il nord è a destra.[/caption]

Se è vero, come ha rimarcato Sandro Roggio, che Craveri “era un bravo topografo, ma non un misuratore in senso stretto”, ancora più preziosa ed eccezionale risulta dunque l’unica misurazione presente nella sua carta, rilevata sullo stretto ingresso al golfo interno, quello che noi olbiesi chiamiamo sempre “Sa Bucca”, La Bocca, oggi dominata e annunciata dal bianco faro, edificato sull’omonima isoletta nell’ultimo quarto dell’Ottocento. In effetti la distanza misurata sulla retta A-C indicata in carta, collegante i due contrapposti estremi di terra (la cuspide del delta del fiume Padrongianos e l’altra presso Cala Saccaia, a nord), ambedue appellati dal Craveri “Punta della Bocca”, è la somma di due segmenti, rispettivamente di 128 (B-C) e 12 (A-B) trabucchi, per un totale di 140 trabucchi. Per chi non lo sapesse, il trabucco era un’unità di misura agraria equivalente a m 3,15, utilizzata fino all’anno 1846, quando la Sardegna passò ufficialmente al sistema metrico decimale. Se ne calcola quindi, e anzitutto, che nel 1739 l’apertura minima de “sa bucca” era di 441 metri, la maggior parte dei quali (128 trabucchi, ossia 403,2 metri) impraticabile a causa del basso fondale. Restava transitabile ai natanti solo una strettoia laterale (“passaggio presentaneo de li bastimenti”) a sud, larga, diciamo così, soli 12 trabucchi (37,8 metri), e che lambiva la vistosa cuspide sabbiosa che delimita ancor oggi la foce del Padrongianos.

[caption id="attachment_74618" align="aligncenter" width="1036"] "Sa Bucca" come ci appare oggi nell'immagine satellitare di Google Earth. Il nord è a destra per il miglior confronto con la precedente immagine.[/caption]

Ora, la prima sorpresa, per chi non è un geologo, potrebbe derivare dal fatto che la misura ricavata dall’attuale foto satellitare di Google Earth si attesti, con i limiti impliciti dell’operazione, intorno ai 370 metri, risultandone così una riduzione non indifferente di circa settanta metri rispetto ad oltre due secoli e mezzo fa. Causa del restringimento (ancora valutato, ripetiamo, in modo assolutamente approssimativo e non definitivo) sono stati i sedimenti alluvionali che in grandissima abbondanza vengono scaricati in questo tratto di litorale dal fiume Padrongianos, evidentemente e fra le altre dinamiche, con particolare, costante e cospicuo accrescimento della cuspide sabbiosa.

[caption id="attachment_74619" align="alignleft" width="367"] "Sa Bucca" nella cartografia IGMI del 1931 (scala 1:25.000, tavoletta Terranova, particolare).[/caption]

A rendere meglio l’idea, il geologo Giovanni Tilocca, che il fenomeno lo ha brillantemente spiegato nella sua relazione al convegno, ha definito il fiume Padrongianos “un mostro dal punto di vista sedimentologico” e come “la zona più vulnerabile da un punto di vista morfodinamico” proprio quella che stiamo considerando. Dunque il “mostro” Padrongianos, con il secondo delta più grande della Sardegna, sarebbe stato il principale responsabile degli inesorabili quanto ragguardevoli restringimento e insabbiamento dell'ingresso naturale al golfo, con il costante rischio di lagunizzazione dello stesso, secondo un'inevitabile tendenza insita nella sua stessa geografia.

Tuttavia le cause di questa ostruzione, che per diversi secoli ha sventuratamente pregiudicato la vita del porto e di Terranova, non furono esclusivamente naturali, ma altresì legate all’uomo e al male che più lo disonora: la guerra. E non si tratta di noncuranza, come qualcuno crede. Sappiamo infatti dalle cronache, e più precisamente e con maggior dovizia di particolari da un memoriale anonimo del 1720, che la decadenza dello scalo risaliva alla spietata guerra tra le repubbliche di Genova e Pisa, allorquando “li genovesi guastarono il porto chiudendo l’imboccatura con galere vecchie, navi ed altri bastimenti pieni di sassi e bettume, di che seguì la distruzione di quella vastissima città”(1). Correva il 1338, anno tragico per Terranova.

Certamente la nuova barriera artificiale così costruita dai Genovesi, che a ben guardare utilizzarono la medesima tecnica usata nel medioevo per creare nuovi moli dei porti, dovette facilitare e trattenere l’accumulo inesorabile dei sedimenti fluviali in quel delicato stretto, rendendo quasi impossibile il transito alle imbarcazioni. Per risolvere il plurisecolare impedimento ci sarebbero volute le draghe a vapore che in età postunitaria, dopo il 1870, iniziarono a liberare l’imboccatura, creando il “canale” che tutti conosciamo.

[caption id="attachment_74621" align="alignright" width="336"] Draga a vapore del XIX secolo[/caption]

Per oltre mezzo millennio Terranova e il suo porto soffrirono dunque la tragica condizione (e contraddizione) di essere, in potenza, uno degli approdi decantato come tra i più sicuri della Sardegna, nella pratica però quasi del tutto inutilizzabile. Non poco ci ha meravigliato, pertanto, chi è andato a raccontare in giro recentemente che Terranova fosse stata tappa nella cinquecentesca “Via delle Spezie” inaugurata dai Portoghesi. Ci si chiede allora cosa ci sia andato a fare Vasco de Gama in India passando per il Capo di Buona Speranza, e che senso abbia avuto la concezione e costruzione di quelle navi di grande stazza che mai e poi mai si sarebbero anche solo immaginate di dirottare dalla rotta oceanica per le Indie andando ad infilarsi nella trappola de “sa bucca” nel XVI secolo! Ricordo altresì a costoro che il canale di Suez è stato aperto solo nel 1869. Stendiamo dunque un pietoso velo e continuiamo.

[caption id="attachment_74622" align="aligncenter" width="2048"] "Sa Bucca" oggi vista dalla cuspide del delta del fiume Padrongianos (foto dell'autore dell'articolo)[/caption]

Per meglio comprendere le condizioni in cui il nostro porto si trovava ad essere come conseguenza di tutte le concause naturali ed antropiche a cui si accennava, ci limiteremo ora a riportare solo alcune cifre forniteci dallo studioso Bruno Anatra per il XVII secolo (2). In uno degli anni tra il 1616-1618, soltanto ventisette imbarcazioni entrarono nello scalo (ventitré barche, tre brigantini e una fregata); mentre in un anno circoscrivibile tra il 1682-1687 le imbarcazioni furono cinquantotto (di cui il 60% di leuti, poi brigantini (31 %) e gondole). Più facile ora comprendere il lungo e non recuperabile declino di Terranova –landa malarica ridotta ad essere abitata da poche centinaia di anime- in quell’interminabile lasso di secoli, risolto solo dall’intervento delle potenti macchine a vapore della seconda rivoluzione industriale. Ma questa è un’altra storia.

1 A. ARGIOLAS - A. MATTONE, Ordinamenti portuali e territorio costiero di una comunità della Sardegna moderna. Terranova (Olbia) in Gallura nei secoli XV-XVIII, in Da Olbìa ad Olbia. Atti del Convegno internazionale di Studi, Olbia, 12-14 maggio 1994, vol. II a cura di G. Meloni e P. F. Simbula, Sassari 1996, pp. 129.

2 B. ANATRA, Il porto di Terranova nel Seicento, in in Da Olbìa ad Olbia. Atti del Convegno internazionale di Studi, Olbia, 12-14 maggio 1994, vol. II a cura di G. Meloni e P. F. Simbula, Sassari 1996, pp. 253 ss.

©Marco Agostino Amucano

Olbia, 12 marzo2017